Anno XLV (2017), Fasc. II, N. 175

Anno XLV (2017), Fasc. II, N. 175

  1. Saggi
    • Tobia R. Toscano

      Per la datazione del manoscritto dei sonetti di Vittoria Colonna per Michelangelo Buonarroti – pp.
      211-238

      Nel ms. Vat. lat. 11539 Enrico Carusi riconobbe nel 1938 la raccolta di 103 sonetti
      spirituali che Vittoria Colonna donò a Michelangelo Buonarroti, datandolo
      tra la fine del 1540 e i primi mesi del 1541 sulla base di una lettera scritta dall’artista
      nel 1551. L’esame delle varianti che investono i sonetti condivisi con altro
      manoscritto di rime di Vittoria Colonna, il Laurenziano Ashburnhamiano 1153,
      databile con sicurezza al primo semestre del 1540, induce ad anticipare l’allestimento
      della raccolta donata a Michelangelo non oltre i mesi finali del 1539.

      In the manuscript Vat. lat. 11539 Enrico Carusi identified, in 1938, a collection of
      103 spiritual sonnets that Vittoria Colonna gave to Michelangelo Buonarroti,
      dating it between the end of 1540 and the early months of 1541 on the basis of a
      letter by the artist penned in 1551. The study of the variants relating to the sonnets
      – also found in another manuscript containing Vittoria Colonna’s rhymes,
      the Laurenziano Ashburnhamiano 1153, datable with certainty to the first half
      of 1540 – suggests that the preparation of the collection given to Michelangelo
      goes back to no later than the final months of 1539.

    • Francesco Rizzo

      Il tema della Annunciazione, tra iconografia e letteratura, nella tradizione di matrice umanistica
      – pp. 239-258

      Il saggio si propone di indagare il ruolo della profezia antica nell’orditura iconografica
      delle Annunciazioni cristiane di età medioevale ed umanistica. L’Annunciazione
      viene a costituire il terreno privilegiato per mostrare come l’arte
      possa mutuare la propria capacità socializzatrice dalla struttura propria del linguaggio.
      Tale interconnessione è mostrata esemplarmente in molti dipinti della
      tradizione pittorica e nei testi di matrice umanistica a forte richiamo profetico.

      This essay delves into the role of ancient prophecy in visual representations of
      Christian Annunciations from the medieval and humanistic age. The theme of
      the Annunciation offers a fine example of how art may draw its social aptitude
      from the structure that typifies language. Such a link becomes apparent in numerous
      works belonging to the pictorial tradition and in strongly prophetic
      humanistic texts.

    • RENATO RICCO

      Lodovico Dolce volgarizzatore del Petrarca epistolografo – pp. 259-274

      Sulla scorta delle ricerche condotte da Susanna Villari circa il lavoro editoriale di
      Dolce sui RVF, in questo saggio si punta l’attenzione, in più piccola scala, sulla
      scelta di epistole operata dal poligrafo veneziano per il volume Epistole di G. Plinio,
      di m. Franc. Petrarca, del s. Pico della Mirandola et d’altri eccellentiss. Huomini
      (Venezia, Giolito, 1548). Ad un’analisi contenutistica e linguistica delle lettere
      prescelte, seguirà un tentativo di inquadramento, a più ampio raggio, dell’operato
      di Dolce all’interno della grande fortuna del genere epistolare nel Cinquecento.

      Following on from research carried out by Susanna Villari regarding Dolce’s
      editorial work on RVF, this essay looks, on a smaller scale, at Dolce’s selection
      of letters for Epistole di G. Plinio, di m. Franc. Petrarca, del s. Pico della Mirandola et
      d’altri eccellentiss. Huomini (Venice, Giolito, 1548). After a thematic and linguistic
      analysis of the letters chosen, the essay attempts to set Dolce’s activity within
      the wider context of the enormous popularity of the epistolary genre in the
      Sixteenth century.

    • UGO M. OLIVIERI

      “L’odore del tabacco”. Intertestualità e modelli letterari nella “Storia filosofica dei secoli futuri “
      di Ippolito Nievo
      – pp. 275-288

      Ippolito Nievo occupa, oggi, un posto di rilievo nel canone narrativo di metà
      Ottocento. A contribuire a tale revisione di modelli interpretativi consolidati è
      anche una critica ermeneutica che studia le influenze inter-testuali presenti nei
      suoi testi, anche in quelli più laterali come La Storia filosofica dei secoli futuri che
      apre inedite prospettive su una visione nieviana della storia ben diversa dall’ottimismo
      storico delle Confessioni.

      Today, Ippolito Nievo is perceived to be a major writer within the mid-Nineteenth-
      century literary canon. A contributing factor to this revision of consolidated
      interpretative models stems from a hermeneutic critical approach that
      studies intertextual influences within his texts, including minor works such as
      La Storia filosofica dei secoli futuri that sets out a vision of history quite unlike the
      historical optimism to be found in Confessioni.

    • Giovanni Maffei

      La prima formazione di Federico De Roberto: la questione della lingua e le risorse della scienza
      pp. 289-316

      Si offrono in lettura alcune considerazioni sulla prima formazione linguistica e
      letteraria di Federico De Roberto, in rapporto al contesto cittadino, regionale e
      nazionale. Si mette a fuoco l’incidenza della formazione tecnico-scientifica dello
      scrittore e in risalto il senso della sua ricerca espressiva: da una personale
      questione della lingua (lo studio di possedere quella propria e corretta), all’approdo
      dello stile: la «tormentosa gioia» e l’avventura flaubertiana della forma.

      This essay sets out various thoughts concerning the early linguistic and literary
      schooling of Federico De Roberto in relationship to the urban, regional and
      national context. Emphasis is placed on the importance of the technical-scientific
      schooling of the writer and the sense of his search for expression: from a
      personal “questione della lingua” (the effort to acquire a specifically individual
      and correct language) to the obtainment of a style; the “tormented joy” and the
      Flaubertian adventure of form.

    • ALESSANDRO BALDACCI

      Giorgio Bassani e la “ricerca del dolore” – pp. 317-328

      L’articolo è dedicato alla ricezione della poetica Reiner Maria Rilke nella fase
      iniziale dell’opera di Bassani. L’analisi si sofferma in particolare sulle caratteristiche
      della lettura bassaniana delle Lettere a un giovane poeta e delle Elegie duinesi,
      sottolineando come lo scrittore ferrarese si muova fra gli influssi dell’ambiente
      ermetico (da Vincenzo Errante a Leone Traverso e Mario Luzi) e l’impegno
      civile e politico dell’antifascismo, a partire dall’incontro con Giuseppe
      Dessì e Claudio Varese.

      This article is devoted to Giorgio Bassani’s reading of Rainer Maria Rilke during
      the early phase of his writing. In particular, the analysis dwells on the characteristics
      of Bassani’s reading of Letters to a Young Poet and Duino Elegies, highlighting
      how the writer from Ferrara both came under the influence of Hermetic
      circles (from Vincenzo Errante to Leone Traverso and Mario Luzi) and
      pursued the civic and political engagement of Antifascism, thanks to his meeting
      with Giuseppe Dessì and Claudio Varese.

  2. Meridionalia
    • Francesco Save rio Minervini

      Michelangelo Grisolia, un pontaniano alla fine del Settecento – pp. 329-348

      Le opere di Giovanni Pontano, la vitalità della lingua, l’articolazione della prosa,
      il contenuto etico dei suoi trattati vengono riscoperti e attualizzati nel XVIII
      secolo dall’abate Michelangelo Grisolia (1751-1794), “regio professore di etica
      nell’accademia militare”. Nelle traduzioni dell’abate calabrese si coglie una armoniosa
      fusione tra le considerazioni filologiche e linguistiche e le coeve inquietudini
      riformatrici dello studio napoletano, particolarmente sensibile alla
      tematica politica e culturale di cui Pontano garantiva un illustre e paradigmatico
      precedente teorico e pratico.

      The works of Giovanni Pontano, the vitality of his language, the articulation of
      his prose, the ethical subject-matter of his treatises were rediscovered and updated
      in the Eighteenth century by the abbot Michelangelo Grisolia (1751-1794),
      “royal professor of ethics in the military academy”. The translations of the Calabrian
      abbot show a harmonious blend of philological and linguistics remarks
      together with contemporary anxieties of reform within the Neapolitan university,
      the latter being especially sensitive to political and cultural issues regarding
      which Pontano offered an illustrious and paradigmatic precedent on a theoretical
      and practical level.
      Sul finire del XVIII secolo un

  3. Contributi
    • Annalisa Comes

      Anatomia, ermeneutica psicanalitica e critica del testo – pp. 349-356

      La crisi dell’ermeneutica psicanalitica freudiana si consuma all’interno del
      freudismo con Carl Gustav Jung, attraverso un rifiuto della riduzione dell’analisi
      dell’opera d’arte a pura biologia, proprio come quella del lachmannismo –
      che è in sostanza la crisi della scientificità della filologia, e nella prassi ecdotica
      del metodo ricostruttivo – matura tutta all’interno della famiglia lachmanniana
      con Joseph Bédier, allievo ‘lachmanniano’ di Gaston Paris. L’autrice, prendendo
      a spunto un brano del romanzo di Andrew Miller, Il talento del dolore (1997), riflette
      sul parallelismo dei due percorsi.

      Just as the crisis of psychoanalytic Freudian hermeneutics took place within
      Freudianism through Carl Gustav Jung, in the refusal to reduce the analysis of
      the work of art to pure biology, so that of Lachmann-inspired philology – which
      is, in essence, the crisis of the scientific nature of philology, and in the ecdotic
      praxis of the reconstructive method – came into being entirely from within the
      Lachmannian school thanks to Joseph Bédier, a Lachmannian scholar trained
      by Gaston Paris. The author, taking her lead from a passage in a novel by Andrew
      Miller Ingenious pain (1997), looks at the similarities linking the two developments.

    • Monica Bisi

      «Pellegrini della forma»: la conversione della scrittura ne Le farfalle di Gozzano – pp. 357-380

      Le particolari scelte retoriche con le quali Gozzano dà forma alle metamorfosi
      dei bruchi e poi alla vita delle farfalle nelle Epistole entomologiche, nella loro
      stretta corrispondenza con la materia dinamica che rappresentano, inducono a
      ipotizzare che l’autore abbia compiuto un effettivo cambiamento di prospettiva,
      almeno formale, rispetto alle prime due raccolte. Sullo sfondo degli intarsi
      danteschi, da un lato, e del pensiero filosofico ereditato dal primo Novecento,
      dall’altro, il contributo vuole mettere in luce quelle che sembrano le caratteristiche
      peculiari dell’«altra voce» con cui Gozzano promette di tornare poeta dopo
      i Colloqui.

      The particular rhetorical choices through which Gozzano gives form to the
      metamorphoses of caterpillars and then to the life of butterflies in Epistole entomologiche,
      in their close correspondence with the dynamic material they represent,
      suggest that the author may indeed have changed perspective, at least
      formally, compared to his first two collections. Against the backdrop of borrowings
      from Dante and a philosophical outlook inherited from the first half of the
      Twentieth century, this study aims to demonstrate the peculiarities of that “other
      voice” with which Gozzano promised to return after the Colloqui.

    • Agata Irene De Villi

      Il volto mistico dell’erotica in Mario Soldati – pp. 381-398

      Soffermandosi su Le lettere da Capri, il presente studio analizza la natura e le
      forme che l’eros assume nella pagina soldatiana, leggendolo alla luce di quella
      religiosità secentesca promossa dallo scrittore torinese a chiave euristica dei
      fenomeni dell’esperienza, nella cui ottica il libertinismo si presenta come lo
      specchio rovesciato dell’amore mistico, entrambi testimoni di una mancanza
      originaria, di una perdita inaccettata e tuttavia irrisarcibile, che condanna l’individuo
      a un’erranza permanente.

      Examining Le lettere da Capri, this essay analyses the nature and forms of eros in
      Soldati’s writing from the standpoint of that Seventeenth-century religiosity
      fostered by the writer from Turin in an effort to understand heuristically the
      phenomena of existence. Libertinism proves to be the flip side of mystic love,
      both bearing witness to an original lack, to an inacceptable and irreversible loss
      that constrains the individual to wander perpetually.

    • Emmanuele Colonna

      Dino Claudio, Incontri nella nebbia, Torino 2016 – pp. 422-423

  4. Note e discussioni
    • Paola Villani

      Il secondo mestiere di Ungaretti – pp. 399-406

  5. Recensioni
    • Laelio Graffige

      Mario Aversano, Dante, Iacopone da Todi e il canto XXXIII del Paradiso, Manocalzati (Avellino) 2015
      – pp. 405- 407

    • Daniela De Liso

      Giovanni Pontano, Il dialogo di Antonio e il canto di Sertorio, a cura di F. Tateo, Napoli, 2015;
      Giovanni Pontano,
      Il dialogo di Caronte, a cura di F. Tateo, Napoli 2016
      – pp. 407-410

    • Fara Autiero

      Giampiero Di Marco, In mezzo al guado. Pasquale De Luca (1856-1929), Napoli 2016 – pp. 411

    • Fara Autiero

      Eduardo De Filippo e il teatro del mondo, a cura di Nicola De Blasi e Pasquale Sabbatino, Milano
      2015
      – pp. 412

    • Fara Autiero

      Il teatro fra scrittura e pratica della scena. Per Franco Carmelo Greco, a cura di P. Sabbatino e G.
      Scognamiglio, Napoli
      2015
      – pp. 413-414

      Greco Franco Carmelo

    • Franco Quaccia

      Poesia religiosa nel Novecento, a cura di Maria Luisa Doglio e Carlo Delcorno, Bologna 2016 – pp.
      414-417

    • Pietro Sisto

      Il libro al centro. Percorsi fra le discipline del libro in onore di Marco Santoro. Studi promossi da
      R.M. Borraccini, A. Petrucciani, C. Reale, P. Zito, a cura di C. Reale, Napoli 2014
      – pp. 417-419

    • John Butcher

      Narrare l’Alto Adige. 25 anni di racconti intorno alla provincia meno italiana d’Italia. Un’antologia,
      a cura di Toni Colleselli, Meran-Merano 2015
      – pp.

Saggi
Tobia R. Toscano
Per la datazione del manoscritto dei sonetti
di Vittoria Colonna per Michelangelo Buonarroti
Nel ms. Vat. lat. 11539 Enrico Carusi riconobbe nel 1938 la raccolta di 103 sonetti
spirituali che Vittoria Colonna donò a Michelangelo Buonarroti, datandolo
tra la fine del 1540 e i primi mesi del 1541 sulla base di una lettera scritta dall’artista
nel 1551. L’esame delle varianti che investono i sonetti condivisi con altro
manoscritto di rime di Vittoria Colonna, il Laurenziano Ashburnhamiano 1153,
databile con sicurezza al primo semestre del 1540, induce ad anticipare l’allestimento
della raccolta donata a Michelangelo non oltre i mesi finali del 1539.

In the manuscript Vat. lat. 11539 Enrico Carusi identified, in 1938, a collection of
103 spiritual sonnets that Vittoria Colonna gave to Michelangelo Buonarroti,
dating it between the end of 1540 and the early months of 1541 on the basis of a
letter by the artist penned in 1551. The study of the variants relating to the sonnets
– also found in another manuscript containing Vittoria Colonna’s rhymes,
the Laurenziano Ashburnhamiano 1153, datable with certainty to the first half
of 1540 – suggests that the preparation of the collection given to Michelangelo
goes back to no later than the final months of 1539.
1. Questo contributo nasce dalla lettura della tesi dottorale che Veronica
Copello ha dedicato all’Edizione commentata della raccolta donata
da Vittoria Colonna a Michelangelo Buonarroti (ms. Vat. lat. 11539) discussa
all’università di Pisa nell’aprile 2016.1 Nella folta tradizione manoscritta
delle rime della Marchesa di Pescara il Vat. lat. 11539 (= V2)2 è il
testimone dotato di maggior fascino e per l’eccezionalità del destinatario
e per la sua natura di unica raccolta sopravvissuta, tra quelle di
Autore: Università degli Studi di Napoli Federico II; prof. associato; tobia.toscano@
unina.it
1 Della tesi in cotutela tra le Università di Pisa e di Ginevra sono stati relatori
Maria Cristina Cabani e Giovanni Bardazzi.
2 Per i manoscritti adotto le sigle utilizzate da Alan Bullock per la sua edizione
delle Rime di Vittoria Colonna (Roma-Bari, Laterza, 1982). Anche la numerazione
dei componimenti fa riferimento alla medesima edizione.
Saggi
212 tobia r. toscano
cui si ha notizia, allestita sotto il controllo dell’autrice in una fase per
altro che registra il definitivo abbandono della tematica memoriale incentrata
sulla rievocazione del defunto Ferrante Francesco d’Avalos a
favore di una inquieta e approfondita riflessione sugli aspetti più cruciali
dell’esperienza religiosa. Grazie al lavoro puntuale di trascrizione
e commento è possibile ora una lettura organica della raccolta3 con
il corredo di un apparato che registra, per i sonetti condivisi, le varianti
delle Rime spirituali stampate da Valgrisi a Venezia nel 1546 (= 46V)
da considerarsi, pur trattandosi di edizione non autorizzata,4 l’approdo
finale di una complessa elaborazione testuale. Si dirà una volta di
più che la scelta di corredare di apparato i singoli componimenti rende
più agevole verificare i movimenti del testo per il lettore fin qui
costretto a misurarsi con le intricate tavole allestite da Alan Bullock
per la sua edizione critica.
Per parte mia ho potuto giovarmi del lavoro di Veronica Copello
per operare un confronto sistematico della lezione di V2 con quella del
ms. Ashburnham 1153 della Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze
(= L) allestito nel 1540,5 un pergamenaceo impreziosito in antiporta
da «uno scudo partito, insegna di Margherita duchessa d’Angoulême»,
come ben vide Domenico Tordi,6 che tuttavia un po’ affrettatamente lo
volle identificare con il manoscritto al cui allestimento aveva operato
Carlo Gualteruzzi con la supervisione di Bembo. Non si intende qui
tornare su tale questione, che ha registrato varie messe a punto negli
ultimi decenni,7 quanto piuttosto verificare sulla base del confronto
3 Va ricordato che l’interesse per V2 aveva già prodotto negli USA un’edizione
corredata di traduzione: Vittoria Colonna, Sonnets for Michelangelo: A Bilingual
Edition, edited and translated by Abigail Brundin, Chicago, University of Chicago
Press, 2005.
4 La notizia si rileva da una preoccupata lettera di Donato Rullo, agente di
casa Colonna a Venezia, che il 13 novembre 1546 chiedeva ad Ascanio Colonna di
mitigare le ire di Vittoria «la quale intendo essere S. Ecc.tia mutinata contro di me,
perché io le hebbi date a stampare, o perché io non habbi proibito»: la lettera fu
resa nota da Domenico Tordi, Il codice delle rime di Vittoria Colonna marchesa di Pescara
appartenuto a Margherita d’Angoulême regina di Navarra […], Pistoia, Lito-Tipografia
G. Flori, 1900, pp. 4-5.
5 Sonetti de più et diverse materie della divina signora Vittoria Colonna Marchesa di
Pescara con somma diligenza revisti et corretti nel anno. M.D.XL.
6 D. Tordi, Il codice delle rime di Vittoria Colonna, cit., p. 23.
7 Per la bibliografia fino al 2005 si rinvia alla documentata scheda di A[ntonio]
C[orsaro] nel catalogo della mostra Vittoria Colonna e Michelangelo, a c. di Pina
Ragionieri, Firenze, Mandragora, 2005, pp. 129-30. Gli studi successivi saranno
citati quando occorrerà.
[ 2 ]
per la datazione del manoscritto dei sonetti di vittoria colonna 213
della varia lectio per i sonetti condivisi da V2 e L se si possa ricavare
qualche indizio utile a una datazione più calibrata di V2, fin qui fissata
tra il 1540 e il 1541, sulla scorta essenzialmente di una lettera indirizzata
da Michelangelo al nipote Leonardo il 7 marzo 1551:
Messer Giovan Francesco mi richiese circa un mese fa di qualche cosa
di quelle della marchesa di Pescara, se io n’avevo. Io ò un Librecto in
carta pecora, che la mi donò circa dieci anni sono, nel quale è cento tre
sonecti, senza quegli che mi mandò poi da Viterbo in carta bambagina,
che son quaranta, i quali feci legare nel medesimo Librecto e in quel
tempo gli prestai a molte persone, in modo che per tucto ci sono in
istampa. Ò poi molte lectere che la mi scrivea da Orvieto e da Viterbo.
Echo ciò ch’io ò della Marchesa.8
Gli essenziali riferimenti alla materialiatà del Librecto in carta pecora
e al suo contenuto (103 sonetti) consentirono a Enrico Carusi nel 19389
di identificare il dono poetico della Marchesa di Pescara nel ms. Vat.
lat. 11539 e, detraendo i circa dieci anni, di conseguenza datarlo tra la
fine del 1540 e gli inizi del 1541. In più, nel son. 99 di V2 (S1: 141) Figlio
e signor, se la tua prima e vera | madre vive prigion […], indirizzato al
card. Reginald Pole, il chiaro riferimento alla carcerazione della madre
di lui Margaret, come ben rileva Veronica Copello (p. 7), induce a fissare
i confini cronologici della raccolta tra il 27 maggio 1541, data della
morte di lei, e il novembre del 1538, data della carcerazione. Ai fini
di una individuazione del terminus post quem entra in gioco anche il
son. 98 (S1: 137) rivolto a Pietro Bembo (Diletta un’acqua viva a piè d’un
monte) che potrebbe contenere un riferimento alla sua nomina a cardinale,
ufficializzata il 19 marzo 1539, sebbene fosse stato eletto, ma riservato
in pectore il precedente 20 dicembre 1538.10
2. Tanto premesso, mentre per il ms. L la data dell’allestimento (1540)
è segnata sul frontespizio, per V2, in assenza di date sul ms. o di lettere
8 Michelangelo Buonarroti, Il carteggio […], edizione postuma di Giovanni
Poggi, a cura di Paola Barocchi e Renzo Ristori, Firenze, Sansoni-S.P.E.S.,
1965-1983, vol. IV, pp. 361-62.
9 Enrico Carusi, Un codice sconosciuto delle “Rime Spirituali” di Vittoria Colonna,
appartenuto forse a Michelangelo Buonarroti, in Atti del IV Congresso Nazionale di
Studi Romani, a cura di Carlo Galassi Paluzzi, Roma, Istituto di Studi Romani,
1938, vol. IV, pp. 231-41.
10 Cfr. Carlo Dionisotti, voce Bembo, Pietro per il Dizionario biografico degli
italiani VIII (1966), ora in Id., Scritti sul Bembo, a cura di Claudio Vela, Torino, Einaudi,
2002, p. 163.
[ 3 ]
214 tobia r. toscano
di accompagnamento, i pochi riferimenti interni indicano un intervallo
di tempo tra le ultime settimane del 1538 e i primi mesi del 1541. In generale
gli studiosi della tradizione manoscritta di Vittoria Colonna, fondandosi
su dati di contesto, assumono pacificamente la recenziorità di
V2 rispetto a L. Le osservazioni che seguono nascono dalla collazione
sistematica della varia lectio che interessa i 52 sonetti condivisi dai due
testimoni, che è un numero doppo rispetto ai 26 indicati da Carusi (in
ciò seguito da Dionisotti),11 come nel prospetto che segue, avvertendo
che in terza e quarta colonna le indicazioni 1538 e 1540 rinviano alle
edizioni delle Rime di Vittoria Colonna, stampate a Parma e a Venezia,12
mentre in ultima colonna si indica la numerazione in Rime spirituali disperse,
in cui Bullock ha compreso le rime non stampate in 46V:
V2 L 1538 1540 46V S2
1 87 124 29 1
3 72 16 54
4 73 133 21 93
5 62 6 50
6 63 17 83
8 64 32
9 65 14 22
10 78 15 55
11 79 14 18
13 74 24 92
14 75 11 57
15 76 132 35 95
16 77 8 132
17 60 10 98
18 61 135 25 51
21 66 4 52
22 77 9 84
23 68 7 53
24 69 134
25 58 11
26 59 120 121
11 E. Carusi, Un codice sconosciuto, cit., p. 237; C. Dionisotti, Appunti sul Bembo
e Vittoria Colonna [1981], in Id., Scritti sul Bembo, cit., p. 138.
12 Si tratta dei testimoni a stampa cronologicamente più prossimi agli anni di
allestimento di V2 e L.
[ 4 ]
per la datazione del manoscritto dei sonetti di vittoria colonna 215
V2 L 1538 1540 46V S2
27 70 2
28 71 56
29 80 19
30 93 23
31 81 27
32 21 18 124
33 22 123
34 27 29
36 23 113
37 24 112
38 26 31
41 17 17
42 29 108
43 30 107
44 31 105
45 28 23
46 18 30
47 19 3
48 20 117
49 3 133
50 8 25
51 32 103
52 10 104
53 11 101
54 4 129
55 5 34
56 6 19
57 7 22
61 9 30
95 1 96 28 100
100 2 110
2.1. Isolando il blocco di sonetti testimoniati esclusivamente da V2
e L e non confluiti nell’edizione 46V si osserva una sostanziale concordanza
in lezione, guastata da qualche errore di L determinato più dalla
fretta o dalla distrazione del copista che da guasti dell’antigrafo.13
13 Per parte sua, V2 non denuncia errori di lettura, bensì qualche rada correzio-
[ 5 ]
216 tobia r. toscano
Questo il dettaglio, al netto delle varianti grafiche (i numeri indicano
nell’ordine: la posizione in V2 e in L, in parentesi la numerazione
dell’ed. Bullock; sul margine le varianti di L rispetto a V2):
27 70 (S2: 2), 1-4:
Non senza alta cagion la prima antica
legge il suo paradiso a noi figura
di latte e mel, perché candida pura candida e pura
fede e soave amor l’alma nutrica […]
L’inserzione della congiunzione a 3 può ricondursi a intervento del
copista, mentre nell’esempio che segue il passaggio da suo a tuo implica
un errore di lettura nel contesto di un sonetto in cui il possessivo di
terza persona di riferisce a Gesù Cristo che illumina della sua luce i
beati in paradiso (con ulteriore uso di suo a 11: «de l’innocente suo
sangue beato»):
38 26 (S2: 31), 7-8:
e come d’ogn’intorno
un raggio del suo sol gli orni ed ammanti tuo.
Solo varianti grafiche si osservano a
45 28 (S2: 23)
47 19 (S2: 3)
55 5 (S2: 34).
Lezioni erronee a
46 18 (S2: 30), 4-6:
solo il suo cibo e se medesmi amando, medesimi
quanto gode il pensiero oggi mirando
undici mila bei guerrieri alati, a lato:
a 4 medesimi per medesmi produce ipermetria, mentre a 6 a lato per alati
in rima con armati non dà senso.14 Identica osservazione per
56 6 (S2: 19), 8-9:
onde con fede ancor per grazia spera vera
l’alma in Dio forte aver per segno caro.
ne operata dal copista, puntualmente segnalata da V. Copello (p. 3) e che sarà richiamata
quando coinvolga i testi di seguito analizzati.
14 Il sonetto fu stampato da D. Tordi, Il codice delle rime di Vittoria Colonna, cit.,
p. 38, che corresse le due lezioni senza darne avviso.
[ 6 ]
per la datazione del manoscritto dei sonetti di vittoria colonna 217
Nonostante l’esiguità, il campione può indicare che i sette sonetti
derivino da una fonte comune in qualche punto travisata dal copista
di L. La medesima conclusione si può formulare anche per due sonetti
non transitati in 46V, tuttavia letti da vari testimoni: il primo, 8 64 (S2:
32), concorda in tutto con V2; il secondo esibisce una lieve variante:
9 65 (S2: 22), 5:
Di mille rai da pria consperso intorno raggi pria,
che a valle di uno spoglio più sistematico si palesa essere lectio singularis
di L.15
2.2. Più numerosi e di maggiore interesse ai fini di una taratura
della diacronia variantistica i sonetti testimoniati solo da V2 e L e successivamente
stampati in 46V, spesso radicalmente mutati nella lezione
a riprova dell’assiduo labor limae dispiegato da Vittoria Colonna
nella fase finale della sua attività.
Si indicano in prima battuta i sonetti in cui si osservano solo varianti
grafiche con divergenze non sostanziali in lezione di L da V2
che, più che rinviare a diversità di antigrafi, sembrano dovuti a lapsus
calami del copista di L. Presentano solo varianti grafiche:
28 71 (S1: 56)
34 27 (S1: 29)
49 3 (S1: 133).
Errori di lettura attribuibili al copista si riscontrano in
25 58 (S1: 11), 5-8:
Questo ammirar fa il saggio, e non l’accende
al vero ardor ne la sua parte interna, della
ma ben l’enfiamma quella umile eterna
bontà ch’in croce sol se stessa offende. stesso
A 6 46V legge con la, a 8 concorda ovviamente con V2. La lezione
errata a
29 80 (S1: 19), 7:
la cui virtù da noi fuga l’errore fugga
15 Concordano con V2 i mss. A (cod. Y.14 sup. della Biblioteca Ambrosiana di
Milano), Cas1 (cod. 897 (D.VI.38) della Biblioteca Casanatense di Roma), Ra (cod.
2051 della Biblioteca Angelica di Roma) e la stampa del 1540, caratterizzata a sua
volta da qualche errore e da varianti proprie.
[ 7 ]
218 tobia r. toscano
appare evidente banalizzazione, mentre a
36 23 (S1: 113), 9 e 12:
O con Pietro il mio core, alor ch’io sento che sento
E s’al lor l’esser mio già non risponde s’a lor il mio esser
le divergenze sembrano frutto di affrettata esecuzione. Ancora sviste
che producono una lezione erronea a
42 29 (S1: 108), 8:
portava a l’alma novo alto diletto intelletto,
o scrizioni erronee a
43 30 (S1: 107), 12:
Lo scudo de la fede in voi sofferse | il mortal colpo s’offerse,
44 31 (S1: 105), 4:
precetti andaste voi più sempre ardente pur
Modica variante a
48 20 (S1: 117), 5:
adorasti il supplizio empio inumano empio e
riconducibile a iniziativa del copista, mentre il sonetto dedicato agli
Innocenti Martiri può essere assunto come specchio di più articolata
campionatura della fretta alquanto disinvolta del copista di L:
50 8 (S1: 25), 2, 6 e 13:
duca parte e vi lascia soli inermi Padre
incide e spezza i bei teneri germi terreni
i vanni, o cari e pargoletti amori Giovanni
Alla stessa fenomenologia possono ricondursi microvarianti, errori
e infrazioni prosodiche che investono in varia misura
52 10 (S1: 104), 5, 7 e 13:
le parole, che pria l’orecchia intese l’orecchie
con Dio immortal quel grado ora in ciel prende grado in
aperse gli occhi, e li spirti ebbe accensi i
54 4 (S1: 129), 6:
insuperbîr, dal proprio amor legati da
57 7 (S1: 22), 10 e 13:
diede al superbo quella alta mercede piede
[ 8 ]
per la datazione del manoscritto dei sonetti di vittoria colonna 219
e solo a quei che l’odio con l’amore
avean vinto, e la legge con la fede, vinto la
61 9 (S1: 30), 4 e 10:
Ivi si vede aver, nudo ed esangue Qui
vittoria, che morendo ei vinse e sciolse e
100 2 (S1: 110), 2, 4 e 8:
e gli occhi nostri il tuo mortal ponesti gli (ipom.)
da mirar fiso nel suo lume altero bel
d’ombroso e grave candido e leggero grave e.
2.3. Se i sonetti fin qui collazionati non si oppongono all’ipotesi di
una dipendenza di L e V2 da una fonte sostanzialmente affine, nella
cui riproduzione il responsabile di L lascia sovente tracce di un procedere
distratto e talvolta trasandato, non mancano casi evidenti in cui
l’assetto testuale si muove lungo una linea evolutiva in cui V2 appare
latore di una lezione intermedia tra L, testimone di una prima redazione,
e l’approdo finale di 46V. Si consideri il caso di
33 22 (S1: 123)
L V2
Francesco, in cui sì come in umil cera
con sigillo d’amor sì vive impresse
le sue piaghe Gesù, che sol t’elesse
a mostrarne di sé l’imagin vera,
quanto ti strinse ed a te quanto intera
die’ la sua forma e le virtuti istesse
onde fra noi per la sua sposa eresse
il tempio il seggio e l’alma insegna altera! e ’l
La qual l’alzaro a più sublime stato Povertade, umil vita e l’altre tante
povertade, umil vita e l’altre tante grazie l’alzaro al più sublime stato,
gratie ch’or va perdendo bassa e vile quanto or per suoi contrari è
L’amasti in terra, or prega, in ciel beato,
ch’ella ritorni, omai pura e gentile, pura gentile
a l’antico costume, a l’opre sante. ai pensieri, ai desiri
Mentre la fronte è identica, tranne una lieve variante a 8, da L a V2
si realizza una corposa redistribuzione del primo terzetto che comporta
una diversa configurazione dello schema rimico del secondo (CED
in L, DEC in V2), interessato da una modica variante a 13 e una più
vistosa a 14.
Nella redazione finale trasmessa da 46V si opera un radicale mutamento
di prospettiva: la considerazione sulla decadenza morale della
Chiesa (La qual di L e l’alzaro di V2 sono relativi riferibili alla sposa di
[ 9 ]
220 tobia r. toscano
Cristo evocata a 7), conseguenza dell’abbandono dell’originaria purezza
evangelica, viene rifunzionalizzata nella positiva assunzione
della stessa da parte di san Francesco, cui il sonetto è rivolto, al quale
Vittoria chiede la grazia di poterne seguire l’esempio:
V2 46V
Povertade, umil vita e l’altre tante
grazie l’alzaro al più sublime stato, t’alzaro
quanto or per suoi contrari è bassa e vile. più ti tenesti e basso
L’amasti in terra, or prega, in ciel beato, beato
ch’ella ritorni, omai pura gentile, spirto ch’io segua la bell’orma umile,
ai pensieri, ai desiri, a l’opre sante. i … i … e.16
Ancora sulla linea evolutiva L → V2 → 46V sembra collocarsi la
variante a
37 24 (S1: 112), 14:
s’il vostro ben fra tanto mal gli piacque L cotanto il vostro ben oprar V2 46V.
2.4. Non mancano tuttavia esempi di segno opposto che inducono
a revocare in dubbio la costante linearità del processo variantistico in
precedenza schematizzato, giacché in alcuni casi la lezione di L o si
allinea a 46V contro V2 o è leggibile come stadio intermedio tra V2 e
46V:
51 32 (S1: 103), 9-11:
Ma non conviene andar coi stretti umani conviene con li stretti L
convien con gl’imperfetti 46V
termini a misurar gli ordini vostri, termini misurar L 46V
troppo al nostro veder larghi e lontani erti L 46V,
dove ciò che rende affini le lezioni di L e 46V sono la soppressione del
16 Convengo con Giovanni Bardazzi, Intorno alle rime spirituali di Vittoria Colonna
per Michelangelo, in La lirica del Cinquecento. Seminario di studi in memoria di
Cesare Bozzetti (Pavia 13-14 dicembre 2001), a cura di Renzo Cremante, Alessandria,
Edizioni dell’Orso, 2004, pp. 83-105 (= p. 98), nel ritenere che il testo di 46V
appaia depotenziato e ridotto a «elogio ormai topico delle virtù del santo», venendo
meno «quell’ardore e quel piglio combattivo […] che la Colonna assume nel
corso della pluriennale militanza (a partire dal 1534) in favore dei Cappuccini».
Semmai occorrerà interrogarsi se l’attenuazione o l’azzeramento di certe punte
polemiche non sia conseguenza del mutamento di clima determinato dalla fuga di
Ochino in terra protestante e valutare se in qualche caso non ci si trovi al cospetto
di varianti coatte d’autore determinate dall’esigenza di evitare una eccessiva esposizione.
[ 10 ]
per la datazione del manoscritto dei sonetti di vittoria colonna 221
fraseologico andar e la concordanza significativa a 12 (erti vs larghi).
L’esempio che segue registra a sua volta la compresenza della varia
casistica fin qui repertata all’interno del medesimo sonetto 53 di V2, 11
di L (S1: 103), in cui L e V2 concordano a 6 e a 10 contro 46V:
del mondo vile e i vari empi contrasti vani 46V
d’una vergine e madre, ed ora inseme vergine madre 46V,
mentre L a sua volta è solidale con 46V contro V2 a 4 e a 12:
col velo virginal sua luce pura vel virgineo tuo L 46V
onde là su nel bel sempre sereno sempre bel L 46V,
esibendo a 14 una lezione diversa da V2 e 46V:
al fedel qui la viva e cara speme servo qui la cara V2 46V.17
2.5. Venendo infine ai sonetti a testimonianza plurima, sono frequenti
i casi di varia lectio che scandiscono un movimento del testo
secondo la linea L → V2 → 46V e per i quali basti l’esempio del son.
Poi che ’l mio casto amor gran tempo tenne che nel passaggio da L a V2 è
interessato da una radicale riscrittura che, al netto di due lievi varianti
a 5 e a 8, rimane stabile in 46V, segno della funzione strategica che il
sonetto viene ad assumere nel momento in cui viene adibito a sonetto
proemiale non solo in V2 ma anche in 46V:
1 87 (S1: 1)
L V2
Il cieco onor del mondo un tempo tenne Poi che ’l mio casto amor gran
l’alma di fama vaga e quasi un angue accesa, ed ella
se nodrìa in seno ond’or piangendo langue in sen nudrìo, per cui dolente or
volto al Signor da cui il remedio venne, volta … onde
i santi chiodi omai sian le mie penne, sian le V2 sieno mie 46V
e puro inchiostro il pretioso sangue,
purgata carta il sagro corpo esangue, vergata
sì ch’io scriva nel cuor quel ch’ei sostenne. ad altrui V2 per me 46V
Il fuoco uman con voci e con sospiri Chiamar qui non convien Parnaso o Delo
17 V. Copello (p. 4) osserva che sui vv. 4 e 12 il copista di V2 è intervenuto
successivamente per modificare la lezione originaria, «col virginal velo la sua luce
pura», prima sottolineando la per sanare l’ipermetria, quindi ripristinando una
più canonica accentuazione ponendo il n. 2 su virginal e il n. 1 su velo, utilizzando
la stessa procedura sul sintagma bel sempre che dovrà leggersi sempre bel, allineando
in tal modo la lezione a L e 46V.
[ 11 ]
222 tobia r. toscano
si dee far noto, ma il divin ch’è dentro ch’ad altra acqua s’aspira, ad altro monte
s’interni a l’alma, a Dio si mostri solo. si poggia, u’ piede uman per sé non sale.
Chi guarda il gran principio, non respiri Quel sol, che alluma gli elementi e ’l cielo,
con altr’aura immortal, che sin’al centro prego ch’aprendo il suo lucido fonte
d’ogni ben se n’andrà sicuro a volo. mi porga umor a la gran sete eguale.
L descrive il testo della princeps del 1538,18 che di lì transita con la
medesima lezione nelle edizioni successive fino al 1540, riproducendo
l’errore di concordanza a 4 (volto per volta riferibile ad alma di 2) e il
poco comprensibile aggettivo immortal di 13, emendabile in mortal sulla
scorta di Pa1 (cod. Pal. 557 della Biblioteca Palatina di Parma) e R
(cod. 2835 della Biblioteca Riccardiana di Firenze).19 Mette conto rilevare
che prima di essere riscritto come sonetto inaugurale di un secondo
e radicalmente mutato tempo di scrittura, nella prima stesura appare
pensato come presa d’atto della incomunicabilità di un esercizio
poetico che scelga come unica fonte di ispirazione il mistero della croce
di Cristo, donde la significativa trafila a 8 scriva nel cuor L → scriva
ad altrui V2 → scriva per me 46V, che implica in sede di prima formulazione
la scelta di una scrittura tutta interiore da confinare gelosamente
nei recessi dell’anima visibili solo a Dio, in contrapposizione alla scrittura
materiale sentita come strumento espressivo, per lei ormai impraticabile,
da utilizzarsi solo per raccontare l’amore umano («Il fuoco
uman con voci e con sospiri | si dee far noto, ma il divin ch’è dentro |
s’interni a l’alma, a Dio si mostri solo»). La variante al v. 8 comporta il
superamento della rinuncia alla scrittura e il farsi strada della possibilità
di rendere partecipe del rinnovato esercizio poetico un selezionatissimo
pubblico (ad altrui di V2) per poi approdare all’idea finale di
una meditazione esperita come personalissimo itinerarium mentis in
Deum (per me di 46V), quindi imponendo il totale rifacimento della
sirma, che richiama, prendendone le distanze, il sonetto proemiale di
Bembo, riconducendo a Dio l’unica e vera fonte di ispirazione del suo
poetare20. Residui di una fase redazionale anteriore a V2 anche nel
18 Rime de la divina Vittoria Colonna Marchesa di Pescara […], Parma, [Viotti],
1538, c. I3v, n. 124 secondo la numerazione di Bullock (p. 479), n. 132 computando
anche i sonetti che non sono di Vittoria Colonna.
19 Cfr. A. Bullock, Nota sul testo, in V. Colonna, Rime, cit., p. 361.
20 L’idea dello scarto rispetto alla tradizione è ribadito dall’uso insistito
dell’aggettivo altro («ch’ad altra acqua s’aspira, ad altro monte») ricollegabile, sebbene
in diverso contesto, al sonetto proemiale delle Rime amorose: «per altra tromba
e più sagge parole» (A1: 1, 7). Segnalo che nel puntuale commento a questo sonetto
G. Bardazzi, Florilegio colonnese. Trenta sonetti commentati di Vittoria Colonna,
[ 12 ]
per la datazione del manoscritto dei sonetti di vittoria colonna 223
sonetto conclusivo di L (Apra il sen Giove, e di sue grazie tante), caratterizzato
da ipermetria a 2 e da palese errore di trascrizione a 12:
30 93 (S1: 23):
2: faccia che ’l mondo in ogni parte abonde ch’in L
12: a cantar come in veste umana ascoso ma a … scorza L (in rima con
aventuroso),
e da lezioni anteriori rispetto a V2 che concorda con 46V:
4: sian tutte di virtute amiche e sante qui di virtù chiare
6-7: […] e corran puro nettar l’onde; l’onde
copra di gemme il mar l’altere sponde e si vestan di gemme le lor sponde
10-11: che ne die’ il parto eternamente eletto al desiato divin parto eletto
per apportar vera salute a noi che recò ancor vera salute a noi L.
A sua volta 46V presenta in più punti una lezione più evoluta a
partire dall’incipit (Aprasi il ciel) che elimina il riferimento mitologico
della prima redazione.
2.6. Tuttavia anche per i sonetti a tradizione plurima è dato registrare
casi significativi di concordanza di L con 46V contro V2, o lezioni
di L da assumere come spia di redazione intermedia tra V2 e 46V.
Esemplificando:
3 72 (S1: 54)
6: e scalda in modo la mia fredda speme guisa L 46V
11: mi mostra or dentro al suo bel lume chiaro sentir mi face nel suo lume
chiaro L
sembiar mi face col suo lume
chiaro 46V
A 11 la lezione di L è più vicina all’approdo finale di 46V, mentre è
proprio la lezione di V2 a palesarsi meno congrua denunciando la sua
anteriorità rispetto alla lezione di L, che a sua volta esibisce una lezione
esclusiva a 8:
sotto ’l carco terreno indegno e rio mortal L
«Per leggere», xvi, n. 30, primavera 2016, pp. 8-70 (= p. 44), suggerisce per i vv. 5-8
un passo di Ochino («Christo adunque, trenta tre anni, continuamente spirando
lume, & amore, & particularmente in su la croce, scrivendo sempre in spirito, usò
per carta el core delle persone: per inchiostro lacrime, sudore, & sangue: per penna li
chiodi, la lancia, & la croce») in cui la mia sottolineatura evidenza una più precisa
rispondenza lessicale con la redazione di L (scriva nel cuor).
[ 13 ]
224 tobia r. toscano
notevolmente mutato in 46V: «sotto l’incarco periglioso e rio».
Esclusive di L due lezioni erronee a 12: l’anime vs l’alme, con conseguente
ipermetria, e a 14:
ad ogni cor d’altere voglie acceso ad ogni voglie d’altere voglie accese L
con l’erroneo raddoppiamento dell’occorrenza di voglie, che determina
ancora ipermetria e l’errata concordanza di accese in rima con peso
contro la lezione concorde di V2 e 46V: «ad ogni cor d’altere voglie
acceso».
Anche nel caso di
4 73 (S1: 93), 10:
vestiti sol di te con fede viva d’interna L di pura 46V
la lezione di L sembra piuttosto un superamento di V2 e un avvicinamento
a 46V, così come a
5 62 (S1: 50), 2 e 13:
scorge la fede viva ad una ad una per fede viva L per viva fede 46V
l’immortal glorie, e coi bei raggi suoi et a’ L 46V
L concorda con 46V a 13 e parzialmente a 2. Altro caso in cui la lezione
di L può essere scrutinata come intermedia tra V2 e 46V a
6 63 (S1: 83), 10:
lui brami ed ami e prenda solo a sdegno V2
ami dunque colui e prenda a sdegno L
ami solo pur lui, sol prenda a sdegno 46V.
Ancora un segnale della posizione intermedia di L tra V2 e 46V a
15 76 (S1: 95), 12-13:
onde non più rubello il voler cede perché L 46V senso 46V crede L 46V
a lo spirto, anzi al ciel volano inseme onde L 46V
con la condivisione di voler a 12 con V2 e l’allineamento a 46V nel resto.
Talvolta l’elaborazione di L può essere inficiata da errore di lettura
del copista senza per ciò essere oscurata, come a
16 77 (S1: 132), 6:
fêr da la luce eterna a l’ombre nere delle luci chiare L da la luce chiara 46V,
dove la contiguità tra L e 46V è ribadita dalla concordanza a 13 nello
stesso sonetto:
[ 14 ]
per la datazione del manoscritto dei sonetti di vittoria colonna 225
come sareste sempre in quel conflitto e ’n L e in 46V
e
10 78 (S1: 55), 2:
dee l’uom d’intorno, dentro e lungi e presso V2
dee l’uom d’intorno e lungi e dentro e presso L
dee l’uom d’intorno e dentro e lungi e presso 46V
dove il copista di L, pur disponendo in maniera incongrua gli avverbi,
concorda con 46V per l’aggiunta della cong. dopo d’intorno. Fenomeno
analogo a
23 68 (S1: 53), 7:
ma dentro lo struggesse viva ardente viva e L 46V,
che in redazione finale è portatore di trasformazioni più radicali che
comportano un’inversione di posizione dei vv. 6-7 = 7-6 in 46V.
2.6.1. A completare la casistica dei sonetti pluritestimoniati condivisi
da L e V2, si elencano quelli interessati esclusivamente da varianti
grafiche:
13 74 (S1: 92)
17 60 (S1: 98)
18 61 (S1: 51)
24 69 (S1: 134)
31 81 (S1: 27)
41 17 (S1: 17).
Di seguito i sonetti in cui le lezioni erronee di L, come già osservato
in casi analoghi, si possono ascrivere alla superficialità e alla fretta
con cui ha operato il copista:
11 79 (S1: 18)
8: per forza d’un sol puro acceso affetto effetto,
10: con violenta man ne mostri, e poi mostra
12: Tutto sol per far noi divenir tuoi Tutti
14: ed ogni poder nostro incontro a noi pender
21 66 (S1: 52)
3: invoco, e nuda bramo il celest’oro mi da bramo
22 67 (S1: 84)
12: Sempre son l’onde sue più dolci e chiare con
[ 15 ]
226 tobia r. toscano
26 59 (S1: 121)
8: dietro l’orme beate e l’opre sante et opre
10: ond’ella, a piè di lui ch’adora e cole ch’a piè (iperm.)
Più difficile da inquadrare la lezione erronea di L a
32 21 (S1: 124), 5-6:
Mentre, ’l mondo sprezzando, e nudo e piano,
solo de la tua croce ricco, andasti ignudo
che non dà senso, mentre la variante a 12:
poi seco t’abbracciò tanto e distrinse ti strinse
può ritenersi adiafora o frutto di lettura affrettata (considerato che,
ad esempio, la stampa 1540 legge ristrinse). Nel caso infine di
95 1 (S1: 100)
9: Immortal Dio nascosto in mortal velo uman
12-13: prega lui dunque ch’i miei giorni tristi
ritorni in lieti, e tu, donna del cielo ritornin
si osserva che in entrambi i casi la lezione di L concorda con la stampa
del 1540, a sua volta segnata a 4 dalla variante vaghi vs paghi di L e V2,
e che a 13 la scrizione ritornin si potrebbe rendere ritorni ’n, sebbene non
debba sfuggire che dietro la resa testuale di L e 1540 si scorge un’interpretazione
che assume giorni come soggetto della prop. finale, e non lui
(= Gesù) che, per intercessione di Maria, può rendere lieti i giorni tristi.
2.7. Si dica infine che le non lineari risultanze della collazione di L
e V2 non sfuggirono a Bullock che tuttavia, fedele al convincimento
che L fosse «primo in ordine cronologico» e da ricondurre all’attività
di un copista giudicato «di alto livello»21 e perciò scelto da Carlo Gualteruzzi
(p. 359), ribadì che V2, per la sua organica tematica spirituale,
denunciasse «la sua appartenenza a un periodo posteriore alla formazione
di L», trovando conferma alla sua affermazione «nel fatto che
ben 45 dei suoi 103 componimenti non si trovano in nessuno degli
21 R iesce difficile da capire su quali elementi Bullock tarasse l’altezza di livello
del copista di L, responsabile, oltre che di una serie di errate attribuzioni, di una
quantità di lezioni erronee, dando prova di esecuzione quanto meno affrettata,
fatta salva la regolare professionalità della scrittura che realizza un testo di agevole
leggibilità per una destinataria non proprio espertissima di lingua italiana.
[ 16 ]
per la datazione del manoscritto dei sonetti di vittoria colonna 227
elementi finora esaminati» (p. 381). Dove a me pare che il ragionamento
sia inficiato dalla scelta di ricondurre, sulla scia di Tordi, la fattura
di L all’iniziativa di Gualteruzzi, che, essendo costantemente aggiornato,
per sua stessa dichiarazione, sulla produzione poetica di Vittoria
Colonna, non avrebbe somministrato al copista di L i sonetti letti solo
da V2 per la buona ragione che ancora non erano stati composti, infine
concludendo, per i casi in cui L concorda con 46V contro V2, che «durante
la formazione di V2 Vittoria cambiò idea ma in ultimo [cioè per
46V] tornò alla sua scelta precedente per il testo definitivo» (p. 404).
Un modo insomma per far quadrare il cerchio ed eludere la sostanza
del problema che senza ricorrere, e solo in questo caso nel contesto di
una nutrita tradizione, alla scorciatoia del ripensamento d’autore, si limitasse
a constatare che il manoscritto L, datato 1540, essendo in alcuni
punti testimone di una lezione più evoluta di V2 e più vicina a 46V,
dipendesse in parte da antigrafo seriore, sia pure di poco, rispetto
all’antigrafo somministrato da Vittoria Colonna al copista di V2. Ma
questo ragionamento avrebbe comportato la necessità di escludere
qualunque concorso di Gualteruzzi all’allestimento di L, privandolo
di un padre nobile, la cui presenza Bullock aveva certificato con molta
sicurezza anche per l’allestimento di F1 (cod. II.IX.30 della Biblioteca
Nazionale Centrale di Firenze), testimone assunto come testo base
delle Rime amorose perché identificato con la copia ottenuta, sempre
tramite Gualteruzzi, da Francesco Della Torre, nel 1541.
2.8. Resta in definitiva inoppugnabile che, per quanto L si palesi
frutto di un allestimento un po’ corsaro con il ricorso a fonti disparate
e la massiccia dipendenza (56 pezzi su 102) dalle stampe prodotte tra
il 1538 e il 1539, è tuttavia testimone nella parte restante di rime attingibili
solo per via di antigrafi manoscritti, in alcuni casi condivise
esclusivamente, come si è visto, con V2 e non approdate all’edizione
definitiva del 1546, essendo a sua volta testimone unico del sonetto
Donna, che ’n cima d’ogn’affetto umano (S2: 26), edito la prima volta da
Tordi nel 1900 (p. 49), con il dubbio se dovesse «ascriversi a Vittoria
Colonna, oppure ad uno de’ tanti suoi ammiratori che la toglievano a
maestra nella vita spirituale», infine concedendo che potesse essere
indirizzato a Margherita d’Angoulême.22 La mancanza di una ratio in-
22 Anche in questo caso si conferma un dato già osservato in tutte le sillogi di
una certa estensione delle rime “amorose” di Vittoria Colonna: tutte sono testimoni
esclusivi di almeno un componimento. Alla regola, si è visto, non sfugge L e
nemmeno V2 per il son. Suol nascer dubbio se di più legarsi (S2: 12; 39 di V2).
[ 17 ]
228 tobia r. toscano
terna all’allestimento di L non può tuttavia destituire di oggettività
l’insieme delle non numerose ma significative lezioni più evolute rispetto
a V2, quindi inducendo a rivedere la cronologia dei testimoni
stabilita da Bullock e generalmente accolta dagli studiosi.
2.9. Prima di formulare una diversa ipotesi di datazione di V2, è
utile richiamare la corrispondenza epistolare tra il veronese Francesco
Della Torre, segretario del vescovo Giberti, e Carlo Gualteruzzi, il cui
uso inappropriato da parte di Bullock fu all’origine del varie volte ricordato
abbaglio che lo indusse a privilegiare senza validi motivi il
codice F1 come testo definitivo delle Rime amorose. Grazie a due recenti
e molto agguerriti contributi di Franco Pignatti23 e Rossella Lalli24 il
profilo di Della Torre e le sue relazioni con Vittoria Colonna, dirette
e/o mediate da Carlo Gualteruzzi, hanno finalmente contorni più precisi
ed è perciò possibile operare una più calibrata taratura cronologica
della diffusione manoscritta delle rime spirituali indirettamente risalendo
al periodo della loro composizione.
Il primo preciso accenno a una recente e tematicamente nuova produzione
poetica di Vittoria Colonna è nella lettera di Della Torre a
Gualteruzzi del 30 gennaio 1540:
Ho inteso per lettere di messer Lattantio di un parto di molti bellissimi
sonetti: ho gran desiderio di havergli, se si può, senza importunità. Ho
voluto che sappiate il mio desiderio, il resto sarà ad arbitrio vostro; ma
so ben quanto debbo confidare nella benignità di quella Signora et
nell’officio vostro amorevole.25
Il riferimento a Lattanzio Tolomei26 rileva che Della Torre dispo-
23 Franco Pignatti, Margherita d’Angoulême, Vittoria Colonna, Francesco Della
Torre, «Filologia e critica», XXXVIII (2013), pp. 122-148.
24 Rossella Lalli, Una «maniera diversa dalla prima»: Francesco Della Torre, Carlo
Gualteruzzi e le ‘Rime’ di Vittoria Colonna, «Giornale Storico della Letteratura Italiana
», CXCII (2015), pp. 361-389.
25 Cito il testo edito da R. Lalli, nel contributo cit. nella nota precedente, tratto
dal ms. Federici 59 della Biblioteca Comunale Federiciana di Fano (pp. 383-84).
26 La presenza di Lattanzio Tolomei, interlocutore, con Vittoria Colonna e Michelangelo,
dei Dialoghi di Francisco de Holanda e da questi ricordato come «il più
intimo amico che ella aveva» riconduce alla fase di completa immersione di Vittoria
nella temperie spirituale dei declinanti anni trenta. Non a caso la prima menzione
di de Holanda ricorda entrambi (Lattanzio e Vittoria) quali ascoltatori di
«una lettura delle Epistole di san Paolo» tenuta in San Silvestro a Roma nel 1538 da
frate Ambrogio Caterino Politi: Francisco de Holanda, Dialoghi romani con Mi-
[ 18 ]
per la datazione del manoscritto dei sonetti di vittoria colonna 229
nesse di informazioni di prima mano dall’ambiente romano e già agli
inizi del 1540 fosse venuto a conoscenza del nuovo parto poetico, pregando
perciò Gualteruzzi di frapporre i suoi buoni uffici presso Vittoria
perché gli consentisse di esserne messo a parte. Ai fini del problema
qui discusso la novità più rilevante e decisiva riguarda la seconda
lettera di Della Torre a Gualteruzzi, fin qui nota solo attraverso l’edizione
a stampa,27 che grazie al contributo di Lalli è possibile anticipare
di un anno: 16 febbraio 1540 e non 1541:28
Signor mio, le più lunghe delle vostre lettere mi sogliono essere sempre
più care, ma questa vostra breve de’ VII è piena di tanti favori, che
ha molto tempo che non hebbi la più cara. Ho letto molte volte i sonetti
di quella nostra Illustrissima Signora, ma perché non mi contento se
non li rileggo molte altre, vi piacerà impetrarmi perdono se non li
mando questa volta, ché li manderò col primo, ma toltone prima copia
con promessa di non lasciarmeli uscir di mano. La qual promessa fate
per me sicuramente, che facendo profession d’ingenuo nel resto, in
questa parte mi confesso invido, sì che non vorrei che così rare compositioni
fossero in altre mani che nelle mie in questi paesi.29
Che Della Torre fosse pienamente in grado di cogliere la svolta spiritualistica
impressa da Vittoria Colonna alle sue rime è confermato
dalla documentata conoscenza della non autorizzata edizione stampa
realizzata a Parma nel 1538 per le cure di Filippo Pirogallo, che aveva
suscitato il suo disappunto e di cui aveva dato puntuale notizia in altra
lettera a Gualteruzzi del 19 novembre 1538, anche questa resa nota
da Lalli:
Bascio la mano dell’Illustrissima signora Marchesa del favore, del saluto
et della memoria, et son stato per mandar l’altro giorno a Sua Eccellenza
un libro de’ suoi sonetti stampato tanto scorrettamente, che se
non fosse che io spero che questo disordine debba moverla a farlo ristampar
corretto, sarei constretto a portare odio a quel traditore impuchelangelo,
trad. di Laura Marchiori, note di Emma Spina Barelli, Milano, Rizzoli,
1964, pp. 21 e 124.
27 Lettere volgari di diversi nobilissimi huomini, et eccellentissimi ingegni, scritte in
diverse materie, Libro terzo, in Venetia, Aldus, 1564, cc. 21v-22r.
28 Devo pertanto correggere la conclusione da me formulata in precedenza circa
l’attesa di più di un anno intercorsa tra la richiesta di Della Torre a la risposta di
Gualteruzzi: Tobia R. Toscano, Appunti sulla tradizione delle Rime amorose di Vittoria
Colonna, in Id., Letterati corti accademie. La letteratura a Napoli nella prima metà
del Cinquecento, Napoli, Loffredo, 2000, p. 39, n. 28.
29 In R. Lalli, Una «maniera diversa dalla prima», cit., p. 385.
[ 19 ]
230 tobia r. toscano
dente che ha havuto animo di metter mano in così degna et eccellente
cosa. Il qual disordine, anchor che prevedessi et predicessi a Sua Eccellenza in
Ferrara, io mi doglio molto più dell’offesa di lei, che non mi glorio del
mio buon giudicio. Non mandai il detto libro, pensando che non fosse
quasi possibile che non fossi stato prevenuto in questo officio da più
diligente di me […].30
Importante tra l’altro il riferimento al colloquio ferrarese tra Vittoria
Colonna e Della Torre e la mia sottolineatura donde si adombra che
quella edizione, per quanto abusiva, non fosse piovuta del tutto inattesa.
31 Ulteriore indizio dell’entratura del veronese nella ristretta cerchia
Colonna-Bembo-Gualteruzzi-Lattanzio Tolomei si rileva da altra
lettera del mese successivo (16 dicembre 1538) in cui si rinnova la richiesta
di aver copia di un’attesa e riparatrice ristampa delle stesse:
Di quelle lettere alla Illustrissima Signora Marchesa non accade parlar
più, che pur troppo si n’è parlato, alla cui Eccellenza mi farete gratia
basciarmi tante volte le mani quante voi l’haverete di vederla; et son
certo che non mancherete della promessa delle sue rime ristampate, le
quali aspetto con estremo desiderio.32
Evidentemente Della Torre doveva essere al corrente dell’iniziativa
assunta da Bembo di sollecitare Vittoria Colonna a mandargli un testo
corretto che egli avrebbe provveduto a far stampare a Venezia, come
aveva annunciato nella lettera a Gualteruzzi dell’8 novembre 1538:
Alla quale io riscrissi pregandola ad esser contenta di mandarmi una
copia delle dette sue Rime corretta, perciò che io le farei stampar qui
bene, e in bella maniera. Non ho da Sua Signoria avuto di ciò risposta,
e temo la lettera non le sia venuta alle mani. Dunque sarete contento
voi, Compare carissimo, passando ella a Roma come intendo che a
passare ha, di operare che mi si mandino le dette sue rime, che io
emenderò l’error di quel tristo.33
30 R. Lalli, Una «maniera diversa dalla prima», cit., p. 363.
31 Coglie questo aspetto R. Lalli, ivi, p. 363, n. 4: «La missiva mostra come già
nel settembre del 1537, mentre il Della Torre si tratteneva qualche giorno a Ferrara
con la Marchesa (…), si facessero previsioni sull’eventualità e i rischi connessi a
una stampa di rime della Colonna. In mancanza di prove dirette non si può stabilire
il grado di coinvolgimento della poetessa nella pubblicazione di tali testi, anche
se il curatore della princeps Filippo Pirogallo scrisse che nel mandare a stampa
un volume pieno di “scorrettioni”, allestito senza l’ausilio dei componimenti originali,
egli aveva disubbidito alla volontà della Marchesa».
32 Ivi, p. 363, n. 4.
33 Pietro Bembo, Lettere, ed. critica a cura di Ernesto Travi, Bologna, Commi-
[ 20 ]
per la datazione del manoscritto dei sonetti di vittoria colonna 231
Mi pare degna di nota la circostanza che tra l’attesa della ristampa
corretta e non realizzata di rime già note e in prevalenza ‘vedovili’
(lettera del 16 dicembre 1538) e la notizia del recente «parto di molti
bellissimi sonetti» (30 gennaio 1540) intercorrano poco più di tredici
mesi, segno che nel 1539 vada collocata una fase di intensa e rinnovata
creatività di Vittoria Colonna, che già durante il soggiorno ferrarese
(8 maggio 1537-22 febbraio 1538) era stata sollecitata dalla frequentazione
con Renata di Francia e Bernardino Ochino, della cui predicazione,
seguìta (o, sarebbe meglio dire, inseguita) anche a Firenze e, forse,
a Lucca nel corso del 1538,34 non poche tracce affiorano nel rinnovato
dettato poetico.35 I testimoni del soggiorno ferrarese di Vittoria Colonna
raccontano di un fervore di opere pie non disgiunto da una più
aperta disponibilità «a mettere da parte la sua ritrosia e a condividere
le sue rime addirittura in situazioni conviviali»36 a beneficio della ristretta
cerchia della corte ducale. Una nota del cardinale Benedetto
Accolti stilata il giorno della partenza della poetessa informava il cardinale
Ercole Gonzaga della cena svoltasi in corte la sera precedente:
Hiersera fummo in grandissima consolatione, la Ex.tia del S.or Duca et
io, con l’Ill.ma S.ra Madre di V.S. Ill.ma, con la quale cenamo, et medesimamente
cenò la S.ra Marchesa. Dopo cena si lessono cinque sonetti
della sopradetta S.ra marchesa, tanto belli che io non credo che uno
angelo del Paradiso li potessi far piú perfetti.
Il ricorso a un’idea di perfezione che mette a paragone Vittoria con
un angelo del Paradiso può senza illazioni essere indizio probabile della
tematica spirituale dei sonetti, forse composti da poco e proprio a Ferrara.
sione per i testi di lingua, vol. IV (1537-1546), 1993, p. 141.
34 Nell’aprile 1538 era a Firenze dove Ochino predicò la Quaresima, e si trovava
a Bagni di Lucca nell’agosto di quell’anno nello stesso periodo in cui il cappucino
predicò in Lucca, rientrando a Roma il 6 ottobre: cfr. V. Copello, «La signora
Marchesa a casa»: tre aspetti della biografia di Vittoria Colonna con una tavola cronologica,
«Testo», XXXVIII 1 (2017), pp. 9-45 (= p. 39).
35 D’obbligo il rinvio a G. Bardazzi, Le rime spirituali di Vittoria Colonna e Bernardino
Ochino, «Italique», IV (2001), pp. 61-101 e al suo più recente contributo
Florilegio colonnese, cit., p. 23, in cui si ricorda che tra il 1537 e il 1538 ella «diviene,
di fatto, una sorta di seguace itinerante, di devotissima zelatrice, intrecciando le
proprie alle tappe, predicatorie, del frate».
36 F. Pignatti, Margherita d’Angoulême, Vittoria Colonna, Francesco Della Torre,
cit., p. 141, da cui riprendo anche la citazione della nota del card. Accolti, conservata
nel carteggio del cardinale Ercole Gonzaga nell’Archivio Gonzaga a Mantova.
[ 21 ]
232 tobia r. toscano
Nel contesto della biografia di Vittoria Colonna il biennio 1538-39 è
un periodo segnato da una serie di congiunture favorevoli che avranno
non poco contribuito a stimolare quella fase di rinnovata creatività
che determinò l’abbandono dell’attesa ristampa delle rime vedovili,
«dovuto non soltanto a normale disdegno e pudore, ma anche al fatto
che, a differenza del vecchio Bembo, essa era tuttavia intenta a comporre
nuove rime e a fare prova del suo nuovo stile»:37 dopo Ferrara e
il passaggio in Toscana sulle tracce della predicazione di Ochino, il ritorno
a Roma nell’ottobre del 1538 con l’intensificarsi del colloquio con
Michelangelo e la notizia nei mesi iniziali del 1539 della nomina a cardinale
di Bembo, alla quale aveva cooperato per la sua parte, avranno
agito come moltiplicatori delle sue energie interiori innescando l’inizio
di un tempo nuovo sul piano della creatività che confortava l’attesa di
un più generale rinnovamento della Chiesa. Si può convenire che siamo
in un tempo in cui «Vittoria si trovò al centro del movimento riformatore
preconciliare estendendo le sue relazioni in una raggiera che
toccava le maggiori personalità ecclesiastiche dell’età di Paolo III».38
È l’insieme di questi elementi che, coniugati ai significativi segnali
dell’allestimento seriore di L (che risale a non prima dell’estate del
1540), potrebbe consentire di anticipare l’allestimento complessivo di
V2 al secondo semestre del 1539, considerato che i più cogenti riferimenti
interni (la carcerazione di Margaret Pole, autunno 1538, son. 99,
e la nomina a cardinale di Bembo, marzo 1539, son. 98) sembrano tradire
il bisogno di trascrivere in versi l’emozione suscitata dalla notizia
di eventi da poco accaduti.39 Quindi, tornando alla lettera di Francesco
Della Torre, che il 30 gennaio 1540, da informazioni ricevute da Lattanzio
Tolomei, mostra già di essere a conoscenza del «parto di molti
bellissimi sonetti» e il 16 febbraio successivo comunica a Gualteruzzi
di averli già letti «molte volte», si potrà discutere se la quantità genericamente
indicata (molti) possa coincidere con l’estensione e la struttura
della raccolta donata a Michelangelo, ma pare naturale immaginare
che egli avesse ricevuto in tutto o in parte gli stessi sonetti trascritti
su V2. E alla medesima produzione spirituale fanno riferimento
due lettere anepigrafe, non datate e senza firma, la prima delle quali
37 C. Dionisotti, Appunti sul Bembo e Vittoria Colonna [1981], in Id., Scritti sul
Bembo, cit., p. 132.
38 Claudio Scarpati, Le rime spirituali di Vittoria Colonna nel codice Vaticano
donato a Michelangelo, «Aevum», XXVIII (2004), pp. 693-717 (= p. 709).
39 Non si dimentichi che Vittoria Colonna poteva sapere della nomina di Bembo
a cardinale prima che fosse ufficializzata.
[ 22 ]
per la datazione del manoscritto dei sonetti di vittoria colonna 233
Travi ha attribuito a Bembo «dopo aver esitato a lungo»,40 la seconda,
sconosciuta a Tordi e a Bullock, resa nota da Dionisotti, che la ritiene
scritta dal Bembo a nome del Gualteruzzi.41
Per la prima Travi pone a testo la trascrizione conservata nel Fondo
Serassi della Biblioteca Civica di Bergamo, che nel brano di seguito
citato presenta la non insignificante variante donate (riferita alle rime)
invece di dettate, come legge il testo conservato nell’Archivio Segreto
Vaticano, donde Tordi l’aveva tratta,42 attribuendola a Gualteruzzi, e
Dionisotti, poco convinto di tale attribuzione, fatta verificare da Augusto
Campana, che la giudicò «una copia, di una mano contemporanea,
mano, direi, da copista»:43
Alla Regina di Francia.
Essendosi nuovamente inteso V. M.tà desiderar di aver copia delle Rime
spirituali della Ill.ma Signora Marchesana di Pescara, e sopra ciò
aver dato ordine che elle siano cercate e mandatele con buona diligenza,
io, il quale mi trovo averle di mano in mano mentre ella donate le
ha, copiate e conservate tutte, la qual cosa a me è stata assai agevole
per l’antica servitú che io con Sua Exc.za tengo, ho giudicato di non
poter senza nota di Cristiana impietà restare di mandargliele. Laonde
mi sono messo a farle trascrivere e ridurre in un picciolo volumetto,
nudo d’ogni esteriore ornamento […].
Sulla paternità bembiana della lettera è lecito tuttora nutrire qualche
dubbio, se non altro perché riesce difficile accettare che di sé potesse
dire di essere in rapporto di «antica servitù» con Vittoria Colonna
e di avere, «copiate e conservate tutte», le rime di lei a mano a mano
che erano state composte, meglio addicendosi tali tratti a
Gualteruzzi,44 come mostra il ruolo determinante svolto nel procurare
i sonetti a Della Torre. Sia Bembo o Gualteruzzi l’autore della lettera, i
dati oggettivi riguardano il contenuto (Rime spirituali) e la forma ma-
40 P. Bembo, Lettere, ed. critica a cura di E. Travi, cit., vol. IV, p. 606.
41 C. Dionisotti, Appunti sul Bembo e Vittoria Colonna [1981], in Id., Scritti sul
Bembo, cit., pp. 138-39. A Gualteruzzi viene assegnata anche da E. Travi in Bembo,
Lettere, cit., IV, pp. 606-607 e, in precedenza, da Paolo Simoncelli, Eterodossia religiosa
e dissidenza politica agli inizi dell’età moderna, Bari, Cacucci, 1989, p. 93.
42 D. Tordi, Il codice delle rime di Vittoria Colonna, cit., pp. 18-19.
43 Cit. in C. Dionisotti, Appunti sul Bembo e Vittoria Colonna [1981], in Id., Scritti
sul Bembo, cit., pp. 134-35.
44 P. Simoncelli, Eterodossia religiosa e dissidenza politica, cit., pp. 93-94 ripubblica
lo stesso testo verificato da Augusto Campana (senza riferimento né a Tordi, né
a Dionisotti) giudicandolo autografo di Gualteruzzi.
[ 23 ]
234 tobia r. toscano
teriale del manoscritto («un picciolo volumetto, nudo d’ogni esteriore
ornamento»), difficilmente riferibili a L che è un pergamenaceo impreziosito
dallo stemma di Margherita d’Angoulême.
Più interessante l’altra lettera attribuita a Gualteruzzi, ma «tutta di
mano del Bembo»,45 che, in assenza di datazione, non necessariamente
deve ritenersi posteriore alla precedente:
Ser.ma Regina,
Essendo a mano venuti del Card.l Bembo cento molto belli sonetti della
Ill.ma Sig.ra Marchesana di Pescara, tutti religiosi e santi, dettati dal
suo leggiadrissimo ingegno in cosí breve spazio che non si crederebbe
di leggieri da chi veramente nol sapesse, come sa egli; fu dallui confortata
e pregata la detta Madonna a dovergli fuori mandare in mano
degli uomini […]. La qual cosa non avendo S. Sig.ria ottener dallei
potuto […], raddomandatole i detti scritti per meglio rivederli, ed
avutigli, se ne fece subitamente scrivere uno essempio per darlo a me,
affine che io il mandassi a V. M.tà, estimando che sì bel parto […] dovesse
[…] dirittamente venirne a voi. […] E così ora a sé chiamandomi
ha fatto, imponendomi che io il detto essempio a V. M.tà mandassi
[…].46
Il riferimento numerico-qualitativo («cento molto belli sonetti») e
l’indicazione perentoria della monotematicità della raccolta («tutti religiosi
e santi»), se non possono per evidenti ragioni convenire a L,
meglio sono riferibili a una raccolta analoga a V2, che di sonetti ne
contiene 103 e di tematica esclusivamente religiosa, sicché aveva ben
giudicato Dionisotti «che parente stretta del ms. Vat. 11539 fosse la
copia, dal Gualteruzzi comunicata al Della Torre nel 1541,47 dei sonetti
spirituali ultimamente composti da Vittoria Colonna».48 Anche colpisce
il reimpiego della metafora del parto49 venuto alla luce in cosí breve
spazio che non si crederebbe di leggieri da chi veramente nol sapesse, come sa
egli, e infine la comunicazione dell’ordine impartito da Bembo di inviare
alla Regina il manoscritto fatto allestire sotto il suo controllo dopo
aver ottenuto i sonetti da Vittoria Colonna.
Entrambe le lettere fanno riferimento al medesimo manoscritto ed
45 C. Dionisotti, Appunti sul Bembo e Vittoria Colonna [1981], in Id., Scritti sul
Bembo, cit., p. 139.
46 P. Bembo, Lettere, ed. critica a cura di E. Travi, cit., vol. IV, pp. 606-607.
47 Ma si intenda ora 1540.
48 C. Dionisotti, Appunti sul Bembo e Vittoria Colonna [1981], in Id., Scritti sul
Bembo, cit., p. 138.
49 Cui già era ricorso Della Torre il 30 gennaio 1540.
[ 24 ]
per la datazione del manoscritto dei sonetti di vittoria colonna 235
è probabile che solo una delle due sia stata spedita insieme al manoscritto,
il cui arrivo in corte sembra confermato da una lettera «non
datata ma certamente dell’estate del 1540» di Pier Paolo Vergerio a
Bembo:50
Messer Carlo vostro da Fano fece la fatica di raccoglier le rime della
Marchesa. Ho veduto in mano della Regina ciò che egli scrive in qua,
et averà ancor me, tale quale io sia, procuratore.51
Calcolando i tempi delle poste dell’epoca e detraendo i tempi necessari
per l’allestimento del manoscritto si ritorna di nuovo ai primi
mesi del 1540, gli stessi in cui Gualteruzzi comunicò i nuovi parti poetici
a Della Torre. Si spiega la meraviglia per sì abbondante e nuova
produzione per chi (Della Torre, Bembo e Gualteruzzi) ancora alla fine
del 1538 si era inutilmente impegnato a convincere Vittoria Colonna
ad autorizzare una ristampa corretta dell’edizione di Parma. Tale concorde
stupore sembra più che naturale agli inizi del 1540, dovendosi
prendere atto che in poco più di un anno (fine 1538-1539) una donna,
che spesso destava l’apprensione degli amici per la sua gracilità fisica,
fosse stata capace di sprigionare un’energia poetica che in un tratto
solo spostava su confini fin lì inimmaginabili (soprattutto, e sia detto
con riferimento alla cultura del tempo, per una donna, dal momento
che più di una volta Bembo non sa rivolgerle migliore complimento
che riconoscerle un ingegno da uomo…)52 la frontiera della poesia religiosa,
rinsanguando il lessico petrarchesco di una vitalità tutta nuova
che si alimentava, oltre che di letture, dell’ascolto e del confronto
diretto con le coscienze più inquiete della cristianità del tempo.
2.10. Credo che gli elementi fin qui addotti, nel momento in cui
escludono la corresponsabilità di Bembo e Gualteruzzi nell’allestimento
di L,53 indichino che tuttavia furono entrambi impegnati nei
50 F. Pignatti, Margherita d’Angoulême, Vittoria Colonna, Francesco Della Torre,
cit., p. 130.
51 Lettere volgari di diversi nobilissimi huomini, et eccellentissimi ingegni, scritte in
diverse materie. Libro primo, Venezia, Aldo Manuzio, 1542, c. 129r.
52 Fin dalla lettera che avvia la corrispondenza tra i due, Bologna 20 gennaio
1530, Bembo riconosceva a Vittoria Colonna di essere «assai più eccellente che non
pare possibile al vostro sesso si conceda dalla natura»: P. Bembo, Lettere, ed. critica
a cura di E. Travi, cit., vol. III (1529-1536), p. 100.
53 Malgrado i dubbi di Dionisotti e quelli da me aggiunti, ripropone l’identificazione
di L con il manoscritto di cui parlano Bembo e Gualteruzzi Giacomo Moro,
Vittoria Colonna e i Farnese nel 1540: conflitti d’interesse e sospetti sull’ortodossia
[ 25 ]
236 tobia r. toscano
primi mesi del 1540 (e quindi prima dell’allestimento di L) a smistare
esclusivamente i sonetti spirituali che Vittoria Colonna aveva in gran
numero composti54 entro la fine del 1539. Non essendo sopravvissuto
né l’antigrafo messo a disposizione di Della Torre, né la copia fatta
allestire da Bembo per Margherita d’Angoulême, sarebbe inutile esercizio
congetturare sulle rispettive strutture organizzative. Ma il riferimento
alla quantità, più generico in Della Torre (parto di molti bellissimi
sonetti), più pregnante nella lettera scritta da Bembo per Gualteruzzi
(cento molto belli sonetti della Ill.ma Sig.ra Marchesana di Pescara, tutti religiosi
e santi) richiamano in maniera perentoria consistenza e temi di
V2. E, considerato che il primo a rivelare la notizia a Della Torre era
stato alla fine del 1539 Lattanzio Tolomei, che di Vittoria e Michelangelo
era assiduo frequentatore, si può senza eccessive forzature ipotizzare
che egli si riferisse proprio a V2. Vero che Michelangelo nel 1551
facesse rimontare il dono a circa dieci sono, ma si noterà che l’uso di
circa renda meno perentoria l’aritmetica. E a ciò si aggiunge il conforto
(documenti e congetture), «Schifanoia», XXXVI (2009), pp. 187-196 (= pp. 194-95, n.
5), suggerendo che «antigrafo di quel manoscritto [L] fosse non tanto una raccolta
coerente e in bella copia, bensì un insieme eterogeneo di testi manoscritti e a stampa
[…]: direttamente dalla Colonna vennero probabilmente solo le composizioni
degli ultimi anni». Per parte sua Abigail Brundin, Vittoria Colonna and the Spiritual
Poetics of the Italian Reformation, Aldershot, Ashgate, 2008 (nel cap. The Gift
Manuscript for Marguerite de Navarre, pp. 101-132) si è spinta a sostenere che si
tratti di raccolta selezionata e ordinata da Vittoria Colonna. Ciò che a me pare
singolare in questa vicenda è che, invece di utilizzare i pochi dati oggettivi per
escludere almeno qualunque partecipazione diretta di Vittoria Colonna, Bembo e
Gualteruzzi all’allestimento di L (possibile mai che la Marchesa di Pescara, fosse
vera la tesi di Brundin, spacciasse per farina del proprio sacco rime non sue, senza
sorvegliare gli errori di cui erano farcite le sue?), si continui a fare illazioni su un
manoscritto che, per il fatto solo di avere le armi di Margherita d’Angoulême,
deve necessariamente essere collegato all’iniziativa dell’autrice in associazione
con Bembo e Gualteruzzi. Insomma ci si potrebbe accontentare di prendere atto
che, irreperibile al momento la raccolta di “cento molto belli sonetti della Ill.ma
Sig.ra Marchesana di Pescara, tutti religiosi e santi”, ne sopravviva un’altra che fin
dal titolo (Sonetti de più et diverse materie) esclude ogni parentela con quella, e che
potrà essere anche di provenienza ferrarese, stante la mediazione di Alberto Sacrati,
oratore estense presso il Re di Francia, come suggerivano Dionisotti e più recentemente
Pignatti, essendo più che plausibile che con la corte ducale Vittoria Colonna
avesse continuato a mantenere rapporti anche negli anni successivi al suo
soggiorno.
54 E, si ribadisca, composti in prima redazione, giacché in molti punti, laddove
si tratti di componimenti ricompresi in 46V, la lezione evidenzia non solo un più
sicuro possesso delle risorse stilistiche ed espressive, ma anche una migliorata capacità
di governare ardui argomenti teologici.
[ 26 ]
per la datazione del manoscritto dei sonetti di vittoria colonna 237
di L, risalente all’estate del 1540 che, pur essendo assemblaggio farraginoso
e affrettato di testi di datazione e provenienza diverse, in punti
significativi testimonia una lezione più evoluta rispetto a V2.55
Tobia R. Toscano
Università Federico II – Napoli
55 Non posso congedare queste pagine senza rinnovare la mia gratitudine a
Simone Albonico che, in questa come in altre occasioni, non mi ha fatto mancare i
suoi preziosi suggerimenti.
[ 27 ]

Francesco Rizzo
Il tema della Annunciazione, tra iconografia
e letteratura, nella tradizione di matrice umanistica
Il saggio si propone di indagare il ruolo della profezia antica nell’orditura iconografica
delle Annunciazioni cristiane di età medioevale ed umanistica. L’Annunciazione
viene a costituire il terreno privilegiato per mostrare come l’arte
possa mutuare la propria capacità socializzatrice dalla struttura propria del linguaggio.
Tale interconnessione è mostrata esemplarmente in molti dipinti della
tradizione pittorica e nei testi di matrice umanistica a forte richiamo profetico.

This essay delves into the role of ancient prophecy in visual representations of
Christian Annunciations from the medieval and humanistic age. The theme of
the Annunciation offers a fine example of how art may draw its social aptitude
from the structure that typifies language. Such a link becomes apparent in numerous
works belonging to the pictorial tradition and in strongly prophetic
humanistic texts.
Le due categorie, esaminate alla luce della loro reciprocità di rapporto,
profezia e Annunciazione, testimoniano il peso specifico che il
logos può assumere in riferimento a codici simbolici e a relative traduzione
dagli stessi. Il segmento significativo lungo il quale ho voluto
far oscillare il termine “Annunciazione” vede, agli estremi, da una
parte l’autoreferenzialità del sistema linguistico costruito sull’esempio
della langue saussuriana, chiuso su di sé, sulla sua riconoscibilità
codificale, dall’altra l’apertura a una virtus espressiva di tipo profetico,
che porta ad accentuare della struttura comunicativa i singoli
aspetti dell’atto/oggetto1 lungo l’asse diacronico. L’assegnazione dei
Autore: Università del Molise; assegnista di ricerca; ghersy@libero.it
1 Prendo in prestito dalla linguistica saussuriana la contrapposizione di langue
e parole. Riferendo il discorso alla questione figurativa, e alla sua apertura ermeneutica,
non posso che registrare come il dettaglio, il singolo segno, detiene la facoltà
di avviare la rivisitazione del significato di un’opera. In questo caso, come
d’altronde per Saussure, l’atto di parole disegna le potenzialità ulteriori del sistema
240 francesco rizzo
valori estetici alle opere è altra cosa dalla corrispondenza teorica, ortogonale
e precisa, di res e verbum2. Se all’interno dell’iconologia tradizionale
esiste il tentativo di assimilare gli elementi stilistici e simbolici
a un modello di funzionamento autoreferenziale sulla falsariga del
modello saussuriano3, per spiegare la rappresentazione sacra dell’Angelo
e della Madonna, la letteratura pseudo-scientifica di tipo apocalittico
ridefinisce di volta in volta i dettagli di contenuto apportando
nuove possibilità ermeneutiche a testi apparentemente chiusi. Così
l’uomo dell’età umanistica è portato a orientarsi nei fatti leggendoli
spesso a partire da segni testuali riferibili a precise contingenze storiche
e assumendo che l’Alto abbia voluto trasferire la sua potenza nella
storia per nobilitare alcuni aspetti della vita del tempo.
Se Giovanni Battista può essere confuso con Elia o con Cristo stesso,
e non lo era4, se l’annuncio viene visto come l’attesa di un futuro
arrivo, che proviene però dal passato, da quando la vecchia profezia
di Isaia lo ha fatto diventare dispositivo d’accoglimento della promissio,
allora l’apocalittica diviene una via, tra le altre, per dimostrare la
circolarità del sacro5. I due risvolti sono da considerarsi atteggiamenti
paralleli che distinguono due diverse prospettive di valutazione circa
l’inveramento del messaggio biblico.
Come in una qualsiasi comunicazione ci si trova dinanzi ad un
messaggio, un annunciato, e a un annunciatore, un nunzio, oltre che al
destinatario del messaggio e all’eventuale fonte del messaggio. Capita,
questa volta, che il messaggero non appartiene alla stessa dimensione
del ricevente o perché proviene dal sogno, succede in Daniele ed
in altri passi dei Libri Profetici, o perché non è un semplice messaggero,
ma l’emissario di Dio, è il caso dell’Angelo annunciante. Benché gli
lingua. Comparare i segni della stessa rappresentazione in varianti successive del
medesimo o di diversi autori non può che mostrare come al fondo di una rivisitazione,
o di un’aggiunta, o di una sottrazione vi sia la volontà di mutare in qualche
modo il senso del messaggio dell’opera.
2 Quasi che il significato non riesca ad aderire perfettamente al segno, quando
questo coincide con un’intera opera, nella quale va perduta l’esatta corrispondenza
semiologica; subisce un “deragliamento” distorcente a svantaggio della puntualità
dell’assegnazione originale di valore. In virtù di questo accavallamento di
significati estetici assunti dalle opere nei diversi contesti della storia della cultura
è doveroso non estremizzare le ricostruzioni genealogiche, ma aprirsi a interpretazioni
multidisciplinari intersecantesi.
3 Lo vedremo oltre parlando del tentativo di Ave Appiano Caprettini
4 Io. 1, 23-27.
5 Ap. 1, 8:«Io sono l’Alfa e l’Omega, dice il Signore Dio, Colui che è, che era e
che viene, l’Onnipotente!».
[ 2 ]
il tema dell’annunciazione 241
orizzonti di senso degli elementi rappresentati non convergano perfettamente,
l’Alto accetta di farsi basso scegliendo un aspetto del basso
da nobilitare più di ogni altro: Maria, la Vergine, la Madre. A questo
punto la riflessione si sposta, è emblematico in Antonello da Messina,
verso un registro intimistico, composto a partire dalle reazioni emotive
della persona Madonna, che mantiene la regalità nell’umiliazione,
chiusura nell’apertura estrema. La commistione dei mondi induce gli
artisti a interrogarsi su quale luogo possa ospitare l’incontro, se debba
rappresentare con coerenza il presente storico o se possa invece tradire
un “trasloco virtuale” verso altre epoche o addirittura altri luoghi,
reali o immaginari (ad esempio in Mantegna). Riferendo all’Annunciazione
della parusia cristiana l’incontro problematico tra messaggero,
messaggio e destinatario del messaggio, è lecito affermare che la
dimensione in cui il tutto si realizza è il risultato di un compromesso
tra le provenienze sfasate dei protagonisti, e dal punto di vista temporale
e dallo spaziale. L’emittente della comunicazione, la fonte sovrumana
del messaggio, o rimarca la sua alterità con un posizionamento
ultraterreno, alloggiandosi magari in uno spazio superiore nettamente
ed evidentemente separato, ma visibile nel quadro d’insieme, o conserva
lo stato dell’invisibile6 che rende tutto visibile facendo da condizione
di possibilità. La ricerca del luogo chiuso-aperto, che abbia una
sua luce e che perciò non richieda di essere illuminato dall’esterno se
non a rinforzo cromatico, si fa esplicita in Piero della Francesca. Gli
occhi, ovvero i punti di vista, interno ed esterno, sono l’accesso interpretativo
all’Annunciazione della basilica di San Francesco ad Arezzo
secondo il Pasolini giovane. Quanto sono impotenti gli occhi del giovincello
bruno, velati da una luce suprema! Come se fossero esclusi da
ogni scambio di potenza. All’interno della scena, ci fa sapere Pasolini,
non riesce ad introdursi alcuna bellezza esterna:
[…] l’occhio cala,/ sperduto, altrove… Sperdutosi ferma/ sul muro in
cui, sospesi,/ come due mondi, scopre due corpi…l’uno/ di fronte
all’altro, in un’asiatica/ penombra… Un giovincello bruno, / snodato
nei massicci panni, e lei, / lei, l’ingenua madre, la matrona implume,/
Maria. Subito la riconoscono quei/ poveri occhi: ma non si rischiarano,
miti/ nella loro impotenza. E non è, a velarli,/ il vespro che avvampa
nei sopiti/ colli di Arezzo… È una luce/ – ah, certo non meno soave/
6 Secondo Cartesio (R. Cartesio, Meditazioni metafisiche, or. 1628-29, Roma-
Bari, Laterza, 2011, Medd. II e III, pp. 40-85) gli attributi della sostanza divina sarebbero
percepibili ma non rappresentabili.
[ 3 ]
242 francesco rizzo
di quella, ma suprema – che si spande/ da un sole racchiuso dove fu
divino/ l’Uomo, su quell’umile ora dell’Ave7.
Ad ogni modo, i protagonisti visibili, messaggero, messaggio8, destinatario,
rinviano, in qualche modo, ad altro, al nuovo inizio. I profeti
biblici avrebbero previsto il passaggio da un mondo all’altro, da un
tipo di regno all’altro9; la previsione dell’annuncio che realizza questo
passaggio è rinvenibile in non pochi passi dei testi antichi. L’Annunciazione
verrebbe a significare il risvolto positivo della profezia malevola
sulla fine dei regni e degli imperi, che ha avuto il culmine del suo
sviluppo nell’ars pronosticandi di età prerinascimentale e rinascimentale.
Con l’Annunciazione dell’incarnazione di Cristo si realizza un disegno
di coronamento della salvezza umana, dopo il peccato originale,
dopo il dramma del cammino a vuoto sintetizzato dal nomadismo
ebraico. Annunciazione della profezia vuol dire che la profezia è kèrigma,
scoperta evangelica, soggetto e oggetto della salvezza, incardinata
nell’incarnazione, nella morte e nella risurrezione di Gesù: annunciare
la profezia sta a significare che essa deve essere reintrodotta, dopo Isaia
e gli antichi profeti, perché le orecchie degli adepti siano messe in
una condizione di esercizio passivo o, che è lo stesso, di attesa vigile
del futuro stato di grazia. La profezia dell’Annunciazione contiene,
più specificatamente, il sistema della produzione testuale che vede
nell’Annunciazione il momento realizzativo dell’attesa escatologica,
l’inveramento dei sogni di Daniele e degli altri profeti antichi.
La disgiunzione nella formula “Annunciazione della profezia o
profezia dell’Annunciazione” potrebbe non reggersi qualora non sia
inclusiva, nel senso che il valore di verità dell’intera formula – usando
un avventato parallelismo con il dizionario della logica – deve
poter rimanere inalterato qualora ambedue i termini siano veri e giustificati:
si deve considerare l’o un vel e non un aut. Devono, cioè, poter
essere vere contemporaneamente tutt’e due le manifestazioni per-
7 P.P. Pasolini, La ricchezza in La religione del mio tempo (1955), Milano, Garzanti,
1995, p. 12.
8 Il messaggio vale, generalmente, nella tradizione iconografica medievale, già
come atto di concepimento; è reso evidente nei quadri servendosi di taluni supporti
simbolici: la colomba, il feto, il seme, il piccolo bambino, addirittura il suono
letterificato.
9 Viene annunciata la soluzione del Vecchio Testamento grazie al Nuovo: il
vecchio fluttuante regno giudaico trova stanzialità nel nuovo regno di Cristo, Rex
Regum, che non viene da questo mondo, ma che su questo mondo porta i suoi effetti,
come suggerisce l’Evangelista nell’Apocalisse.
[ 4 ]
il tema dell’annunciazione 243
ché l’espressione funzioni “logicamente” ed abbia un senso all’interno
dello schema proposto, che mira ad accostare la profezia alla forza
palingenetica annunciante, giocando sull’elisione ora dell’uno ora
dell’altro aspetto – elisione solo apparente perché nell’uno si nasconde
l’altro –.
L’annuncio cristiano è già realizzato nella scena che vede la Vergine
subire la scelta divina di renderla Sua madre – diremmo essere l’unico
caso in cui il figlio sceglie la madre, perché il figlio non è un semplice
figlio e la madre, evidentemente, è destinata ad essere non una semplice
madre – trasmessa tramite la voce angelica in un tempo che coincide
già con il concepimento. Non è necessario che la fecondazione avvenga
in un tempo diverso perché, appena accettata, la luce è già penetrata
nell’orecchio della Vergine per fecondarla. Questa scena si svolge nella
più totale ambiguità di tempo: esprime l’afasia del tempo in concomitanza
con la più grande potenza del Verbo, che feconda la carne, che
riconduce alla carne. La più grande afasia della storia sacra coincide
con il punto di maggiore potenza del Verbo che si incarna. E il Verbo si
incarna in una cornice di senso che spersonalizza le figure, la Madonna
in primis. La madre della divinità, per forza di cose, diviene un’istituzione,
un’architettura, struttura, capanna, tenda, giaciglio, dimora, accoglienza,
ma anche icona, storia, immagine. L’accettazione del messaggio
angelico avviene all’ombra del sovrastante incalzare della nubes
coeli (di Apocalisse e di Isaia), che interviene allorquando l’ordine sovramondano
decide di condizionare l’ordine terreno (è il caso delle battaglie
escatologiche, è il caso della milizia celeste quando viene a combattere
il male e ad affermare la regalità di Cristo). L’Annunciazione contiene
da sempre il condensato positivo della Rivelazione. È lecito sostenere
che essa anticipa, oltre una nascita straordinaria, un mondo nuovo
in cui quella nascita immette. L’apocalisse è implicata nell’accettazione
del messaggio del nunzio angelico: la vittoria escatologica passa attraverso
l’attuazione dell’Annunciazione – punto medio tra la profezia
antica e la fine di ogni utilità della profezia con l’Avvento –. Dire che
“Annunciazione” è il termine che urta la funzione logica della tensione
profetica, non equivale a dire che neghi la profezia o che sfugga all’itinerario
profetico del racconto sacro; vuol dire, anzi, che immette nel
panorama della realizzazione della profezia, in un mondo in cui non è
più necessaria perché ciò che doveva essere compiuto si è compiuto.
Con il venir meno della tensione segnaletico-indiziaria tra il mondo
naturale e il mondo celeste, che a questo punto sarebbe disceso ad assumere
carattere eventuale, la scena annunciante diviene modello di
una stasi figurativa alla quale difficilmente altro si può aggiungere.
[ 5 ]
244 francesco rizzo
Verrebbe da dire che così intesa “Annunciazione” diventa atto di una
potenza apocalittica: l’operatio Mariae realizza la virtus profetica sacra10.
Nello Psalterium decem cordarum Gioacchino da Fiore nell’ambito
della teologia trinitaria pone le premesse per la legittimazione dell’accordo
tra la dottrina e il sapere scientifico o pseudo-scientifico, astrologia
o mantica che sia, il cui sviluppo segnerà l’incrocio di Aristotelismo
e Platonismo nella cultura umanistica11. L’opera mostra la concordanza
tra il Nuovo e il Vecchio Testamento. Scrive Gioacchino nel 1176:
A riconoscere la concordia non mi ha condotto la mia conoscenza della
storia, ma la profonda convinzione che il compimento della promessa
veterotestamentaria attraverso Cristo come capo della chiesa dovesse
mostrarsi non soltanto nella sua vicenda, così come è attestata nel
Nuovo Testamento, ma anche nella successiva storia della chiesa come
corpo di Cristo12.
Gioacchino estende la portata della credenza sulla venuta di Cristo
all’intero Vecchio Testamento creando un sistema ermeneutico in cui
ogni evento passato trova il suo analogo nel presente. L’operazione
della creazione di un uomo nuovo sarebbe da attribuire, in qualche
modo, allo Spirito Santo e alla sua mediazione tra Dio e la struttura
ecclesiale, che prende vita dalla Vergine. Il fondamento testuale sarebbe
in Matteo: «Fu trovata Maria che aveva nell’utero lo Spirito Santo»13,
«ciò che è nato in lei deriva dallo Spirito Santo»14, e nelle parole
dell’angelo a Maria in Luca: «Lo Spirito Santo verrà su di te e la virtù
dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra»15. Il Figlio unigenito di Dio,
visitando il mondo, assume la natura umana nell’unità della sua persona,
che «di Colui di cui era Figlio non ancora uomo, di quello era
sempre Figlio fatto uomo»16. Per il Florense il concepimento dallo Spirito
Santo si spiega riferendosi a Cristo come uomo spirituale – sebbe-
10 I due termini operatio e virtus sono qui usati nell’accezione datane dagli autori
cristiani del Tardo Medioevo, che riabilitano la scienza aristotelica, ovvero come
traduzione rispettivamente di atto e potenza, o facoltà, di energheja e dynamis.
11 Giovanni Pico della Mirandola, leggendo Tolomeo, considera la divinazione
una pratica particolare della generale teoria dei moti celesti e delle congiunzioni.
12 A. Tagliapietra (a cura di), Gioacchino da Fiore sull’Apocalisse, Milano, Feltrinelli,
1994, pp. 222-4.
13 Mt. 1,18.
14 Mt. 1,20.
15 Lc. 1,35.
16 Gioacchino da Fiore, Il salterio a dieci corde (tr. Fabio Troncarelli), Roma,
Viella, 2004, L. I, Dist. IV, p. 34.
[ 6 ]
il tema dell’annunciazione 245
ne nella sua componente umana – e non come essere animale alla stregua
di Adamo. Cristo è uomo celeste: in questo senso lo Spirito può
vivificarlo nella gloria promessa17.
E non si deve intendere “riposò lo Spirito su di Lui” in modo che si
creda che Lo abbia prima creato e dopo sia rientrato in Lui, ma lo Spirito
stesso prevenne Colui che è pure stato fatto suo ricettacolo. E perciò
ben a ragione si dice che è stato concepito dallo Spirito Santo, perché la
grazia fu presente nella mente della vergine prima che Gesù fosse concepito
nel ventre della madre [Lc. 1,28]. E tuttavia lo Spirito Santo non
entrò in lei come entra negli altri eletti che sono stati concepiti nel peccato
[Ps. 50,7], ma dall’inizio vi fu presente insieme al Verbo e adattò
quel sacro recipiente di Dio a se stesso secondo la sua volontà18.
Essere uomo celeste vuole dire poter patire dal lato dell’umanità,
sottomessa allo Spirito, e compensare, insieme, questa sottomissione
con il non essere di questo mondo. In tal modo si colma il divario passante
tra natura – che ha i suoi effetti sul corpo – e sostanza divina –
elemento puntuale, che non risente di alcuna legge, perché crea la legge
–. Dalla demarcazione delle componenti di Cristo sorge la doppia
corrispondenza tra il carnale con la legge della storia e lo spirituale
con l’elemento della salvezza e della promissio paradisii. Dunque lo Spirito
Santo sarebbe principio del Figlio sulla base della natura umana
di quest’ultimo19. La prospettiva terrena esalta il momento in cui lo
Spirito discende su Maria, in Maria, a caratterizzare Dio.
Relativamente ai punti di contatto tra la teoria del linguaggio e la
rappresentazione sacra Ave Appiano Caprettini prova a interpretare
l’Annunciazione usando le categorie semiologiche saussuriane. La
raffigurazione della Vergine, che riceve la fecondazione per tramite
del messaggio verbale oppure del soffio della colomba, si configura
come qualcosa di strutturato, di assimilabile al ruolo della langue
nell’ambito linguistico. Sfugge, cioè, al principio di sincronia per inserirsi
in un codice di significazione che arricchendosi di particolari, nel
passaggio da un’epoca all’altra, entra a far parte di un livello sociale
longitudinale. L’Annunciazione sarebbe un linguaggio codificato
all’interno di un paradigma culturale totalizzante. Il riferimento topografico
dato dal Vangelo di Luca, “essendo entrato presso di lei”, permetterebbe
di stabilire un rapporto binario dentro-fuori/Madonna-
17 Rm. 5,2.
18 Gioacchino da Fiore, Il salterio a dieci corde, cit., p. 35.
19 Ivi, p. 36.
[ 7 ]
246 francesco rizzo
Angelo connesso ad uno spazio di clausura incontaminato, nella sua
struttura architettonica rigoroso20. Dal suo didentro l’effetto dell’annuncio
deve poter uscire, andare oltre, ma anche saldare bene gli elementi
interni della vita cristiana: Maria è la madre della Chiesa, è
struttura, Dio è spirito, che feconda in modo nobile, che annuncia il
suo concepimento per tramite dell’Angelo. I gesti e i vestiari della Madonna
rendono la scena un qualcosa di autonomo, chiuso ermeticamente
nell’autosufficienza21. La via di fuga da questa autoreferenzialità
è rappresentata dall’elemento profetico e dal carico apocalittico
contenuto in esso. L’accettazione del messaggio non avviene sic et simpliciter,
non sfugge al moto interiore della Vergine.
Gli Oracoli Sibillini, editati in periodo umanistico per far venir fuori
il carattere escatologico dei testi protocristiani, sentenziano sul timore
della Madonna e sul suo superamento: «[…] a lei tornò il coraggio/
e il Verbo volò nel suo grembo./ Fattosi carne col tempo/ e vita
nel grembo, / assunse forma di uomo mortale/ e fu bambino, nato da
parto virgineo/»22. È controverso stabilire come e quando gli Oracoli
abbiano potuto predire l’evento di cui ci stiamo occupando. A giustificare
la loro maggiore precisione rispetto ai testi profetici considerati
canonici, come quello di Isaia, può essere utile seguire l’ipotesi, sollevata
dagli editori cinquecenteschi, di una struttura stratificata segnata
da continue aggiunte e ritorni correttivi sul testo. Infatti se Isaia ostenta
«ecce virgo pariet puerum», la Sibilla dice«ecce virgo Maria pariet puerum
Jesum in Bethlehem»23. E vaticina: «Et in diebus illis exurget mulier a
meridiano de stirpe Hebreorum nomine M. habens sponsum nomine I. et
procreabunt ea sine commistione viri, de Spiritu Sancto, nomine Iesus: ipsa
erit virgo ante partum, virgo post partum: qui ergo ex ea nascetur, erit verus
homo, sicut omnes Prophetae praedicaverunt […]»24.
L’intreccio profezia-Annunciazione non è solo logico, ma testuale,
20 A. A. Caprettini, lettura dell’Annunciazione fra semiotica e iconografia, Torino,
Giappichelli, 1979, pp. 10-38.
21 Cfr. M. Bachtin, Estetica e Romanzo (Voprosy literatury i esteticki, 1975), trad.
it., Einaudi, Torino 19972, p. 15. Bachtin, parlando di apertura metaforica relativamente
ad altre strutture letterarie, mostra come l’opera, considerata teleologicamente,
abbia modo di scampare alla cifra della sua organizzazione interna divenuta
totalizzante.
22 Antologia cristiana: i primi secoli, Milano, Sansoni, 1969, pp. 185-7.
23 Servatius Galleus, Sibyllina oracula ex veteribus codicibus emendata, ac restituita
et commentariis diversorum illustrata, opera et studio Servatii Gallei (…), apud
Hernicum et viduam Theodori Boom, Amstelodamj, 1689, Praefatio.
24 Ibidem.
[ 8 ]
il tema dell’annunciazione 247
nel senso che “testuale” acquisisce in ordine a cose per cui il mondo
può essere diretto dal testo, pre-letto nel testo, forse, addirittura, cambiato
nel testo – nel caso in cui si dovesse sposare una concezione
della storia per cui i fatti non accadono mai fino in fondo –. Il Creatore,
nel voler dare una chance al corpo, fa in modo che lo Spirito Santo comunichi
con la parte spirituale del corpo di Maria, sottintendendo che
esista la possibilità di una partizione – una forma di presa sul mondo
materiale – in seno alla Terza persona divina25.
In età umanistica alcuni elementi astrologici antichi vengono ricondotti
a congiunzione coi loro significati originali – questo dimostrano
Warburg, Panofsky, Saxl – fintanto che astrologia mondiale, di
derivazione tolemaica, e esegesi biblica divengono due aspetti di uno
stesso nucleo teologico. In effetti, la validazione teologica del sapere
astrologico costituisce un arricchimento della profezia derivata dalla
virtus profetica e dall’unzione regale di Dio. Il punto di incontro tra
l’hybris del profeta antico e il pronostico astrologico, validato dal teologo
basso-medievale, risiede in un tipo di approccio millenaristico, un
particolare modo di leggere la storia come l’itinerario che porta dalla
negazione dell’infedeltà all’avvento di Cristo nella seconda parusia
della carne dopo la sconfitta dell’Anticristo – che i commentatori identificano
ora con Maometto II, che distrugge e conquista l’Impero d’Oriente
e la sua capitale, Costantinopoli, ora con Lutero, l’eresiarca venuto
dal nord, così come lo apostrofa Antonio Arquato agli inizi del
Cinquecento –26. Alla profezia millenaristica, nata dall’interpretazione
dei famosi mille anni intercorrenti tra l’imprigionamento negli abissi
di satana e la sua scarcerazione, propedeutica alla definitiva condanna
del male allo stagnum ignis di Apocalisse XX 14-15, l’astrologia mondiale
fa da supporto strumentale. Il suo compito è principalmente di mostrare
che il Regno di Cristo è vincente anche sul piano della storia, e
che le congiunzioni astrali altro non sono che disposizioni divine per
farlo comprendere. Regni e personalità di rilievo si avvicendano tra
traumi e paci più o meno stabili, fino all’affermazione della Monarchia
Messiae. Il dominio divino non può essere trasferito all’uomo perché
quest’ultimo non può non dipendergli in esse, operari et conservari27. La
25 Ivi, Liber 6, p. 649.
26 Cfr. A. Arquato, Iudicium eversionis Europae, s.e., Ferrara 1522 (?). La data di
stesura, anche in questo caso, è dibattuta data l’incredibile esattezza di alcune predizioni.
27 T. Campanella, Monarchia Christi (1633), Torino, Bottega di Erasmo, 1960, p.
6: «Quod enim homo dat non sic et suum, sed a Deo accepit immediate, aut mediantibus
[ 9 ]
248 francesco rizzo
Monarchia Eius ricondurrà ogni varietà regale all’unitas ecclesiae, il
gregge sub uno pastore. Questi sono i termini della profezia di Annio da
Viterbo, il De futuris Christianorum triumphis in Turkos et Saracenos, stilata
nel 1481, che evidenzia come Albumasar e l’Aristotelismo arabo
– riammesso in Occidente grazie ad Alberto Magno e a Tommaso d’Aquino
– possano convivere coi Padri e gli esegeti medioevali, da Lattanzio
e Gregorio Magno a Gioacchino da Fiore. Nell’opera menzionata
si fa cenno ad una divisione della storia del mondo per epoche millenarie
– lascito di Tolomeo e delle tavole alfonsine, ma anche del De
civitate Dei – ognuna delle quali è dominata da un segno dello Zodiaco.
La nascita di Cristo, per Annio, sarebbe caduta sotto il millennio
della Vergine, il sesto, e avrebbe portato la perfezione zodiacale a partire
dalla congiunzione di Marte e Mercurio, la vocazione al martirio
dei fedeli e l’ingegno garantito dall’intelletto. Ovviamente giudicare
secondo gli astri la nascita di Cristo può suscitare qualche perplessità,
ma ciò proviene dall’esigenza di raccordare fede e convinzioni astrologiche
per depurare l’astrologia da pericolose pratiche negromantiche.
Se Cristo non fa nulla per squalificare il sapere astrologico, essendo
in sua facoltà di poter sovvertire il principio di corrispondenza, è
solo perché apre a un’opzione linguistica.28 Non soggetto agli astri ma
libero ab eterno dall’influsso delle stelle avrebbe favorito l’umanità
promuovendo l’elezione degli aspetti corporali relativi a sé stesso,
cioè al Dio-uomo, in coerenza con l’ordine astrale. Avrebbe fatto ciò
perché in questo modo, potendo essere letti i cieli, ordinati così e così
dal Supremo, all’uomo verrebbe preclusa l’attenuante dell’annebbiamento
di coscienza in caso di errore – di considerare i segni causa o
scambiare le momentanee vittorie degli eserciti del male, ad esempio
di Maometto II e dell’Islam ottomano, per vittorie definitive –. Stando
a Orosio e a Eusebio, dice Annio, l’apparizione della Vergine immacolata,
che avrebbe allattato Cristo e dato vita alla Nuova Legge, sarebbe
avvenuta intorno al 5199 dal Diluvio: «Ascendit in prima facie virginis
genitoribus, aut amicis, aut per aliam quamcumque; translationem, secundum quod fatum,
hoc est, Divinus ordo, fert. Idcirco Donator transfert Dominium; sed Deus non potest
transferre a Se in nos suum dominium; quoniam impossibile est quod nos simus aut, quod
sint illae res, quas habemus, absque eo quod dependeant a Deo, in esse, et operari et conservari.
».
28 L. Smoller, History, Prophecy and the Stars: the Christian Astrology of Pierre
d’Ailly, 1350-1420, Princeston, Princeton University Press, 1994, p. 183. Inoltre cfr.
Pierre d’Ailly, Concordantia astronomiae cum historica narratione (1414), Auguste
Vindelicorum, s.l. 1490. Nell’opera d’Ailly difende la legittimità dell’oroscopo di
Cristo, data la sua particolare, perfetta, configurazione fisica.
[ 10 ]
il tema dell’annunciazione 249
virgo immaculata corpore vultu decora puerum lactans et dat ei ad comedendum
ius»29. La scena dell’Annunciazione in Annio è data per presupposta
dalle parole dell’Angelo, che annunciano a Maria l’infinitezza
del Regno futuro, infinitezza non solo spirituale, ma anche temporale30.
Anello di congiunzione tra il vecchio e il nuovo sistema, ella sa di
allattare il Rex, di avere a che fare con la dimensione dell’infinito perché
a ciò è stata istruita. Potremmo dire che partecipa, anzi, diviene
parte integrante della profezia di Isaia, che si invera31.
Anche la pittura celebra spesso la confusione dei registri profetici
inserendo la figura delle sibille accanto ai profeti antichi nelle rappresentazioni
sacre: oltre alla michelangiolesca Volta della Sistina, è il caso
di ricordare l’affresco del Perugino presso il Collegio del Cambio di
Perugia in cui sei sibille stanno accanto ai profeti di fronte a Cristo, il
polittico di San Bavone a Gand, realizzato da Van Eyck, in cui sopra la
scena dell’Annunciazione la sibilla cumana vaticina «verrà il tuo Re
dei secoli futuri», e ancora la vetrata multicolore della Cattedrale dell’Assunta
di Siena, dipinta da Duccio di Buoninsegna, in cui si celebra
la Madonna, contornata da queste misteriose figure, una delle quali, di
pelle nera, espone in latino la scritta «ricevendo pugni tacerà».
L’Annunciazione si trasformerà, nella storia dell’Occidente cristiano,
in annunciazione della fede di teologi ed esegeti, i quali, come annunciatores
fidei proveranno ad assimilarsi al Cristo della Passione per
collegarsi indirettamente ai martiri e ai santi. A questo punto l’Annunciazione
diventa una missione teologica, letteraria, un momento da
sottrarre al complesso di rapporti rappresentazionali per estenderlo al
futuro come obiettivo della visione profetica32. Eugenio Garin osserva
che – Giovanni Pico della Mirandola lo sosteneva nella parte finale
29 Annio da Viterbo, De futuris Christianorum triumphis in Turkos et Saracenos,
s.e., Genova 1512, Conclusio septima, pp. 110-2. La cinquecentina, che è stata consultata,
è collocata tra i rari della Biblioteca Nazionale di Castro Pretorio a Roma.
30 Ivi, pp. 52-5.
31 Is. 4, 2: «In quel giorno, il germoglio del Signore crescerà in onore e gloria e
il frutto della terra sarà a magnificenza e ornamento per gli scampati di Israele.».
Is. 7, 14: «(…) la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele.
». Is. 11, 1-2: «Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto germoglierà
dalle sue radici. Su di lui si poserà lo spirito del Signore, spirito di sapienza e
intelligenza, di consiglio e di fortezza, di conoscenza e di timore del Signore.».
32 D. Bigalli, I tartari e l’Apocalisse. Ricerche sull’escatologia in Adamo Marsh e
Ruggero Bacone, Firenze, La Nuova Italia, 1971, p. 17. Parliamo dei francescani di
Oxford, Ruggero Bacone e Adamo Marsh, i cui testi possono essere letti, lo fa Davide
Bigalli, come il tentativo di recuperare la missione palingenetica del Cristianesimo
con il sostegno ad una historia salutis.
[ 11 ]
250 francesco rizzo
delle Disputationes –, l’astrologia divinatrice non sarebbe da combattere
in quanto errore scientifico, o solo in quanto tale, ma soprattutto per
l’errata concezione della realtà che le è sottesa nella pretesa di cambiare
il dato sottoponendolo a un deliberato processo di re-visione. Le
favole astrologiche, cui il saggio umanista tende a dare credito dovremmo,
per lo studioso reatino, crederle oracoli solo entro certi limiti.
Le cose confutabili, perché irrazionali, non dovrebbero a rigore essere
reintegrate nel sistema della conoscenza come divine33. Le obiezioni
sono tutt’altro che trascurabili dato che proprio dal recupero di
quell’atteggiamento, che fu di Egizi e Caldei, risorse una nuova idea
di realtà: l’astrologia diventa radice dell’albero del sapere. Con tali
radici Pico non può non fare i conti a partire dal suo disegno, fallito, di
fare incontrare astrologia, magia, cabala34. Garin, giustamente, ritiene
che il fallimento del progetto delle Disputationes pichiane sia sancito
da una specie di affermazione dell’insolubile antitesi aristotelica tra
cielo e terra, tra fisica dei cieli e fisica terrestre, e dal superamento del
rapporto fra mondo della necessità e mondo della libertà in seno
all’accentuazione del distacco problematico tra materia e anima, tra
fato e libero arbitrio35. Inoltre la religione se da un lato diviene visione
del mondo e pretende di indirizzare la realtà grazie alla sua incisione
apocalittica, dall’altro è messa in crisi proprio da chi inizia a subordinarla
al moto dei cieli e, dunque, a un’idea embrionale di scienza nuova36.
Non mancarono certo gli accenti polemici e le accuse di “savonarolismo”
mosse a Pico da coloro che vedevano nell’ars astrologica una
prospettiva di sviluppo separata dalle altre formule di superstizione e
di sapere pseudo-scientifico. Giovanni Pontano, Lucio Bellanti, Luca
Gaurico furono i critici più severi. La loro parola d’ordine fu “tornare
a Tolomeo”, che voleva dire tornare a una parvenza di scientificità
epurata dai risvolti profetici in senso generale.37 Più tardi Tommaso
Campanella, tuttavia, partendo da un punto di vista critico circa il
sapere astrologico in rapporto alle Disputationes, si convince che questa
dottrina è ricca di “cose divinissime”38. All’aspetto divinatorio
dell’indagine astrale si riallacciano gli Articuli prophetales del 1599. La
Faracovi mette in evidenza come in linea con il profetismo escatologi-
33 E. Garin, Lo Zodiaco della vita (or. 1976), Roma-Bari, Laterza, 2007, p. 100.
34 Ivi, p. 104.
35 Ivi, p. 105.
36 Ivi, p. 107.
37 O. P. Faracovi, Scritto negli astri, Venezia, Marsilio, 1996, pp. 236-7.
38 Ivi, p. 259.
[ 12 ]
il tema dell’annunciazione 251
co di ambiente protestante il Calabrese faccia riferimento alle profezie
bibliche e ai Padri della Chiesa «per appoggiare ad essi, oltre che alle
Sibille, a Gioacchino da Fiore, a Caterina da Siena, la predizione di
eventi mirabili»39. A poter essere influenzati dalle stelle e dal cielo, per
lui, sono il corpo, lo spirito animale e gli umori. Mentre l’arbitrio umano
è sottoposto agli astri accidentalmente e non direttamente40. Con il
profetismo cristiano l’unico tipo di teoria degli astri compatibile è
quello che li vede come segni. Molte tecniche astrologiche sono state
respinte in nome della depurazione iniziata dai detrattori di Pico e
completata con la geometrizzazione dell’universo fisico. Resta intatto,
comunque, il credito filosofico e teologico dato allo strumento profetico,
che si mantiene vivo a segnalare lo scarto ermeneutico tra il canone
biblico e la galassia dei testi in un primo tempo autenticamente considerati
e maneggiati, poi parcheggiati per non suscitare dubbi, non
sconfessare ipotesi, evitare di contraddire altri testi battezzati come
ufficiali. Durante il periodo umanistico si è soliti creare relazioni funzionali
tra il codice delle cose naturali, esperibili coi sensi, e ciò che ne
permette la dialettizzazione o la traduzione letteraria41. Si avverte il
bisogno di poter intervenire sulla linea del tempo attraverso uno strumento
logico-linguistico sempre meno logico, sempre più ermeneutico
nel senso dell’interpretazione oracolare. Il testo principe, un vero e
proprio strumento di lettura, o rilettura, dei fatti relativi alle epoche
passate, presenti, future viene ad essere l’Apocalisse di Giovanni, utilizzato
non solo da Annio e dall’Arquato, ma dalla maggior parte dei
pronosticatori-astrologi.
Il fascino destato dagli Oracoli Sibillini è rimasto inalterato e si è
spinto oltre le soglie del XIX secolo. Nella traduzione da un manoscritto
ritrovato a Cuma alla fine del 1800, ad esempio, si mostra all’interno
di quali griglie formali interrogare gli oracoli. In esso si lascia
sgombero il campo della differenziazione del pronostico dalla profezia,
dell’oracolo dalla numerologia cabalistica42. La confusione di pratiche,
che assimilabili totalmente non sono, ci dice di come la profezia
abbia subìto riletture che sono servite a tramandarla in qualche modo,
39 Ivi, p. 260.
40 T. Campanella, Astrologicorum libri VII, Francoforte, Goffredo Tampachi,
1630, p. 1091
41 Si pensi a Raimondo Lullo o a Giordano Bruno.
42 A. Salomon, I meravigliosi oracoli della Sibilla Cumana in «Racc. Gen. Miscellanea
V 132», s.l. 1896, p. 60. Il fascicoletto della raccolta, monco del luogo di edizione
e dell’editore, è stato consultato presso la Biblioteca Apostolica Vaticana.
[ 13 ]
252 francesco rizzo
seppure modificata nella sua fisionomia originaria. Oltre a far corrispondere
al fiore una terna di numeri vincenti il compilatore affianca
alla predizione versi che esplicitano il significato riposto della singola
tipologia floreale. Così al giglio – al fiore che accompagna, dalle origini,
le rappresentazioni di Maria Vergine – viene fatta corrispondere la
sequenza lirica: «Non mi toccar, Fileno (amante, colui che vuole amare)/
Che macchi il mio candor./ Io consagrar mi voglio/ Al caro mio
Signor//»43. E al gesto di porre la destra al cuore – altra gestualità tipica
della santità ma anche, nella letteratura profana, dello spasimo
d’amore – si dà una valenza tutt’altro che fedele al dettato evangelico,
anzi, se ne coglie il retro-pensiero profanante, miseramente terreno.
Ecco che il linguaggio oracolare ridiventa il giudizio sintatticamente
elaborato per essere vago e polisemico, la struttura esemplare che sottende
la proposizione logica, l’antico proloquium varroniano, l’input
profanante delle medioevali arti liberali per primo promosso da Marziano
Capella. «Dell’amor mio pudico/Del lungo dolor mio/ Tu ti diletti,
o Dio! Che barbaro piacer.//»44. Il significato dell’atto di volger
gli occhi al cielo, la cui esplicazione ritmata accompagna esemplarmente
la miscela di contenuto sacro e profano, diventa anch’esso ambiguo
per mantenere aperto il doppio registro. Allora l’immagine implicita,
nascosta alla vista iconografica, presentata alla comprensione e
alla facoltà poietica, abbandona le sembianze delle Madonne di Antonello
da Messina per assumere, inversamente, i contorni di un sospirante
pretendente amoroso: «Innalzo gli occhi al cielo,/E prego il Dio
d’amore/Che ti trafigga il core/col sospirato Imen»45. Se ne ricava che
l’efficienza per trafiggere il cuore, e soprattutto l’imene, viene da un
certo Dio d’amore, che non possiamo di certo confondere con una divinità
pagana, visto il contesto testuale in cui è inserito: è piuttosto
uno degli appellativi dell’unico Dio, dell’Essere Eterno cristiano, che,
alla maniera di un dio greco, viene invocato per la sua potenza di piegare
gli eventi a favore del supplicante. Alla preghiera propiziatoria di
battaglie e affari importanti dei sovrani, al favorevole pronostico anniano,
che mirava a risollevare le fila dell’esercito aragonese per la ricacciata
dei Turchi da Otranto, ebbene al pronostico apologetico viene
sostituita o aggiunta la richiesta di una grazia molto più specifica e
particolare: la vittoria nella battaglia d’amore. L’Iddio diventa il custo-
43 Ibidem.
44 In questo caso i versi sembrano proiettati a dar conto di un amore profano
edonistico.
45 Ibidem.
[ 14 ]
il tema dell’annunciazione 253
de della verginità femminile: bisogna votarsi ad esso per rendere efficiente
l’erotica penetrabilità con l’infrazione dell’imene46. La custodia
dell’integrità femminile, dell’orto virginale, spetta a Dio ed ai suoi
emissari; ogni atto sessuale può pertanto avvenire all’interno del recinto
domestico, in una situazione comunque di non apertura, ma di
intima chiusura. Il livello superiore è in grado di scalfire la chiusura
dello spazio con l’imposizione dell’Angelo, della colomba, del raggio
di luce fecondante, in breve, intromettendosi tra l’idea di famiglia secondo
tradizione e l’idea che una struttura sarebbe dovuta nascere
dalla negazione della tradizione grazie alla ragione, risultato compiuto
nel secolo dei Lumi.
Li Consigli della Sapienza, ovvero Raccolte delle Massime di Salomone,
attribuito a Michel Boutauld, subito tradotto in italiano, riflette, tra la
fine del Seicento e i primi del Settecento, sulle sentenze contenute nei
libri testamentari riferibili al re Salomone dopo averle parafrasate.
L’intenzione del commentatore è di riuscire a diffondere il disegno di
ammaestramento morale in persone che vivono tra gli affari del mondo.
Le riflessioni sulle massime sono intrise di procedimenti analogici
tesi a trasportare nel presente le forme di saggezza del grande monarca
israelita, a proiettarle nella modernità, in un panorama etico mutato
grazie alla diffusione capillare di un Cristianesimo razionale.47 L’intento
attualizzante rende le pagine del trattato cariche di richiami politici
e resoconti previsionali. Bisogna rilevare, innanzi tutto, come
venga recepita la celebre massima sulla vanitas vanitatum dell’Ecclesiaste48:
[…] i movimenti della sua disperazione, ed i gridi del suo dolore saranno
quegli che ha intesi da lontano il Profeta, e che ha ripetuti con
queste parole, reddidit me quasi vas inane. Iddio, dirà ella (l’anima), mi
aveva fatto un vaso immenso e prezioso, capace di godere della sua
gloria e di possedere la sua Divinità: egli frattanto si è ritirato, lasciommi
del tutto vuota: io, non sono che io, e questo si è l’afflizione delle
46 Ivi, p. 63.
47 Cfr. M. Boutauld, Li Consigli della Sapienza, ovvero Raccolte delle Massime di
Salomone, Venezia, Girolamo Albrizzi, 1724.
48 Eccl. I.: «1 Parole di Qoèlet, figlio di Davide, re di Gerusalemme. 2 Vanità
delle vanità, dice Qoèlet, vanità delle vanità, tutto è vanità. 3 Quale utilità ricava
l’uomo da tutto l’affanno per cui fatica sotto il sole? 4 Una generazione va, una
generazione viene ma la terra resta sempre la stessa. 5 Il sole sorge e il sole tramonta,
si affretta verso il luogo da dove risorgerà. 6 Il vento soffia a mezzogiorno, poi
gira a tramontana; gira e rigira e sopra i suoi giri il vento ritorna».
[ 15 ]
254 francesco rizzo
afflizioni, ed il più terribile dell’inferno: essere spirito ed essere solo:
esser anima immortale e vanità: vanitas, afflictio spiritus49.
Sebbene si possa avere la certezza di possedere un’anima immortale,
non per questo si deve gioirne oltremodo dato che la vanità – conseguenza
della vacuità – è sinonimo di solitudine. Il sentimento di solitudine
non sarebbe relativizzabile alla sola corporeità, ma estendibile
anche allo spirito, nel momento in cui viene abbandonato da ogni
caratterizzazione nobilitante. Nella seconda parte il trattato si rivolge
alla buona educazione della prole a partire dalle parole di Proverbi 450.
La buona educazione dei figli rappresenta un motivo ricorrente nelle
società europee del XVII e XVIII secolo – si pensi alle tante opere di
stampo pedagogico, dall’Emilio di Rousseau, al Rapporto a Gioacchino
Murat di Vincenzo Cuoco, al Purgatorio Politico di Longano51 – che
comprendono quanto sia fondamentale, per il miglioramento delle
condizioni di vita dei ceti deboli, allevare i figli nella retta condotta:
«Quanta sublime politica ed eminente, nella educazione di un Figliuolo
ch’esce di ciascuna!»52. Infine, l’espressione salomonica fons vitae,
eruditio possidentis53, usata e commentata nell’ambito dei commentari
del genere esaminato, ben si presta a sintetizzare il senso di questa
trattazione perché traduce in termini critici la disgiunzione logica
“profezia dell’Annunciazione o Annunciazione della profezia”, lasciando
intravedere l’eventuale associazione tra l’Annunciazione profetizzata
e la dialettizzazione della fons vitae nell’erudizione ai generi
espressivi. A Proverbi 16 farebbe da giusto corollario il periodo “l’ignoranza
è morte, la scienza è vita”: la fonte della vita è la fonte della
scienza, cioè il saper interrogare chi o cosa può dirci la verità, l’essere
49 M. Boutauld, Li Consigli della Sapienza, cit., I parte, Articolo I, Massima 3, p.
7.
50 Prov. 4: «1 Ascoltate, o figli, l’istruzione di un padre e fate attenzione per
conoscere la verità, 2 poiché io vi do una buona dottrina; non abbandonate il mio
insegnamento.».
51 Francesco Longano da Ripolimosani è tra i più vivaci allievi di Antonio Genovesi.
Può a diritto essere considerato uno dei più importanti esponenti del pensiero
di riforma meridionale del Settecento. Pur essendo un sacerdote le sue idee
rasentano l’anticlericalismo e contengono accenti polemici nei confronti dello status
quo feudale difeso dagli ambienti curiali. Il suo Purgatorio ragionato (o politico)
è un vero manifesto contro l’ingiustizia baronale nonché l’invito ad adottare le
virtù sociali (tra le quali la corretta educazione della prole) a orientamento di una
giusta civiltà, finalmente degna di estendere i suffragi ai propri defunti.
52 M. Boutauld, Li Consigli della Sapienza, cit., p. 108.
53 Prov. 16.
[ 16 ]
il tema dell’annunciazione 255
dotati di qualcosa di intimamente organizzato per il nostro pensiero a
prescindere dall’ambito a cui si rivolge. Infatti il peccato viaggia a
braccetto con l’ignoranza: «siccome la scienza è una parte della nostra
perfezione, ella è parimenti parte della nostra felicità»54. Nella formula
fons vitae eruditio possidentis è racchiuso dunque l’intero programma
speculativo della profezia come genere. La sapienza di Salomone è
solo uno degli aspetti della proloquente55 sapienza profetica; un altro
aspetto è rappresentato dalla religione popolare del filone “Scrittura
dei poveri” di ambito medievale a cui appartengono la Biblia Pauperum
e lo Speculum Humanae Salvationis.
L’autore dello Speculum di cui sono giunte a noi varie versioni in
manoscritto e incunabolo sarebbe un frate domenicano.56 La cosa interessante
di queste nove compilazioni è che le immagini, che servono a
rendere grafico il narrato, sono messe l’una accanto all’altra non in
ordine cronologico né, tanto meno, per successione scritturale, ma in
ordine ad una sorta di richiamo tematico. Così la raffigurazione
dell’Annunciazione e la relativa sottostante parte di testo sono poste
accanto all’episodio del roveto in fiamme, quando Mosè viene chiamato
dal Signore, alla pioggia nel vello di Gedeone, a Rebecca, che
disseta il servo Eleazar. L’Annunciazione di Cristo è preceduta da una
annunciazione della Vergine. Nella raffigurazione dell’annunciazione
di Maria ad Anna è ravvisabile una certa somiglianza con l’immagine
della Madonna annunciata; la figura di Anna quasi anticipa l’atteggiamento
della figlia, che già da ora è destinata a non essere figlia, ma
utero della futura umanità. Nel Capitolo III, quasi a rimarcare un’originaria
assunzione di divinità di Maria, si accredita la santificazione di
Anna e, con lei, dell’intera linea genealogica femminile della Vergine,
quasi che l’utero, che ha fatto nascere l’utero, che avrebbe dato alla
54 M. Boutauld, Li Consigli della Sapienza, cit., Continuazione, Massima VI, p.
56.
55 Giulio D’Onofrio, Fons scientiae. La dialettica nell’Occidente tardo-antica, Napoli,
Liguori, 1986, p. 27. Il proloquium è, secondo le fonti antiche, il termine che
esprime la proposizione significativa, il giudizio logico, che può essere vero o falso.
56 I due manoscritti cui si rifarebbero tutte le stesure quattrocentesche sono
l’Arsenal ms. Lat. 593 e il ms. lat. 9584, conservati entrambi nella Biblioteca Nazionale
di Parigi. Ci sono, poi, incunaboli che trascrivono questa produzione che accompagna,
al racconto in uno strano latino ritmico perso nelle versioni a stampa
successive, alcuni episodi salienti della storia religiosa cristiana, vere e proprie
raffigurazioni, che servono a esplicitare in immagine il senso del testo. Lo Speculum
è una delle espressioni più note di teologia popolare insieme alla Bibbia dei
Poveri.
[ 17 ]
256 francesco rizzo
luce il Signore, non possa che essere a sua volta benedetto57. Questa
annunciazione dell’Annunciazione mi sembra contigua, per modulo
espressivo, alla profezia dell’Annunciazione così come la si è intesa
nella trattazione: l’Angelo annuncia, nell’episodio di Anna, che annuncerà
il Supremo, nell’episodio di Maria, per tutti i secoli dei secoli.
I due livelli di annunciazione sono reciprocamente rinvianti, quella a
Maria è propedeutica a quella ad Anna nonostante sia cronologicamente
successiva. Esiste l’annunciazione ad Anna perché esiste l’Annunciazione
a Maria. La scala intergenerazionale è ben resa dalla tavola
masacciana degli Uffizi dipinta tra il 1424 e il 1425 per la chiesa di
Sant’Ambrogio custodita a Firenze Sant’Anna, Madonna col Bambino e
Angeli.
Il tema conduttore tra i tre episodi raccontati a latere dell’Annunciazione,
ovvero il roveto in fiamme, il vello di Gedeone, Rebecca che
disseta Eleazar, è l’inversione dei ruoli e delle cittadinanze terrena e
celeste, il superamento di qualsiasi inganno con la fiducia nella possibilità
di essere qualcos’altro da ciò che si è, non semplici uomini, non
semplice natura. L’inversione può succedere tra naturale e soprannaturale,
tra messaggero e destinatario del messaggio, tra servo e padrone.
L’intervento di Dio è comunicato grazie all’Angelo, al fuoco, alla
pioggia, alla giustizia. Le figure che rappresentano l’accoglimento del
Padre, nella serie, sono inginocchiate – Mosè, Gedeone, Eleazar –. Maria
non si inginocchia all’Angelo ma è quest’ultimo a inginocchiarsi a
lei, che è già la madre di Dio, per cui già al di sopra della gerarchia
angelica, Altissima. Non è già più mulier e simplex mater: accettando
quel figlio, che è il Padre, sancirà per sempre, paradossalmente, la sua
integrità e in-corruzione (assolutizzando il suo stato di intacta et incorrupta).
Nulla è come sembra. Se in un primo tempo si aprirà non senza
angoscia all’Angelo, che sa di essere là per deificarla, un istante dopo
desidererà l’uomo, recita lo Speculum, alla pari di quanto abbia desiderato
Sara, moglie di Abramo, suo figlio Isacco. La descrizione ci presenta
una Madonna sola di fronte a un compito sovrumano prima sul
punto di scappare, poi, vinta dalla dilectatio, desiderosa di compiere la
profezia. La dispensa della gioia eterna fa da contrappunto al rischio
della desponsazione. Da questo momento non è più la semplice sposa di
57 Speculum Humanae Salvationis, being a reproduction of an Italian manuscript of
the fourteenth century, (pref. di Bernhard Berenson), Oxford, John Johnson, 1926, p.
15. La storia dell’annuncio ad Anna si ispira al Protovangelo di Giacomo e allo
Pseudo Matteo. Famoso, sul tema, è l’affresco di Giotto databile tra il 1303 e il 1305
presso la Cappella degli Scrovegni a Padova.
[ 18 ]
il tema dell’annunciazione 257
Giuseppe, ma diventa sposa del futuro. Certo è che per Giuseppe, rimasto
più che mai solo, quasi vedovo – come la vedova Giuditta, che
rifiutò di congiungersi ad alcuno dei suoi sudditi –, stupefatto, quanto
accaduto alla moglie non deve essere stato facile accettare58. La solitudine,
tuttavia, riunirà i coniugi in un ritrovato vincolo soprannaturale.
Dopo la fuga Giuseppe rimpatrierà in sé, nella sua missione, nel suo
amore protettivo nei confronti di Maria e del Nascituro. Tra le figure
del facsimile del ms. lat. 9584, riportato dall’edizione Johnson, con prefazione
e descrizione di Bernhard Berenson, e quelle del facsimile
dell’Arsenal ms. lat. 593, riportato a scopo comparativo nella Johnson,
passa una lieve differenza di testo e di icone. In quest’ultimo colpisce
l’utilizzo testuale del verbo audire anziché videre o legere in relazione
alla visione iconologica. Il Verbo non è più lettera, ma suono che informa
l’immagine. Ci troviamo in presenza di una narrazione che ormai
nega ogni autosufficienza al testo, financo al sacro, che somma in sé i
tratti dell’oralità del verbo parlato, il quale rinvia coi suoni alle immagini
per dispiegare il senso59. L’Annunciata è la Virgo delle predizioni
astrologiche, è la porta/finestra che immette nel nuovo mondo, che
corregge la legge mosaica, colei che riconcilia la profezia con la profezia,
la Scrittura con il popolo. La realtà storica viene a coincidere con
la sua trascrizione letteraria, con la sua sintagmatica coerenza: su di
essa non si può negare possibilità di intervento. La realtà può essere
giusto cambiata perché non risponde più al criterio del “dato una volta
per tutte” tipico della storiografia positiva.
L’Annunciazione non ha mai perdute le prerogative della pronosticazione,
della predizione del tempo della felicità, dell’isomorfismo tra
natura e soprannaturale, tra evento e configurazione astrale. Di altro
non si tratta che di ritorno ciclico all’origine, al motivo principale
dell’incantamento, della sodalità funzionale degli elementi della natura,
alla visione. Mettere insieme in un unico tegame la pratica pronosticale
e la virtù profetica, l’empirico e l’ermeneutico, pare essere la
scommessa di uno studio che intenda rilevare la centralità dell’atteg-
58 Si noti come i paragoni e gli accostamenti dello Speculum, che è un’opera rivolta
al più ampio pubblico, uno dei primi esempi di volgarizzazione del dettato
scritturale, siano tracciati con termini concretamente riferibili al senso comune.
59 Esiste anche un esemplare fiorentino della prima edizione latina dello Speculum
Humanae Salvationis, rinvenuto da B. Podestà (bibliotecario nazionale di Firenze),
che ne parla a Carlo Castellani (prefetto della Marciana). Podestà ne dà
notizia in «Misc. III», 524 (19) – Rivista delle Biblioteche. Il primo a parlare di
un’edizione fiorentina dello Speculum sarebbe stato il Nordziak «il quale dové vederlo
nella Reggia de’ Pitti circa il 1844 […]» (Ivi, p. 2).
[ 19 ]
258 francesco rizzo
giamento apocalittico restituendo credito ad un possibile approccio
interdisciplinare alle questioni dell’arte figurativa di cui si è parlato.
La letteratura, poi, che nega alla storia ogni datità pretendendo di predire
o di ri-dire gli eventi mondani – pretesa dell’astrologia mondiale
e del pronostico –, introduce eccezioni interpretative, fermenti, accenti;
fa dell’annuncio un atto ripetibile secondo una traducibilità di sistema.
Da questo punto di vista è lecito sostenere che il carattere profetico
del linguaggio pronosticale viene a rappresentare la valvola di sfogo
della chiusura iconologica.
Francesco Rizzo
Università del Molise
[ 20 ]
RENATO RICCO
Lodovico Dolce volgarizzatore
del Petrarca epistolografo
Sulla scorta delle ricerche condotte da Susanna Villari circa il lavoro editoriale di
Dolce sui RVF, in questo saggio si punta l’attenzione, in più piccola scala, sulla
scelta di epistole operata dal poligrafo veneziano per il volume Epistole di G. Plinio,
di m. Franc. Petrarca, del s. Pico della Mirandola et d’altri eccellentiss. Huomini
(Venezia, Giolito, 1548). Ad un’analisi contenutistica e linguistica delle lettere
prescelte, seguirà un tentativo di inquadramento, a più ampio raggio, dell’operato
di Dolce all’interno della grande fortuna del genere epistolare nel Cinquecento.

Following on from research carried out by Susanna Villari regarding Dolce’s
editorial work on RVF, this essay looks, on a smaller scale, at Dolce’s selection
of letters for Epistole di G. Plinio, di m. Franc. Petrarca, del s. Pico della Mirandola et
d’altri eccellentiss. Huomini (Venice, Giolito, 1548). After a thematic and linguistic
analysis of the letters chosen, the essay attempts to set Dolce’s activity within
the wider context of the enormous popularity of the epistolary genre in the
Sixteenth century.
Se Petrarca costituisce un fondamentale riferimento per il Dolce
tragediografo1, solo di recente è stata adeguatamente affrontata la
complessa questione relativa al lavoro editoriale riservato da quest’ultimo
ai Rerum Vulgarium Fragmenta2: l’importanza, non solo da un
Autore: Università degli Studi di Salerno; assegnista di ricerca; renato.ricco@
yahoo.it
1 Per gli echi petrarcheschi nella Didone, sia concesso rinviare a Renato Ricco,
Sulle tracce di Didone. Fra Età Classica e Rinascimento, l’evoluzione letteraria di un mito,
Napoli, Guida, 2015, tomo II, pp. 220-228, 233 e 244-246, mentre altri importanti
prestiti sono evidenziati da Stefano Giazzon, in La “Giocasta” di Lodovico Dolce:
note su una riscrittura euripidea, «Chroniques italiennes web 20», II (2011), pp. 1-47
e Id., Petrarca in coturno: sul riuso di “Rerum Vulgarium Fragmenta” e “Triumphi”
nelle prime tragedie di Lodovico Dolce, «Italianistica», XLIII (2014), pp. 31-45.
2 Cfr. Susanna Villari, Strategie culturali di Dolce editore petrarchesco, in Per
Lodovico Dolce. Miscellanea di studi – I Passioni e competenze del letterato, a cura di
260 renato ricco
punto di vista strettamente letterario, del poeta aretino per il poligrafo
veneziano sembra poi ricevere definitiva vidimazione con il paragone
Petrarca-Raffaello (speculare a quello Dante-Michelangelo3). In questa
sede, l’intento è quello di focalizzare l’attenzione sul volgarizzamento
di alcune epistole petrarchesche raccolte da Dolce e comprese nel volume
Epistole di G. Plinio, di m. Franc. Petrarca, del s. Pico della Mirandola
et d’altri eccellentiss. Huomini. Tradotte per m. Lodovico Dolce4. L’ordine e
il numero delle lettere è per la precisione, il seguente, per un totale di
146 lettere (163 carte r/v +164r su complessive 333 pagine)5:
numero lettere autore carte
52 Plinio il giovane 1r-30v
71 Francesco Petrarca 31r-111r
10 Giovanni Pico Della Mirandola 111v-139r
13 Ermolao Barbaro 139v-152r
3 Girolamo Donato 152r-154v
3 Marsilio Ficino 155r-157r
14 Angelo Poliziano 157v-163v
Circa la cernita operata dal curatore, occorre subito osservare che,
nonostante l’incidenza minima dei testi latini umanistici nei repertori
epistolari cinquecenteschi, l’inserimento di autori quali Barbaro e Donato/
Donà suona come un tentativo di controbilanciare il peso degli
autori medicei, rivendicando il ruolo determinante che la Serenissima
aveva rivestito, e occupava ancora, nel campo della filologia, della storia
della letteratura e dello sviluppo dell’editoria.
Paolo Marini e Paolo Procaccioli, Manziana (Roma), Vecchiarelli, 2016, pp.
317-364.
3 Cfr. L. Dolce, Dialogo della pittura […], Venezia, Giolito de’ Ferrari, 1557, cc.
48r-50v. Per questo duplice accostamento cfr. Mark Roskill, Dolce’s Aretino and
Venetian Art Theory of the Cinquecento, Toronto-Buffalo-London, University of Toronto
Press, 2000, p. 13.
4 Copia consultata: Biblioteca Universitaria di Napoli (collocazione Z.A. 0137).
Il volume in ottavo, in buone condizioni eccezion fatta per qualche isolata macchia
di umidità, presenta normale marca tipografica: fenice su fiamme che si sprigionano
da anfora recante le iniziali G. G. F e sorretta da due satiri alati con il motto «De
la mia morte eterna vita io vivo / Semper eadem», seguita dalla nota tipografica
«In Venegia, Appresso Gabriel Giolito de’ Ferrari, MDXLVIII».
5 Cfr. Paolo Sachet, Gli antichi e i moderni nelle «Epistole» del 1548 curate da
Lodovico Dolce, «ACME» LXIV (2011), pp. 151-178.
[ 2 ]
lodovico dolce volgarizzatore del petrarca epistolografo 261
Sin dalle prime pagine, dopo essersi soffermato sull’utilità derivante
dall’accostare autori di epoche differenti6, emergono chiaramente
le ragioni, di natura commerciale, che regolano il lavoro editoriale
di Dolce, assertore della teoria secondo cui il magistero della
dottrina morale petrarchesca possa rivelare la propria utilità anche,
modernamente, nella professione della mercatura:
[…] non di meno tutto il tempo che dalle vostre più importanti
cure n’avanza, lo ponete con somma contentezza vostra in ornar l’animo
di quelle bellezze che non può acquistarci argento né oro. Onde
sovente dandovi alle lettioni di vari e diversi scrittori andate per li
piacevoli giardini loro cogliendo non pur fiori, ma frutti soavissimi, di
maniera che poi ornate il nome e l’ufficio di mercatante di quei fregi
nobili che niuno o pochi hanno posseduto fin qui7.
L’autore dei RVF vantava già, peraltro, una ragguardevole fortuna,
durante il XV secolo, presso l’emergente ceto mercantile8 e non è un
caso che la stessa dedica al mercante veneziano Angelo di Motti9 sia
concepita proprio in questo senso. Se il referente è certamente un pubblico
in larga parte digiuno di nozioni di lingua latina, nella pagine di
apertura del volume si ritorna sulla questione della traduzione, focalizzata
proprio a Venezia, qualche anno più tardi, da Fausto da Longiano10
e giudicata da Dolce un tassello di cruciale importanza nella
propria ottica letteraria, come già ben testimoniano le lettere introduttive
del Thyeste senecano e del Dialogo dell’oratore ciceroniano11. Muovendo
da una «alta coscienza del significato della traduzione come
6 «Onde avendo ridotte nella Lingua Volgare alcune Epistole di Plinio e del
Petrarca, ho voluto accompagnar con quelle alcune altre di questi dotti huomini, sì
per dar qualche saggio della virtù loro a coloro che non gli hanno potuto conoscer,
se non per fama, sì perché si vegga quanto gli ingegni de’ moderni s’accostano a
quelli degli antichi», L. Dolce, Epistole, cit., cc. iiv-iiir.
7 Ivi, cc. Iiiv-ivr.
8 Come egregiamente dimostrato da Simona Brambilla, I mercanti lettori di
Petrarca, «Verbum», VII (2005), pp. 185-219.
9 Qualche minima notizia in Emmanuele Antonio Cicogna, Memoria intorno
la vita e gli scritti di messer Lodovico Dolce, letterato veneziano del XVI secolo, «Memorie
del Reale veneto Istituto di Scienze, Lettere ed Arti», XI (1862), pp. 93-200: 124: «il
Motti, figliuol del fu Marc’Antonio, era mercatante, ma colto nella lettura degli
Scrittori e suo fratello Gasparo studioso delle secrete cose della natura».
10 Fausto Da Longiano, Dialogo del modo de lo tradurre d’una in altra lingua segondo
le regole mostrate da Cicerone, Venezia, Giovanni Griffio ad istanza di Ludovico
Avanzi, 1556, testo critico annotato a cura di Botho Guthmüller, «Quaderni
veneti» XII (1990), pp. 9-152.
11 Cfr. rispettivamente Lodovico Dolce, Thyeste. Tragedia […] tratta da Seneca,
[ 3 ]
262 renato ricco
esercizio nobile e reinventivo»12, nella premessa A i lettori del Dialogo
[…] de i colori, ad opera dell’editore Sessa, questa pratica verrà in seguito
elogiata, ribaltando le ragioni di coloro che la consideravano
una deplorevole diminutio e capovolgendo, non senza una punta di
arguzia retorica, la prospettiva del dibattito13. La prassi traduttiva di
Dolce si configura così quindi quale operazione di rapida rielaborazione
intesa non solo come mera prassi di transcodifica da una lingua
in un’altra, bensì, più ampiamente, come atto di rifacimento/ammodernamento,
con particolare attenzione non tanto a problematiche di
tipo filologico, bensì alle nuove strategie commerciali.
Nello specifico caso qui preso in esame, Dolce si limita a una scelta
di lettere dai primi sette libri di epistole petrarchesche: per la precisione,
una (III) su dodici del primo libro; dieci (II, V, VII-X, XII-XV) su
quindici del secondo libro; diciassette (II-V, VII-XVII, XIX, XXII) su
ventidue del terzo libro; dodici (I, 2, IV-VIII, XI, XII, XVII-XIX) su diciannove
del quarto libro; tre su diciannove (II, XI, XII, XIX) del quinto
libro; tre (I, VII, IX) su nove del sesto libro; tre (III, VI, VIII) su diciotto
del settimo libro; unica eccezione l’ultima epistola volgarizzata, tratta
dalle Senili (XVII, 3) e indirizzata a Boccaccio. Ecco lo schema completo
delle corrispondenze:
1. 31r-33r: a Raimondo Soranzo = Fam. I 3
2. 33r-34r: ad Agapito Colonna = Fam. II 10
3. 34r-35r: a m. t. m. [Paganino da Milano] = Fam. III 7
4. 35v-37r: al medesimo [?] = Fam. III 8
Venezia, Gabriele Giolito de’ Ferrari, 1543, cc. 2r-v e Il dialogo dell’oratore di Cicerone
[…] con la tavola, Venezia, Gabriele Giolito de’ Ferrari, 1547, cc. 2r-5v non numerate.
12 Elisabetta Selmi, Premessa a Stefano Giazzon, Venezia in coturno: Lodovico
Dolce tragediografo (1543-1557), Roma, Aracne, 2011, pp. 7-8.
13 «Già pochi giorni a dietro ogni sciocco pedante, con intendere superficialmente
i poeti o gl’istorici latini, si pavoneggiava fra volgari con l’addurne una
sentenza ora di questo, ora di quello autore: le più volte alla rovescia e facendo
qualche barbarismo. Ora perdono questi uomini di poco sapere in gran parte l’alterezza,
perché spesso trovano chi, mercè di queste tradozioni, intende meglio che
essi non fanno et abonda di maggior memoria et intelletto. E veggonsi alle volte
molte donnicciuole ragionar più volte sicuramente con uomini dotti di cose gravi
e contenute ne’ libri di filosofia. Non meritano, adunque, così fatti uomini, che
s’affaticano per giovare, riprensione, ma lode», Lodovico Dolce, Dialogo […] nel
quale si ragiona delle qualità, diversità, e proprietà de i colori, Venezia, Giovanni Battista
Sessa et Melchiorre Sessa, et fratelli, 1565, c. 5r. Cfr. Anne Neuschäfer, “Ma vorrei
sol dipingervi il mio core, / e haver un stile che vi fosse grato”: le commedie e le tragedie di
Lodovico Dolce in lingua volgare, «Quaderni del Centro Tedesco di Studi Veneziani»,
LVI (2001), pp. 5-7.
[ 4 ]
lodovico dolce volgarizzatore del petrarca epistolografo 263
5. 37r-38v: al medesimo [Guido Gonzaga] = Fam. III 11
6. 38v-40v: a m. Giovanni Colonna = Fam. III 13
7. 40v-41r: a m. t. m. [Paganino da Milano] = Fam. III 17
8. 41r-43v: al suo messer Dionigi = Fam. IV 2
9. 43v-48v: a Giacopo Colonna = Fam. II 9
10. 48v-50r: a m. t. m. [amico ?] = Fam. III 14
11. 50r-52r: al medesimo [Lelio] = Fam. III 19
12. 52r-53r: al medesimo [G. Colonna] = Fam. IV 4
13. 53r-53v: al medesimo [G. Colonna] = Fam. IV 5
14. 53v-55r: al medesimo [G. Colonna] = Fam. IV 6
15. 55r-57r: a Roberto Re di Sicilia = Fam. IV 7
16. 57v: a Barbato Sulmonese = Fam. IV 8
17. 58r-58v: a m. Giacomo da Messina = Fam. IV 11
18. 58v-60r: al signor Giovanni Colonna = Fam. II 8
19. 60r-63r: al signor Stephano Colonna giov. = Fam. III 3
20. 62r-v: al medesimo [S. Colonna] = Fam. III 4
21. 62v-63r: Al medesimo [?] = Fam. III 5
22. 63r-v: a m. t. m. [?] = Fam. VI 7
23. 63v-64r: a m. Philippo Cavallicese = Fam. VI 9
24. 64r-66v: al signor Giovanni Colonna = Fam. II 5
25. 67r-69r: al medesimo [G. Colonna] = Fam. II 7
26. 69v-70v: al medesimo [G. Colonna] = Fam. II 12
27. 71r-v: al medesimo [G. Colonna] = Fam. II 13
28. 71v-72r: al medesimo [G. Colonna] = Fam. II 14
29. 72r-v: al medesimo [G. Colonna] = Fam. II 15
30. 72v-73v: a m. Thomasso da Messina = Fam. III 2
31. 73v-74r: a m. t. m. [Matteo Patavino] = Fam. III 9
32. 74v-77v: Al medesimo [amico ?] = Fam. III 10
33. 78r-79v: Al suo m. Marco [M. da Genova]= Fam. III 12
34. 79v-80r: a m. t. m. [Paganino da Milano] = Fam. III 16
35. 80r-81v: al medesimo [amico ?] = Fam. III 15
36. 81v-83v: al suo Lelio = Fam. III 22
37. 83v-89v: al signor Giovanni Colonna [D. da B. S.] = Fam. IV 1
38. 89v-90r: a m. t. m. [?] = Fam. IV 17
39. 90v: Al medesimo [?] = Fam. IV 18
40. 90v-91r: Al medesimo [?] = Fam. IV 19
41. 91r-92r: Al signor Giovanni Colonna = Fam. V 2
42. 92r-v: a m. Marco Mantovano [A. da Mantova] = Fam. V 11
43. 93r-v: Al medesimo [A. da Mantova] = Fam. V 12
44. 93v-95r: a Clemente VI pontefice massimo = Fam. V 19
45. 95r-99v: Ad Annibale Thusculanese = Fam. VI 1
46. 99v-101r: Al suo Socrate = Fam. VII 3
47. 101r-102r: Al medesimo [Socrate] = Fam. VII 6
48. 102r-v: a m. Giovanni Aretino = Fam. VII 8
49. 102r-109v: Al signor Giovanni Colonna = Fam. IV 12
50. 109v-111r: a m. Giovanni Boccaccio = Sen. XVII 3
[ 5 ]
264 renato ricco
La scelta delle lettere non sembra essere regolato da un unico criterio
ordinatore, essendo piuttosto varie le tematiche trattate da Petrarca
nei testi selezionati: si va infatti dalla fugacità del tempo (I, 3)
alla difesa delle reale esistenza di Laura (II, 9), dalla meditazione sulla
vita solitaria (III, 5) alle missive relative all’incoronazione dell’aprile
1341 in Campidoglio (IV, 6, 7, 8) alla vittoria di Stefano Colonna sugli
Orsini (III, 3, 4) o alla morte di Tommaso Caloiro (IV, 11)14. Nel caso
dell’ultima epistola, invece, con uno scarto sensibile rispetto alla fortuna
umanistica di cui questa aveva goduto15, Dolce evita di riportare
la parte sostanziale del testo petrarchesco, la versione latina della novella
di Griselda, da Petrarca intitolata De insigni oboedentia et de fide
uxoria: in maniera forse discutibile viene infatti riportata infatti solo la
prima parte, introduttiva, della lettera, evitando di riproporre una
ipotetica, e sicuramente problematica, ri-traduzione di un testo latino
di un testo composto in volgare16. Tale selezione è coerente con la tradizione
delle principali edizioni a stampa delle Familiari precedenti il
1548, in cui non a caso si trovano completi solo i primi otto libri17:
nelle rubriche è riportato solo il nome o la generica designazione del
destinatario, mancando l’argomento, riportato invece sia dai principali
codici sia dalle edizioni a stampa. Se dagli errori relativi all’identità
dei destinatari, e dalle divergenze con α, è possibile identificare
nella prima stampa veneziana, la V1 del 1492 (IGI 7569), alcuni impor-
14 Per un quadro completo degli argomenti delle Familiares di Petrarca, cfr. Roberta
Antognini, Il progetto autobiografico delle “Familiares” di Petrarca, Milano,
LED, 2008, pp. 98-148.
15 Cfr. Gabriella Albanese, Fortuna umanistica della “Griselda”, «Quaderni Petrarcheschi
» IX-X (1992-1993), pp. 571-627 e relativa edizione del testo Francesco
Petrarca, “De insigni obedientia et fide uxoria”. Il Codice Riccardiano 991, a cura di
Gabriella Albanese, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1998.
16 «the translation of Boccaccio’s story from its vernacular origins to Petrarch’s
classicized Latin is […] accompanied by the transformation of the protagonist into
an unequivocal model of Stoic virtue. Petrarch’s translation, in this respect, demonstates
once again the dynamic of both appropriation and correction that characterizes
his assimilation of Boccaccio’s writings», Gur Zak, Boccaccio and Petrarch,
in The Cambridge Companion to Boccaccio, edited by Guyda Armstrong,
Rhiannon Daniels and Stephen Milner, Cambridge, Cambridge University
Press, 2015, p. 151.
17 Per l’elenco dei testimoni a stampa delle Familiari precedenti al 1548 cfr.
Francesco Petrarca, Le familiari, volume I, edizione critica a cura di Vittorio
Rossi, Firenze, Sansoni, 1933, pp. XCII-XCIV.
[ 6 ]
lodovico dolce volgarizzatore del petrarca epistolografo 265
tanti collegamenti con l’operato di Dolce18, l’edizione di riferimento
per quest’ultimo è probabilmente un’altra raccolta in folio che vede la
luce, sempre nella medesima città, nel 1503, la Librorum Francisci Petrarche
impressorum annotatio comprensiva tanto della Vita Petrarche
edita per Hieronymum squarzaficum Alexandrinum quanto delle Seniles e
di altre opere latine, per le cure di Simone de Luere e i tipi di Andrea
Asolano19.
Da un punto di vista specificamente linguistico, l’operato di Dolce
si distingue per le seguenti peculiarità: da un punto di vista più generale,
è frequente l’apocope vocalica dopo consonante laterale, vibrante
o nasale, mentre la sincope vocalica si registra tanto in caso di sillaba
intertonica quanto di vocale pretonica; più specificamente per le scelte
di ordine grafico, la |y| viene conservata per i nomi di origine greca,
il nesso |ph| viene quasi sempre trascritto in |f| mentre la |x| intervocalica
viene sempre resa con |ss|. Per quanto riguarda poi l’utilizzo
della |h|, Dolce ne fa uso non solo all’inizio ma anche nel mezzo e
alla fine delle parole sia nel rispetto dell’etimologia («Demosthene»,
«Themistocle») sia per segnalare una reale aspirazione («honeste»,
«dishoneste»20). Ma la messa in evidenza di altri dati di natura linguistica
e grafica dimostra come anche nel volgarizzamento delle lettere
petrarchesche si possa rinvenire un importante passaggio intermedio
rispetto a quanto poi codificato da Dolce nelle Osservationi nella volgar
lingua, tanto in merito a vocalismi quanto a consonantismi. In questa
sede, il dittongamento di |e| e |o| aperte toniche in sillaba libera
viene infatti osservato con più stretta rigidità, essendo peraltro assente
in quattro casi («sete», «novo», «rimovi» e «s’acqueta»21), esattamente
come il passaggio da |-ar-| a |-er-| dei nessi pretonici, ricorrente
nelle Osservationi, nelle Lettere non si verifica in qualche forma
18 Per l’elenco completo delle divergenze dei destinatari, cfr. ivi p. CLII. Un
collegamento tra l’operato di Dolce e la prima edizione dei primi otto libri delle
Familiares (nota tipografica «Impresso in urbe Venetiarum: operi per Iohannem &
Gregorium de Gregoriis fratres foelix imponitur finis, MCDXCII, Idibus septembris
») è la presenza delle iniziali «T. m.», da Dolce trasformata in «M. T. M.» con
l’aggiunta di un iniziale apposizione abbreviata per “Messere”, il curatore Sebastiano
Manilio aveva indicato i destinatari ignoti.
19 Due anni prima de Luere e Asolano avevano pubblicato una prima Annotatio
(«Impressum Venetijs: per Simonem de Luere: impensa domini Andree Torresani
de Asula, 17 Iunij. 1501»), già comprensiva di alcune opere latine, tra cui le Sine
titulo.
20 L. Dolce, Epistole, cit., rispettivamente 41v e 42v, e 50r e 55r.
21 Ivi, cc. 43r, 55r, 55v e 42r.
[ 7 ]
266 renato ricco
verbale («restarò», «consumarebbono»22); nella selezione di missive
qui prese in esame, infine, se la geminazione della |m| non viene
applicata regolarmente, per le preposizioni articolate è prevista la grafia
scempia, mentre ricorrente è l’assimilazione consonantica regressiva
(ad esempio nei casi dei lemmi, di frequente occorrenza, quali ad
esempio «avvenire», «detto», «scritto»).
Il latino petrarchesco viene considerato da Dolce quale idioma
imperfetto e non in grado di esprimere tutte le potenzialità di cui
invece il volgare, sempre dello stesso autore, è dotato23 ricordando,
in questo giudizio tranchant, quanto espresso – sempre in riferimento
al latino di Petrarca, e in modo più dettagliato, sebbene in contesto
radicalmente diverso – da Paolo Cortesi nel De hominibus doctis24.
22 Ivi, cc. 43r e 42v.
23 «Né penso che alcuno mi debba recare a biasimo perché io habbia posto le
mani nelle cose del Petrarca, padre e principe della Lingua Thoscana, sapendosi
che le sue epistole sono ripiene di dottrina e di nobilissimi precetti morali ma scritte
(colpa di quella rozza età) in così Barbara Lingua, che da pochissimi sono lette»,
L. Dolce, Lettere, cit., c. IIIr. Sull’utilizzo dell’aggettivo «Thoscana» l’autore veneziano
si soffermerà pochi anni più tardi, intitolando per l’appunto Se la volgar lingua
si dee chiamar italiana o thoscana il capitolo introduttivo al primo libro delle Osservationi
nella volgar lingua, divise in quattro libri (Venezia, Giolito de Ferrari e Fratelli,
1550, cc. 7r-9v): spiegando come sullo strato fiorentino si fossero inseriti prestiti
ed influenze provenienti da altri idiomi a carattere regionale, Dolce chiarisce
come la lingua di Firenze abbia rapidamente travalicato i confini della città per
acquistare un carattere nazionale.
24 «Huius sermo non est Latinus, et aliquanto horridior; sententiae autem multae
sunt, sed concisae, verba abiecta, res compositae diligentius quam elegantius.
Fuit in illo ingenii atque memoriae tanta magnitudo, ut primus ausus sit eloquentiae
studia in lucem revocare. Nam huius ingenii affluentia primum Italia exhilarata,
et tanquam ad studia impulsa atque incensa est. Declarant eius Rhytmi, qui
vulnus feruntur, quantum ille vir consequi potuisset ingenio, si Latini sermonis
lumen et splendor affisse; sed homini in faece omnium saeculorum nato illa scribendi
ornamenta defuereunt», Paolo Cortesi, De hominibus doctis dialogus, testo,
traduzione e commento a cura di Maria Teresa Graziosi, Roma, Bonacci, 1973,
p. 18. Una lettera di Pico della Mirandola indirizzata a questo discepolo di Pomponio
Leto è inserita da Lodovico Dolce (cc. 127v-128v) nella raccolta qui presa in
esame. Analogamente, se per i componimenti in «lingua vernacula» viene lodato,
Petrarca nelle vesti di autore latino è criticato da Lilio Giraldi, alla fine del quarto
dialogo della Historia poetarum tam Graecorum quam Latinorum: a proposito dell’Africa
scrive infatti il Ferrarese: «In eo tamen, quod temporum fuit invidia […] si
quaedam nimis oscitanter et frigide dicta mutentur, et redundans superfluensque
oratio cohibeatur, atque omnino aliqua arte limetur, in aliquo poterit poetarum
numero haberi», Lilio Gregorio Giraldi, Operum quae extant omnium […], Basilea,
per Thomam Guarinum, 1580, p. 195.
[ 8 ]
lodovico dolce volgarizzatore del petrarca epistolografo 267
Se la latente fedeltà al testo tradotto25 è un dato assodato già da tempo26,
la scelta di Dolce si orienta piuttosto a favore di un «volgare
standardizzato, leggibile da tutti, allineato alla lingua di comunicazione
quotidiana, il più possibile comune a tutta l’Italia»27. Dimostrazione
di questa opinione sempre più diffusa ne sia, tra le tante
che si possono riportare, quanto riportato da Curzio Troiano nella
dedica – indirizzata peraltro, anche questa, «al molto gentile et honorato
messe Angelo d’I Motti [sic] – di un’altra raccolta antologica
epistolare, a proposito del rapporto tra latino e «thoscana eloquenza
». Prendendo come modello Cicerone, l’editore scrive infatti:
25 Basti pensare alla soppressione delle proposizioni incidentali «nisi fallor»
all’interno della frase incipitaria di Fam. IV 7, 1-3 («Quantum tibi liberalium et
honestarum artium studia deberent, regum decus, quarum te quoque regem industria
fecisti aliquanto, nisi fallor, quam temporalis regni dyademate clariorem,
olim mundo notum erat», resa con «Già era noto al mondo quanto a voi debbono
gli studi delle arti liberali e oneste, con la industria delle quali voi ancora avete
fatto re più nobile di quello che può fare altrui la corona d’un regno mortale»,
Lettere, c. 55r), alla divergenza, sempre nella medesima epistola per Roberto d’Angiò,
tra ipotesto petrarchesco «Sensi quidem multis indiciis Augusti Cesaris quosdam
mores tibi admodum probari, atque illum in primis quod Flacco, libertino
homini et qui prius adversarum partium fuisset, tam non placatum modo sed benivolum
familiaremque se prebuit, et Maronis sui ingenio delectatus plebeiam
originem non despexit» e versione volgarizzata «Io mi sono aveduto per molti segni
da voi grandemente apprezzarsi alcuni costumi d’Augusto e principalmente
l’avere egli non solo perdonato a Orazio, benché ei fosse nell’essercito de’ suoi
nemici, ma senza aver risguardo alla sua bassa condizione tanto gli si mostrò benigno
che lo raccolse nel numero de’ suoi amici e famigliari. Similmente tanto ammirò
lo ingegno del suo Virgilio che non ebbe rispetto alla origine di contadino di
porlo tra suoi cari e favoriti» (Lettere, cc. 55v-56r), con alterazione fraseologica causata
dalla resa della subordinata latina «quod […] prebuit» prima con un infinito
in funzione di soggetto («l’avere perdonato») poi con una coordinata alla principale
«gli si mostrò», fino ad una costante amplificazione retorica mediante glosse,
perifrasi e dittologie sinonimiche e alla frequente eliminazione delle datationes originali.
26 Cfr. E. A. Cicogna, Memoria intorno la vita e gli scritti di messer Lodovico Dolce,
letterato veneziano del secolo XVI, cit., p. 94. La bibliografia in merito è corposa e
variegata: ci si limita a segnalare, specie in riferimento al concetto di riscrittura, nel
Cinquecento, Scritture di riscritture: e Furto e plagio nella letteratura del Classicismo, a
cura di R. Gigliucci, Roma, Bulzoni, 1998; con specifico riferimento si rinvia a Paolo
Trovato, Il primo Cinquecento, Bologna, Il Mulino, 1994, pp. 352-57, Luciana
Borsetto, Scrittura, riscrittura, tipografia: l’«officio del tradurre» di Lodovico Dolce dentro
e fuori la stamperia giolitina, in Il furto di Prometeo. Imitazione, scrittura nel Rinascimento,
Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1990, pp. 257-276.
27 Angela Nuovo-Christian Coppens, I Giolito e la stampa nell’Italia del XVI
secolo, Ginevra, Droz, 2005, p. 101.
[ 9 ]
268 renato ricco
Il cui essempio io parimente seguitar volendo, diverse lettere da
diversi dotti homini et d’alto grado nella nostra lingua scritte in un
volume riducendo, hora a utilità de gli studiosi lo publico, et ne fo
parte a ciascun, rendendomi certo che i discepoli della thoscana eloquenza
dalle lettioni loro et diletto, et frutto non mediocre apprender
potranno28.
Nello specifico caso della silloge approntata da Dolce, l’intento è
quello di ottenere la massima diffusione, non solo del patrimonio linguistico,
bensì anche del lascito dottrinale di Petrarca, nella stessa misura
in cui le opere di Orazio29 erano ritenute capaci di apportare «non
picciolo utile […] a coloro che non gli possono vedere nella sua natìa
favella»30: proprio in questa moderna e pragmatica idea di utilitas si
consolida la ragione di comprendere, in uno medesimo volume, autori
di epoche differenti. In un simile progetto, una figura come Petrarca,
che «nell’autoritratto costruito attraverso le lettere, cercò appunto di
proporre di se stesso un indiscusso modello»31, rivestiva un ruolo cruciale.
Se Antonio Manuzio, nella dedica a Paolo Tron del secondo libro
delle Lettere volgari si era soffermato sul dato della «commune utilità,
acciocché et quelli che non possono scrivere in latino, con l’essempio
di tanti nobili ingegni, scrivano, secondo loro occorrerà, i suoi concetti
in volgare»32, con il fine dichiarato di «insegnar a quegli che non
sanno»33, con il frequente uso di un variegato apparato meta-letterario
di valenza esplicativa («dichiarazioni», commenti», «tavole» e «postille
»), peraltro alquanto scarno nel caso qui preso in analisi, Dolce for-
28 Letere de diversi eccelentissimi signori a diversi huomini scritte. Libro primo, Venezia,
ad instantia di Curtio Navò, et fratelli, al Lione, [1542], c. [π2r].
29 L’edizione volgarizzata, in verso sciolto, della Ars poetica (Venezia, per Francesco
Bindoni et Mapheo Pasini compagni, del mese di agosto, 1535) inaugura una
lunga serie di libere traduzioni che contemplano autori quali Omero, Euripide,
Virgilio, Seneca, Plauto, Catullo, Cicerone, Giovenale, Plinio fino a Cassiodoro e
Galeno: sulla peculiarità di Dolce traduttore, utile il riferimento a Helena Sanson,
Introduction a Lodovico Dolce, Dialogo della institution delle donne, secondo li
tre stati che cadono nella vita umana, edited by Helena Sanson, Cambridge, Modern
Humanities Research Association, 2015, pp. 13-23.
30 Lodovico Dolce, I dilettevoli sermoni, altrimenti satire, e le morali epistole di
Horatio […] ridotte […] dal poema latino in versi sciolti volgari, Venezia, Gabriele Giolito,
1559, c. 4v.
31 Carlo Varotti, Gloria e ambizione politica nel Rinascimento: da Petrarca a Machiavelli,
Milano, Mondadori, 1998, p. 120.
32 Lettere volgari di diversi eccellentissimi uomini, in diverse materie, tomo secondo,
Venezia, in casa de’ figliuoli di Aldo, 1545, c. A2r.
33 L. Dolce, Osservationi nella volgar lingua, cit., c. 5r.
[ 10 ]
lodovico dolce volgarizzatore del petrarca epistolografo 269
nisce un sensibile contributo a quello che è stato definito il passaggio
dal «libro d’autore» al «libro d’editore»34. Seguendo il triplice principio
che sta alla base della codificazione linguistica cinquecentesca
(uniformazione dell’oscillazione grafica, diffusione della lingua letteraria
e toscana e assunzione di un modello fondato non più sull’oralità,
bensì sulla scrittura), risulta quindi chiaro come il lavoro di volgarizzamento
delle lettere petrarchesche, strenuamente difeso dal traduttore/
editore/curatore35, possa fungere da importante elemento
testimoniale dell’assunzione, da parte di Dolce, di alcuni tratti basilari
che giungono a matura e compiuta realizzazione, per il Petrarca aldino,
con l’operato di Bembo. Il nome di quest’ultimo era d’altronde, a
sua volta, ben presente nelle raccolte epistolari veneziane cinquecentesche,
quale garanzia di cura ed attenzione agli aspetti linguistici delle
lettere scelte, e la crescente fortuna di questo particolare genere epistolare
va di pari passo con l’analogo riscontro di pubblico incontrato
dalle sillogi poetiche, il cui primo titolo (Rime diverse di molti eccellentissimi
autori, Venezia, Giolito, 1545) compare sui mercati della Serenissima
in stretta contiguità cronologica proprio con la raccolta curata
da Dolce36. Paradigmatico esempio di «letteratura media, che non mirava
all’eccellenza, ma rifuggiva dall’umiltà»37, l’operazione di Dolce
si presenta infatti assolutamente coerente proprio con il lavoro svolto
in direzione del classicismo volgare di marca bembiana – non a caso,
proprio nel 1548 e sempre per i tipi di Giolito, appare una nuova edizione
dei RVF per le cure dell’autore delle Prose della volgar lingua38 –
34 Armando Petrucci, Storia e geografia delle culture scritte (dal secolo XI al secolo
XVIII), in Letteratura italiana: storia e storiografia, sotto la direzione di Alberto
Asor Rosa, Torino, Einaudi, 1988, II/2 (L’età moderna), p. 1266.
35 «Né possono elle [le lettere di Petrarca] per la mia traduttione perder tanto
che non risplenda in esse alcun lume del Divino ingegno e della mirabile eloquenza
di cotale huomo, in qualche parte per aventura più chiaro che non fa nel Latino»
L. Dolce, Epistole, cit., c. iiir.
36 «è il senso culturale dell’operazione editoriale ad esser simile: i libri di lettere
di diversi, infatti, presentano un omogeneo milieu letterario, vivo soprattutto
nella fitta serie di relazioni e accomunato da una elitaria padronanza della lingua,
proposta come modello per gli studiosi», Franco Tomasi, Introduzione a Rime diverse
di molti eccellentissimi autori, a cura di Franco Tomasi e Paolo Zaja, San
Mauro Torinese (Torino), Res, 2001, p. X.
37 Carlo Dionisotti, Tradizione classica e volgarizzamenti, in Geografia e storia
della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1967, p. 276.
38 Delle rime di M. Pietro Bembo. Terza et ultima impressione tratta dall’esemplare
corretto di sua mano tra le quali ce ne sono molte non più stampate, «In Vinegia, appresso
Gabriel Giolito de Ferrari», 1548. Sul rapporto Petrarca-Bembo ci si limita qui a
[ 11 ]
270 renato ricco
inserendosi quale tassello minore, quantunque significativo, all’interno
del più complesso ed articolato approccio al Petrarca lirico. Il 1548
è, d’altronde, un anno particolare per l’editoria veneziana: all’inizio
del periodo di più stretta collaborazione tra Dolce e Giolito39, Ortensio
Lando pubblica, sempre per il medesimo editore, un’altra raccolta antologica
epistolare (Lettere di molte valorose donne, nelle quali chiaramente
appare non esser ne di eloquentia ne di dottrina alli huomini inferiori) foriera
di «importanti riferimenti a circoli di dissenso»40, mentre vede la
luce (senza note tipografiche specifiche) la seconda edizione europea
in volgare dell’Utopia di Tommaso Moro, a cura di Anton Francesco
Doni. Ancora, nello stesso anno escono la sesta e la quarta edizione
rispettivamente del primo e del secondo libro delle Lettere volgari di
eccellentissimi huomini, in diverse materie per i tipi di Manuzio, nonché
ancora un’altra antologia epistolare, anch’essa dal sapore eterodosso,
le Lettere di messer Horatio Brunetto (per i torchi di Andrea Arrivabene)
dedicate alla duchessa di Ferrara Renata di Francia, a dimostrazione
dei nevralgici, complessi e sottaciuti legami vigenti tra riforma religiosa
ed affermazione del volgare41. E in questo senso, significative si potrebbero
rivelare proprio due lettere di Petrarca (VI e XLV) contro l’opulenza
della chiesa coeva, in una polemica che si articola nella prima,
indirizzata a Giovanni Colonna, contro le lamentele di quest’ultimo
per la gotta, interpretata dal mittente come malattia causata dal’eccessivo
agio, mentre nella seconda, per Annibale Ceccano, le critiche si
concentrano sull’eccessivo sfarzo che adorna gli edifici sacri e sull’avidità
e l’ipocrisia che contraddistinguono il clero. Sempre nel 1548, infine,
si conclude, con l’uscita del secondo tomo, la pubblicazione delle
Divine lettere del gran Marsilio Ficino, tradotte per m. Felice Figliucci senese
(Venezia, appresso Gabriel Giolito de Ferrari, 1546-1548), mentre
rinviare a Stefano Jossa, Bembo and the Italian Petrarchism, in The Cambridge Companion
to Petrarch, edited by Albert Russell Ascoli and Unn Falkeid, Cambridge,
Cambridge University Press, 2015, pp. 191-200.
39 Cfr. Claudia Di Filippo Bareggi, Il mestiere di scrivere: lavoro intellettuale e
mercato librario a Venezia nel Cinquecento, Roma, Bulzoni, 1988, p. 285-286. Sulla
collaborazione Giolito-Dolce, interrotta solo a causa della morte del secondo avvenuta
nel 1568, sempre utile il riferimento a Paolo Trovato, Con ogni diligenza corretto.
La stampa e le revisioni editoriali dei testi letterari italiani (1470-1570), Bologna, Il
Mulino, 1991, pp. 209-240.
40 Lodovica Braida, Libri di lettere: le raccolte epistolari del Cinquecento tra inquietudini
religiose e “buon volgare”, Bari, Laterza, 2009, p. 15.
41 Cfr. Massimo Firpo, Riforma religiosa e lingua volgare nell’Italia del ’500, «Belfagor
», LVII (2002), pp. 517-539.
[ 12 ]
lodovico dolce volgarizzatore del petrarca epistolografo 271
per i tipi di Manuzio – ad ulteriore dimostrazione della ormai innegabile
importanza assunta dal fenomeno del volgarizzamento – escono
le Epistole famigliari di Cicerone, tradotte secondo i veri sensi dell’auttore, et
con figure proprie della lingua volgare (Venezia, in casa de’ figliuoli di
Aldo) secondo la versione approntatane da Guido Loglio.
Dopo aver avuto un ruolo importante nella pubblicazione tanto
del secondo quanto della riedizione del primo volume delle Lettere di
Aretino (Venezia, per Francesco Marcolini da Forli, 1542), Dolce aveva
dato il proprio contributo sia, due anni dopo, al Nuovo libro di lettere de
i piu rari auttori della lingua volgare italiana (Venezia, per Paulo Gherardo,
1544) sia all’antologia De le lettere di M. Claudio Tolomei lib. sette
(Venezia, appresso Gabriel Giolito de Ferrari, 1547)42, giungendo così
alla pubblicazione delle Lettere di diversi eccellentiss. huomini raccolte da
diversi libri43 con una discreta esperienza in un campo, quello epistolografico,
passibile di molteplici sfumature e inquadrabile secondo svariate
prospettive, in relazione alla tematica (politica, religiosa, storica,
sociale) trattata. Dei tre sottogeneri in cui è suddivisibile il genere epistolare
cinquecentesco44, l’antologia di Dolce contenente le lettere di
Petrarca giunge al culmine della fortuna del secondo (consistente nella
raccolta di varie lettere di uomini illustri da parte di un letterato),
che parte con la pubblicazione manuziana dei due volumi di Lettere
volgari (1542 e 1545) e giunge alle Lettere di diversi autori, raccolte per
42 Cfr. Giacomo Moro, Introduzione a Nuovo libro di lettere de i piu rari auttori e
professori della lingua volgare italiana, riproduzione anastatica a cura di Giacomo
Moro, Bologna, Forni, 1987, pp. LXIX-LXX.
43 Il titolo completo è Lettere di diversi eccellentiss. huomini, raccolte da diversi libri:
tra le quali se ne leggono molte, non piu stampate. Con gli argomenti per ciascuna
delle materie, di che elle trattano, e nel fine una tavola delle cose piu notabili, a commodo
de gli studiosi, «In Vinegia, appresso Gabriele Giolito De’ Ferrari et fratelli, MDLIV»
(in realtà 1555); il volume verrà ristampato quattro anni più tardi. Per l’attività
editoriale di Dolce in merito al genere epistolare, cfr. L. Braida, Libri di lettere: le
raccolte epistolari del Cinquecento tra inquietudini religiose e “buon volgare”, cit., pp.
128-43.
44 Intendendo come primo quello formato da raccolte di missive composte da
un autore conosciuto, come secondo una silloge, approntata da un letterato di fama,
in cui convergono lettere scritte da diversi uomini, il cui nome è conosciuto,
afferenti a contesti differenti ed infine la il volume di missive di taglio segretariale,
di norma redatto da chi è direttamente in servizio presso qualche corte. Cfr. Amedeo
Quondam, Dal ‘formulario’ al ‘formulario’: cento anni di ‘libri di lettere’, in “Le
carte messaggiere”: retorica e modelli di comunicazione epistolare per un indice dei libri di
lettere del Cinquecento, a cura di Amedeo Quondam, Roma, Bulzoni, 1981, pp. 13-
156, in particolare pp. 41-45 e L. Braida, Libri di lettere: le raccolte epistolari del Cinquecento
tra inquietudini religiose e “buon volgare”, cit., pp. 24-25.
[ 13 ]
272 renato ricco
Venturin Ruffinelli – libro primo (Mantova, per Gioanfrancesco Arrivabene,
1547, che è anche l’anno in cui vedono la luce, a Firenze, le Prose
antiche di Dante, Petrarcha, et Boccaccio, et di molti altri nobili et virtuosi
ingegni di Anton Francesco Doni, a carattere prevalentemente epistolare).
La scelta di lettere operata da Dolce riguarda infatti direttamente
la tipologia antologica dei «molti eccellentissimi», significativamente
estesa anche all’ambito epistolare proprio da Giolito. Se questa è, a
sua volta, affatto confacente con la nuova idea di libro, concepito ora
quale «luogo attivo e in qualche misura prodotto dal lettore»45, cruciale
è il ruolo rivestito da Petrarca all’interno di un più ampio ripensamento
del canone lirico, nel XVI secolo: proprio in virtù di questo duplice
dato, una silloge di lettere volgarizzate di Petrarca, benché accostate
a missive di altri autori e differenti epoche, acquista una importanza
significativa. Nel Cinquecento, questa specifica prassi di traduzione
si sposa infatti con la rinnovata estetica della ricezione – di cui
principale artefice fu appunto il connubio Dolce/Giolito – in cui l’istanza
più squisitamente espressiva si subordina al più realistico elemento
comunicativo. Se, a livello più generale, il genere epistolare
può ritenersi uno dei più frequentati nell’Italia letteraria del XVI secolo,
come notato anche da Montaigne46, nel Cinquecento cambiano radicalmente,
rispetto ai criteri umanistici47, la funzione ed il ruolo editoriali
della lettera: la rottura netta con gli schemi retorici medievali,
validi fino al De conscribendis epistolis erasmiano48, sancisce infatti una
inedita e rivoluzionaria visione commerciale dell’“oggetto” lettera. Se
Annibal Caro prega il corrispondente Bernardo Spina di distruggere
45 Amedeo Quondam, “Mercanzia d’onore” / “mercanzia d’utile”. Produzione libraria
e lavoro intellettuale a Venezia nel Cinquecento, in Libri, editori e pubblico nell’Europa
moderna. Guida storica e critica, a cura di Armando Petrucci, Bari, Laterza,
1977, p. 83. Cfr. anche Armando Petrucci, Alle origini del libro moderno. Libri da
banco, libri da bisaccia, libretti a mano, «Italia medioevale e umanistica», XII, 1969,
pp. 295-313.
46 «ce sont grands imprimeurs de lettres que les Italiens. J’en ay, ce crois-je,
cent divers volumes: celles de Annibale Caro me semblent les meilleures», nota
Montaigne nel 1588: Montaigne, Les essays, édition conforme au texte de l’exemplaire
de Bordeaux par Pierre Villey, sous la direction et avec une préface de
Verdun Louis Saulnier, Parigi, Quadrige-PUF, 1965, p. 253 b.
47 Cfr. Claudio Griggio, Dalla lettera all’epistolario. Aspetti retorico-formali dell’epistolografia
umanistica, in Alla lettera. Teorie e pratiche epistolari dai Greci al Novecento,
a cura di Adriana Chemello, Milano, Guerini e Associati, 1998, pp. 83-108.
48 Cfr. Marc Fumaroli, La genèse de l’épistolographie classique: rhétorique humaniste
de la lettre, de Pétrarque à Juste Lipse, «Revue d’histoire littéraire de la France»,
LXXVIII (1978), pp. 886-905.
[ 14 ]
lodovico dolce volgarizzatore del petrarca epistolografo 273
le missive inviategli per scongiurarne il rischio di pubblicazione («di
grazia, signor Bernardo, qua do vi scrivo, da qui innanzi, stracciate le
lettere, che io non ho tempo di scrivere quasi a persona, non che a fare
ogni lettera col compasso in mano. E questi furbi librari stampano
ogni scempiezza»)49, lo stesso Dolce appare animato, nella missiva del
3 dicembre 1544 indirizzata al conte Fortunato Martinengo, da medesimi
timori («Io conosco né lettere né cosa alcuna di mio esser degna
di stampa, et se fin qui alcuna n’è uscita fuori, tutto che nescit vox missa
reverti, pure mi affaticherò d’ammendar di qui inanzi questo errore,
col non lasciare uscire più»)50, a testimonianza di un mercato in crescita
sempre più vorace. Spia di questo ritmo vorticoso, e della fretta ad
esso relativa che caratterizza l’antologia di Dolce, è però il progressivo
scadimento tipografico della pubblicazione a partire dalle lettere di
Pico51 che potrebbe essere, in ultima istanza, anche una delle ragioni
del modesto successo editoriale di questa antologia, non a caso mai
più ristampata.
Renato Ricco
Università di Salerno
49 Annibal Caro, Lettere familiari, edizione critica con introduzione e note di
Aulo Greco, Firenze, Le Monnier, 1957 (Volume I, 1 dicembre 1531-giugno 1536),
pp. 342-343. La lettera da cui è tratta la citazione, scritta da Piacenza, reca data 10
settembre 1545.
50 Delle lettere di diversi autori, raccolte per Venturin Ruffinelli, libro primo, con una
oratione agli amanti per m. Gioanfrancesco Arrivabene, Mantova, [Giacomo Ruffinelli],
c. XVv.
51 Cfr. Paolo Sachet, Antichi e moderni nelle “Epistole” curate da Lodovico Dolce,
«Acme», LXIV/2011, p. 153, in particolare nota 7.
[ 15 ]

UGO M. OLIVIERI
“L’odore del tabacco”
Intertestualità e modelli letterari nella Storia filosofica
dei secoli futuri di Ippolito Nievo
Ippolito Nievo occupa, oggi, un posto di rilievo nel canone narrativo di metà
Ottocento. A contribuire a tale revisione di modelli interpretativi consolidati è
anche una critica ermeneutica che studia le influenze inter-testuali presenti nei
suoi testi, anche in quelli più laterali come La Storia filosofica dei secoli futuri che
apre inedite prospettive su una visione nieviana della storia ben diversa dall’ottimismo
storico delle Confessioni.

Today, Ippolito Nievo is perceived to be a major writer within the mid-Nineteenth-
century literary canon. A contributing factor to this revision of consolidated
interpretative models stems from a hermeneutic critical approach that
studies intertextual influences within his texts, including minor works such as
La Storia filosofica dei secoli futuri that sets out a vision of history quite unlike the
historical optimism to be found in Confessioni.
Per me io credo che avrò tempo a morire nel
mio buon letto elastico; e morto me, che il
mondo pericoli ancora, si addrizzi o tracolli,
non me ne importa gran fatto. Solamente prego
i miei eredi che vogliano avere la compiacenza
di incomodarsi per amor mio, e far sì
che sul mio sepolcro sia seminato del tabacco
di Spagna essendo io amantissimo di quell’odore.
Così sia.
I. Nievo, Storia filosofica dei secoli futuri
I. La posizione dell’opera di Ippolito Nievo nel canone letterario
dell’Ottocento sta lentamente ma radicalmente cambiando. Da autore
tutto sommato “minore”, epigono del romanzo storico e quindi intestatario
del solo capolavoro de Le Confessioni d’un Italiano, Nievo sta
Autore: Università di Napoli Federico II; prof. associato; ugo.olivieri @unina.it
276 ugo m. olivieri
sempre più assumendo una sua precisa fisionomia nella letteratura
pre-unitaria.
Di conseguenza la conoscenza della sua produzione si allarga anche
agli altri, e tanti, suoi scritti e si approfondisce il repertorio delle
fonti e dei testi che concorrono alla sua formazione intellettuale. Molteplici
sono le cause di tale revisione, non ultima il rinnovato studio
delle dinamiche storico-politiche del processo d’unificazione della nazione,
cui ha dato un qualche impulso il 150° anniversario dell’Unità
d’Italia. L’impressione a distanza di qualche tempo da quelle celebrazioni
è che, almeno in alcuni ambiti, si sia fondato, finalmente, “l’Ottocento”
come concreta presenza di testi e come spazio di studio reale
e non come semplice intermittenza tra il Novecento teoricamente attrezzato
e ricco di suggestioni e i secoli precedenti il XIX, secoli del
primato italiano nella cultura europea1.
Questo processo è anche una revisione di immagini e di quadri
culturali che hanno presieduto alla formazione della nazione poiché
molti di tali insiemi culturali derivano direttamente dagli anni postunitari
e non sono mai stati oggetto di un ripensamento. Non a caso
un recente saggio di Salvatore Lupo2 allinea già nel sottotitolo, Mezzogiorno,
rivoluzione, guerra civile, i termini storiografici entro cui va saggiata
la storia unitaria italiana che oggi dovremmo essere in grado di
conoscere e decostruire e che, invece, il Regno d’Italia affrontò nel
ventennio subito dopo l’Unità, costruendo, secondo Lupo, un’immagine
del processo unitario agiografica e trasformista, ben lontana dai
problemi reali.
La recente storiografia, d’altronde, sta fornendo alla critica letteraria
spunti metodologici e prospettive interpretative quando riesce a
mostrare all’opera quel processo narrativo canonizzante per cui degli
eventi divengono simbolicamente significativi per la storia e da semplici
accadimenti passano al ruolo di tappe storiche. Basta aprire un
lucido saggio di Marco Meriggi sull’Italia pre-unitaria3 per capire come
nella periodizzazione concettuale del processo unitario conti lo
spartiacque del 1848, importante passaggio dal costituzionalismo
1 Si veda per un bilancio degli ultimi dieci anni di produzione critica sul secondo
Ottocento la mia Rassegna di studi sul secondo Ottocento, «Rassegna della letteratura
italiana», luglio 2016. e più specificamente per gli studi su Nievo, Ugo M.
Olivieri, Un disagio isolato, «L’indice dei libri», 11 luglio 2013.
2 Salvatore Lupo, L’unificazione italiana, Donzelli, Roma, 2011.
3 Marco Meriggi, Gli stati italiani prima dell’Unità. Una storia istituzionale, Bologna,
Il Mulino 2011.
[ 2 ]
“l’odore del tabacco” 277
dall’alto, ancora settecentesco, alla modernità problematica di una soluzione
unitaria gestita dal sovrano piemontese ma voluta e realizzata
dal basso.
Non va dimenticato che in Europa, come in Italia, il 1848 è una
data cruciale in cui appaiono questioni che hanno diversa valenza e
origine ma che, poi, tutte, sembrano confluire attorno alla reazione
all’affacciarsi delle classi subalterne nel quadro politico dello stato liberale
e, per l’Italia, alla loro presenza nel processo unitario.
Certo furono pochi gli intellettuali che riuscirono a sottrarsi alla
retorica della nazione e della memoria del primato italiano come falsificazione
delle reali fratture sociali ed economiche su cui viveva l’Italia
negli anni Ottanta dell’Ottocento ma su cui era nata, o si avviava a
nascere, negli anni Cinquanta, come aveva intuito uno scrittore come
Ippolito Nievo assai consapevole, nonostante la giovane età, dei limiti
di un certo modello di unificazione. Concreti elementi di riflessione e
di comprensione della posizione politica e soprattutto sociale nieviana
possono scaturire dalla lettura del suo secondo romanzo, Il Conte
Pecorajo, reso ora fruibile in un’edizione critica approntata in maniera
accurata da Simone Casini4. La densa introduzione del curatore gioca
su due piani distinti eppure intersecati. Il primo piano è quello della
visione nieviana del problema dei contadini in connessione con l’ambiente
mantovano e friulano con cui lo scrittore interagisce. L’altro introduce,
invece, una disamina della lingua dell’autore in funzione di
una nuova collocazione dell’opera nel canone europeo del romanzo
rusticale. Il piano di una stretta relazione tra la letteratura e le condizioni
di apparizione della letteratura stessa può essere oggi una delle
chiavi innovative della critica nieviana che riprende metodi e risultati
della ricerca storiografica. Non a caso mi sembra produttivo per giudicare
un oggetto letterario, apparentemente fallito sul piano estetico
“puro”, come il Conte Pecorajo, spostarsi su un piano formale, quello
della lingua usata che conserva un sottile legame con le condizioni
storiche in cui il testo è stato elaborato. La scelta di Casini di pubblicare
non solo la versione a stampa del romanzo ma anche i materiali
4 Non a caso il curatore pubblica sia l’edizione a stampa del 1857 (Ippolito
Nievo, Il Conte Pecorajo. Storia del nostro secolo, testo critico secondo l’edizione a
stampa del 1857, a c. di Simone Casini, Venezia, Marsilio 2010) che la trascrizione
della stesura manoscritta del 1855-56 (I. Nievo, Il Conte Pecorajo. Storia del nostro
secolo, testo critico secondo i manoscritti del 1855-56, a c. di Simone Casini, Venezia,
Marsilio 2011), assai differente dalla stampa, entrambe per l’Edizione Nazionale
delle Opere in corso presso l’editore Marsilio.
[ 3 ]
278 ugo m. olivieri
preparatori e in particolare la versione manoscritta, presente tra le carte
conservate nella Biblioteca Comunale “Vincenzo Joppi” di Udine,
sicuramente apre a nuove prospettive interpretative nel momento in
cui mostra come il manoscritto va nella direzione di un parlare semplice,
di una lingua più neutra e meno dialettale, invece il testo a stampa
reimmette succhi dialettali e usi linguistici micro-regionali, accentuando
però la patina letteraria toscaneggiante. Il risultato è testimonianza
di quel “disagio oggettivo e generale” di una generazione che
“non può e non vuole accettare la soluzione accentratrice e anti-letteraria
di Manzoni” come scrive un critico al contempo specialista e con
un gusto europeo come Pier Vincenzo Mengaldo. È patente già nel titolo,
Colori linguistici nelle Confessioni di Nievo, di uno dei saggi più
penetranti raccolti nel volume Studi su Ippolito Nievo. Lingua e
narrazione,5, l’apporto di Mengaldo a fare di Nievo un autore sperimentale
che sembra usare, talora consapevolmente, talora in maniera
irriflessa, lo strumento linguistico per risolvere problemi della struttura
del romanzo e della forma della rappresentazione. L’uso di voci e
costrutti dialettali di più provenienze – friulane, mantovane, venete (è
la voce di maggior consistenza) accanto a un libero e massiccio ricorso
al toscanismo letterario – connota la lingua del romanzo come una
lingua mista, tendente al colloquiale con un modello preciso: la ventisettana
manzoniana. È l’uso di questi referti linguistici in termini di
teoria letteraria che costituisce l’elemento di più forte novità critica.
Prudentemente cauta è l’ipotesi di Mengaldo su di una volontà,
teorizzata ma non sempre riuscita, di fare del personaggio-narratore il
titolare di una voce del tutto autonoma dall’autore; meno rattenuta,
poiché spostata dalla storia della lingua sul piano letterario e interpretativo,
è l’ipotesi di Sara Garau quando in un capitolo del suo “A cavalcioni
di questi due secoli”. Cultura riflessa nelle Confessioni d’un Italiano
e in altri scritti di Ippolito Nievo6 promuove una “campionatura” dei
testi e degli autori presenti nelle Confessioni per cercare di capire in
quanti casi si tratta di una cultura irriflessa dell’autore e in quanti di
letteratura settecentesca convocata per rendere più autonoma e “reali-
5 Padova, Esedra, 2011. Nuove prospettive sulla connessione tra forma e ideologia
e sulle fonti ideologiche presenti nell’autore sono nel recente corposo profilo
di Giovanni Maffei, Nievo, Roma, Salerno, 2012. La riedizione in un unico volume
dei saggi sparsi di Sergio Romagnoli (Di Nievo in Nievo, Milano, Edizioni di Storia
e letteratura, 2014) consente di misurare la portata innovativa delle sue intuizioni
critiche.
6 R oma, Edizioni di Storia e letteratura, 2010.
[ 4 ]
“l’odore del tabacco” 279
stica” la figura del narratore settecentesco. Tema che sottende un’indagine
sinora in ombra, ma necessaria, anche sui legami e sui debiti
settecenteschi di Nievo. Un discorso, sinora poco esplorato, che va
tenuto presente già quando si analizza la prima opera nieviana, L’Antifrodisiaco
per l’amor platonico, lasciata inedita dall’autore e ritrovata
nel 19567. Alcuni anni fa Sergio Romagnoli, compianto decano dei moderni
studi nieviani, e poi un altro maestro dell’italianistica, Giancarlo
Mazzacurati, avevano individuato qui il primo manifestarsi di un’influenza
di Sterne. Una suggestione ripresa nella monografia di Roberta
Colombi, che intitolata Ottocento stravagante8 dedica un denso capitolo
a “Ippolito Nievo narratore e giornalista umorista”. L’impressione
è di una messa in evidenza di scritture diverse – Il Barone di Nicastro,
gli scritti giornalistici, alcune parti delle Confessioni – che sotto
l’ottica comune dell’influenza sterniana acquistano un rinnovato significato
tematico e strutturale.
II. Certo non è sempre facile ritrovare le ascendenza culturali e gli
intertesti che sottostanno alle opere di Ippolito Nievo. Una circostanza
che depone nel senso della complessità dei referenti testuali dell’autore
e della sua sempre più evidente ascrizione nel novero degli scrittori
“canonici” dell’Ottocento. Di quegli scrittori, cioè, capaci d’elaborare
creativamente materiali della più diversa provenienza attraverso una
personale cifra di scrittura.
La difficoltà, nel caso di Nievo, è ulteriormente complicata dalla
sua peculiare biografia che lo vede sempre diviso tra più luoghi e più
dimore del Lombardo Veneto, circostanza che rende difficile poter
sperare di ritrovare una sua biblioteca personale, mappa di testi posseduti
e letti e quindi prima ricognizione della sua formazione culturale,
come è potuto avvenire con Manzoni e Leopardi. Il patrimonio
librario familiare stesso è andato disperso per molti e svariati motivi
non ultimi i due conflitti mondiali e il terremoto nel Friuli9.
Se un primo bilancio delle sue letture giovanili è ricavabile dal vo-
7 Da allora ha avuto alcune edizioni, tra cui le ultime in ordine di tempo sono
state curate da Armando Balduino (Venezia, Marsilio, 2011) per l’Edizione Nazionale
delle Opere e da Valeria Giannetti, in I. Nievo, Opere, tomo II, a c. di Ugo
M. Olivieri, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana – Riccardo Ricciardi Editore,
2016, che aggiunge nelle note al testo nuove possibili fonti per l’opera.
8 R oma, Aracne, 2011.
9 U na ricostruzione attraverso la biblioteca di famiglia delle possibili letture di
Ippolito è in Fausta Samaritani-Patrizia Zambon, Nota nieviana: la biblioteca di
casa Nievo, «Archivi del Nuovo. Notizie di casa Moretti», 10-11, 2002, pp. 55-68.
[ 5 ]
280 ugo m. olivieri
lume di Cesare Bozzetti, La formazione del Nievo,10 che ne traccia un
inventario mediante le poesie e l’epistolario, più frammentaria o, meglio,
ancora da sondare fino in fondo è la formazione intellettuale successiva
alle prime prove dei Versi 1854 e 1855.
Una difficoltà particolarmente sentita per alcune opere “minori”
ove Nievo sembra adoperare toni e adombrare contenuti assai distanti
dall’agiografica visione di scrittore risorgimentale che a lungo ha
esaurito la sua fortuna critica. Il tono della satira, l’uso del linguaggio
anche violentemente dissacratorio verso sentimentalismi e mitologie
romantiche e soprattutto verso l’equazione tra progresso materiale e
realizzazione della nazione fanno di questi scritti – dal Barone di Nicastro
alla Storia filosofica dei secoli futuri – un vero e proprio controcanto
alla storia come mito laico nelle Confessioni.
Di fatto una lettura molto aggettata sugli aspetti romantici e risorgimentali
delle Confessioni ha sinora messo in sordina altri apporti e
altre influenze che pure s’intravedono nel romanzo. Qui le due edizioni
princeps delle Confessioni, quella di Romagnoli del 1990 e quella di
Casini del 1999, grazie all’apparato di note e nell’indice dei nomi citati,
apportano dei notevoli contributi al problema11. Viene così a galla
innanzitutto una conoscenza non superficiale delle campagne napoleoniche
in Italia e una serie di segnali di frequentazione della letteratura
europea e di autori settecenteschi12 sinora poco considerati come
presenti nel suo repertorio inter-testuale.
Tra i libri usati per l’intertesto storico v’è sicuramente la Storia d’Italia
di Botta, molte storie della Repubblica Veneta e il Saggio storico
sulla Rivoluzione di Napoli di Cuoco, un testo letto non solo per documentarsi
sugli eventi della rivoluzione napoletana attraversata da
Carlino Altoviti bensì anche per trarne una lezione sulle grandezze e
10 Padova, Liviana, 1959.
11 Cfr. I. Nievo, Confessioni d’un Italiano, a cura di Sergio Romagnoli, pres. di
Stanislao Nievo, illustrazioni di G. Zigaina, Venezia, Marsilio, 1990, e l’edizione
di S. Casini del 1999, I. Nievo, Confessioni d’un Italiano, Milano-Parma, Fondazione
Bembo-Guanda, 1999.
12 Come ho cercato di mostrare, pur nella sinteticità delle note consentite da
un’edizione economica, nel commento all’edizione delle Confessioni per l’Universale
Economica Feltrinelli, Milano, 2017. Oltre alle menzioni esplicite di V. Cuoco,
di L. Sterne e di G. Parini, paiono evidenti citazioni criptiche da Stendhal, da Foscolo
e Giusti. Una curiosa testimonianza della conoscenza “familiare” approfondita
delle imprese napoleoniche in Italia è un quaderno del fratello Alessandro
fitto di appunti sulle campagne napoleoniche edito da chi scrive: I Nievo e la storia,
Una passione di famiglia, Udine, Gaspari, 2013.
[ 6 ]
“l’odore del tabacco” 281
sulle contraddizioni della Repubblica giacobina partenopea. Proprio
nel capitolo VI, in pagine concitate del racconto di Cuoco sulle cause
che portarono alla caduta della monarchia borbonica, Nievo poté trovare
la menzione del romanzo utopico settecentesco di Louis Sebastien
Mercier, L’an 2240 (1771)13, che dovette esercitare un’influenza
sull’ideazione della Storia filosofica dei secoli futuri.
Tra gli ultimi testi della sua produzione, la Storia filosofica va innanzitutto
ben situata nella biografia nieviana per capire da un lato la
connessione, sempre in lui presente, tra le emergenze del presente e le
trasfigurazioni cui giunge con la scrittura e per, poi, comprendere fino
in fondo la sua capacità di praticare quasi contemporaneamente vari
generi attraverso i quali “mettere in forma”, diversamente, le sollecitazioni
che gli vengono dalla realtà storica.
Fedeli a tale impostazione occorre fare una breve digressione sulla
situazione biografica dell’autore nel 1859, anno in cui egli scrive il
pamphlet politico Rivoluzione politica e rivoluzione nazionale, una serie
di articoli giornalistici satirici sulle colonne de “L’Uomo di Pietra e il
romanzo incompiuto Il pescatore d’anime14.
Nel 1859, con lo scoppio della seconda guerra d’indipendenza,
Nievo vede concretizzarsi il progetto dell’unificazione, almeno dell’Italia
settentrionale, e si arruola nei Cacciatori delle Alpi, una formazione
militare irregolare guidata da Garibaldi, e, grazie alle vittorie
riportate nella campagna dal Generale, gli sembra possibile ipotizzare
la liberazione del Veneto assieme a quella della Lombardia.
Queste speranze hanno un brusco ridimensionamento con l’armistizio
di Villafranca che pone fine alla guerra contro la tracollante presenza
austriaca in Italia per le scelte di Napoleone III di mantenere i
rapporti politici con i moderati in patria e di casa Savoia che antepone
le scelte dinastiche all’unificazione nazionale, mettendo fuori gioco
l’iniziativa dei democratici.
Lo stato d’animo di Nievo, dopo la smobilitazione dell’esercito di
cui ha fatto parte, è di cupa disperazione, sfogata in lunghe passeggia-
13 Per prima ha segnalato questa fonte nieviana in un’interessante articolo Emma
Giammattei, Afgani, omuncoli e fine della storia. A proposito di un testo poco noto
di Ippolito Nievo, «L’Acropoli», a. II, n. 6, dicembre 2001, pp. 638-641 che apre un
discorso che andrà approfondito di confronto con la prosa civile di Cuoco.
14 L’edizione più attendibile del frammento su Rivoluzione politica e rivoluzione
nazionale è quella procurata da Marcella Gorra che lo edita in un’edizione rivista
sul manoscritto assieme a Venezia e la libertà d’Italia (cfr. Due scritti politici, Padova,
Liviana, 1988). Le altre opere si possono ora leggere raccolte in I. Nievo, Opere,
tomo II, cit.
[ 7 ]
282 ugo m. olivieri
te nel ritiro campestre di Fossalta, dove i genitori avevano dei possedimenti,
poi, a Milano, nella ripresa della propria collaborazione alle
testate dell’opposizione, ove pratica la letteratura come succedaneo
della prassi ormai impossibile.
Quest’ennesimo arretramento delle posizioni democratiche ha mostrato
a Nievo quali debbano essere i termini di un’azione intellettuale
per poter sperare di condizionare il processo unitario che sta prendendo
una piega diversa da quella, auspicata in letteratura e praticata
nelle formazioni garibaldine. Bisogna, da un lato, agire sull’opinione
pubblica, sulla nascente borghesia italiana, per convincerla ad attuare
con decisione il disegno unitario al di là del gradualismo della monarchia
sabauda e non solo per motivi economici ma per ritrovare nel
reale la nazione ideale su cui erano costruite le speranze dei giovani
patrioti. Ecco allora la stesura in forma anonima del libello politico
Venezia e la libertà d’Italia o la pubblicazione di una serie di articoli
giornalistici graffianti sulla questione romana, ove la satira, la costruzione
narrativa da apologo violentemente anti-curiale, è messa al servizio
dell’attualità nella denuncia del compromesso tra il papato e
Napoleone III, che desidera conservare il consenso dei cattolici francesi.
Più complessa appare la costruzione, attraverso una politica di alleanze
sociali, di uno stato unitario con una larga base di consenso.
Quella che nell’opuscolo incompiuto e inedito viene denominata “rivoluzione
nazionale” è individuata come il compito più difficile e urgente
per la borghesia italiana: ha i tempi lunghi dell’educazione delle
masse e l’incertezza di quanto la classe proprietaria voglia cedere dei
suoi privilegi.
Nemmeno la proposta nieviana è esente da un idoleggiamento della
campagna come luogo primigenio e salubre rispetto alla corruzione
cittadina che innerva tutta la produzione narrativa italiana almeno
sino a Tozzi15, eppure nella concretezza della sua proposta politica v’è
la percezione e la consapevolezza dei limiti che la borghesia italiana
può concedere a un processo riformatore nelle campagne. Tratteggiare,
lui laico, una figura di prete come Don Lorenzo, il protagonista
dell’incompiuto romanzo Il pescatore d’anime, capace di anteporre i bisogni
dei propri parrocchiani contadini all’ossequio alla gerarchia e
ancor più, nel pamphlet Rivoluzione politica e rivoluzione nazionale, delineare
un ruolo per il basso clero secolare di mediatore dell’ideologia
15 Cfr. l’interpretazione di tale tema nella bella introduzione di Giancarlo
Mazzacurati, Stagioni dell’apocalisse (appunti di percorso), a Id., Stagioni dell’apocalisse.
Verga, Pirandello e Svevo, Torino, Einaudi, 1998, pp. 3-16.
[ 8 ]
“l’odore del tabacco” 283
liberale rispetto alla posizione filo-austriaca dell’alta gerarchia, significa
auspicare un contenimento della “lebbra oltremontana”16 del nascente
socialismo non in funzione conservatrice quanto in direzione
della creazione di un blocco sociale cui la borghesia deve fornire l’ideologia
e la direzione.
Strano e tardo esperimento narrativo comparso sulla «Strenna
dell’uomo di pietra pel anno 1860»17, incerto nel suo statuto di genere,
dal punto di vista della struttura, tra la novella lunga e il romanzo filosofico
breve, la Storia Filosofica dei secoli futuri sembra funzionare secondo
mutati termini formali e ideologici poiché il genere di riferimento
non è più quello d’ambiente rusticale, sia pur calato nella contemporaneità,
né l’utopia positiva d’una prospettiva politica che sembra
a portata di mano, quanto quello dell’ucronia e di una prospettiva
che si dilunga ben oltre la storia ottocentesca delle nazioni per tracciare
futuri scenari apocalittici. La Storia filosofica ha, infatti, come trama
un veggente sguardo sul futuro dell’umanità tra il 1859 e il 2222 attraverso
le memorie storiche di un uomo del futuro, carpite attraverso un
singolare procedimento narrativo.
III. I modelli della Storia Filosofica sono, quindi, laterali rispetto alla
cultura risorgimentale italiana, il testo che sembra aver ispirato l’operetta
nieviana, come abbiamo prima ipotizzato, è l’utopia di Louis Sebastien
Mercier, L’An 2440. Rêve s’il en fut jamais del 1771, testo tipicamente
illuminista, conosciuto in Italia attraverso le traduzioni settecentesche
sin dai primi dell’Ottocento. L’opera di Mercier si svolge nel
2440, in un futuro che vede la piena affermazione di una società ispirata
ai principi di Rousseau e dell’illuminismo filosofico e si presenta
come il testo fondativo del genere utopico illuminista18. L’autore, o
16 L’espressione è di Nievo e ricorre in molte opere a cominciare da alcune
novelle campagnole come La Nostra famiglia di campagna a dimostrazione della
“consapevolezza di classe” dell’autore, sostenuta da una vigile posizione democratica.
17 Dopo la prima ristampa in I. Nievo, Novelliere campagnuolo, a cura di Igino
De Luca, Torino, Einaudi, 1956, l’opera ha avuto qualche altra ristampa moderna
non sempre corretta, per arrivare a due edizioni moderne: I. Nievo, Storia filosofica
dei secoli futuri (e altri scritti umoristici del 1860), a cura di Emilio Russo, Roma, Salerno
editrice, 2003 e Silvia Contarini, Storia filosofica dei secoli futuri e Nota al testo
in I. Nievo, Opere, tomo II, cit., ai cui apparati di note molto debbono queste mie
notazioni.
18 Sul romanzo di Mercier si veda Bronislaw Baczko, L’utopia. Immaginazione
sociale e rappresentazioni utopiche nell’età dell’illuminismo, Torino, Einaudi, 1979.
[ 9 ]
284 ugo m. olivieri
meglio il personaggio principale che ne è il portavoce, in un sogno a
metà tra la profezia e la veggenza, vi si risveglia esaminando, capitolo
per capitolo, la trasformazione della vita quotidiana e della vita delle
istituzioni secondo il nuovo credo umanitario. Il punto di contatto più
evidente in cui Mercier sembra agire come intertesto del romanzo breve
di Nievo è il capitolo XVIII, in cui, dopo che in un grande rogo
vengono eliminati i testi inutili per eccesso d’erudizione o di servilismo,
solo pochi libri vengono conservati per fornire agli uomini delle
nozioni giuste o utili per la vita. Il Novecento conoscerà la triste realtà
autoritaria che si nasconde dietro ogni autodafé di libri, nel Settecento
ciò può ancora apparire la manifestazione di una fiducia nella razionalità
dell’uomo capace di sceverare tra nozioni utili e inutili. Nell’Ottocento,
nella Storia filosofica, l’ironia è intervenuta a temperare l’eccesso
d’utopia di Mercier quando, trascrivendo le memorie del futuro, il
narratore auspica che almeno questo libro si salvi dal furore iconoclasta
degli utopisti. E in realtà basta aver letto la Storia filosofica per percepire
che il testo di Mercier è più lo spunto per l’orchestrazione del
plot narrativo che una tessera del mosaico inter-testuale e inter-dialogico
che vi è dietro la scrittura nieviana o meglio, come già per il Barone
di Nicastro, è la valenza utopica stessa a essere rovesciata. Sotto la
penna di Nievo l’utopia di un futuro illuminato dal progresso e dal
cosmopolitismo settecentesco assume ben presto il senso di un ingenuo
mito, destinato alla stilizzazione parodica della scrittura e all’ironia
divertita dell’autore implicito.
Un rapido sguardo alla trama serve a sincerarsene. La struttura
della Storia filosofica è già, dal punto di vista enunciativo, più complessa
del testo di partenza. Vi compare una prima persona narrativa, Ferdinando
de’ Nicolosi, filosofo-chimico, – quasi un altro degli pseudonimi
da associare a quelli con cui sono siglati gli scritti giornalistici,
un’altra maschera d’autore da affiancare a Carlino Altoviti, stavolta
complicata da un singolare e fantasioso esperimento chimico che gli
consentirà di catturare il libro futuro scritto nel 2222 da Vincenzo Bernardi
di Gorgonzola, narratore di secondo grado dell’opera. Il narratore
di primo grado inventa, infatti, un bizzarro procedimento per
catturare i pensieri di un uomo del XXI secolo, preparando un composto
di inchiostro, fosforo e plutonio che, versato su un foglio “mesmerizzato”,
sottoposto, cioè, agli influssi del magnetismo animale, miracolosamente
farà apparire la cronistoria compiuta dei secoli a venire
tra il 1859 e il 2222, anno in cui vive il narratore di secondo grado e
anno durante il quale inizia a manifestarsi l’epidemia di peste “apatica”
che rischia di portare l’umanità verso l’estinzione.
[ 10 ]
“l’odore del tabacco” 285
Qui, quasi in un gioco citazionale portato ai suoi punti estremi,
Nievo non solo sembra adombrare personaggi reali dietro alcuni nomi
di fantasia (si è ipotizzato che Vincenzo Bernardi di Gorgonzola
possa essere identificato con il noto astrologo Antonio Bernardi della
Mirandola, morto a Mantova proprio nel 1859) ma si spinge a citare,
quadruplicandolo, il terribile numero due che affliggeva con la sua
mancanza di una conciliazione degli opposti la ricerca di sintesi del
Barone di Nicastro,19 e il gioco potrebbe estendersi alla parodia del topos
del manoscritto ritrovato, ridotto macchinosamente ma anche parodisticamente
quasi a una lastra fotografica su cui compare, come in un
esperimento mesmerico e spiritico, un testo che viene dal futuro.
Tutti segnali di una volontà parodica realizzata mediante la moltiplicazione
di ruoli enunciativi e di citazioni inter-testuali e che la divisione
del testo in Libri invece che in capitoli non può che ribadire,
rinviando a un’ascendenza sterniana fin troppo esibita.
Dopo il Libro Primo, denso di riferimenti all’attualità politica del
1859-60, occasione per Nievo di consegnare a un immaginario futuro
storico il giudizio negativo su Villafranca e sugli sviluppi diplomatici
della guerra, nei tre Libri successivi, che abbracciano in rapida sintesi
quasi due secoli, lo sguardo si rivolge verso una storia sempre più a
dimensione europea e mondiale. La fantasia dell’autore si sbizzarrisce
a immaginare un ruolo dominante della Russia sul resto dell’Europa
ridimensionato da una rivoluzione socialista nata in Germania ed estesa
poi alla Russia, sino ad arrivare, nell’anno 2030, alla fondazione di
una nuova religione umanitaria, predicata da Giovanni Mayer, il “papa
della buona gente”, basata su una vita fatta di piccole gioie del corpo
e di un uso condiviso e moderato dei beni terreni. È uno dei momenti
di maggior ambivalenza del testo. Alcuni accenti di tale utopia
sociale realizzata ricordano i valori cristiani del protagonista del Pescatore
d’anime, al tempo stesso la pagina assume i toni della distanza e
della satira da parte del narratore, lasciando intravvedere la distanza
dell’autore implicito verso ogni utopia sociale. Una distanza destinata
a farsi esplicito sguardo non solo ironico ma disincantato che annuncia
un lento declino dell’umanità dopo il rogo di tutti i libri scritti prima
del 2000 e dopo l’invenzione degli «omuncoli», uomini meccanici, antesignani
dei moderni robot, che sostituiscono il lavoro umano.
19 Cfr. su questa linea anti-utopica e satirica di Nievo che dal Barone di Nicastro
attraverso gli scritti giornalistici arriva sino alla composizione della Storia filosofica
dei secoli futuri si veda il mio Time Machine, in Accoppiamenti giudiziosi, a c. di
Francesco de Cristofaro e Marco Viscardi, Donzelli, in corso di stampa.
[ 11 ]
286 ugo m. olivieri
Liberata dalla costrizione al lavoro grazie allo sviluppo della tecnica
l’umanità, sembra così aver realizzato l’utopia promessa dal mito
del progresso. Qui il testo nieviano conosce però un inarcamento concettuale
che lo situa tra le utopie negative che avranno corso nella
storia successiva del romanzo fantascientifico. In un mondo dominato
dalla tecnica ove non v’è più spazio per l’idealità, l’umanità conosce il
flagello della “peste apatica”, dello spleen che congiunge in un unico
ciclo negativo fine della storia come utopia realizzata dal progresso,
fine dell’umanità afflitta dalla noia e fine dello spazio terrestre, seguendo
le teorie cosmologiche messe in voga, nel 1859, dallo scienziato
italiano Paolo Gorini sul raffreddamento progressivo della crosta
terrestre.
Il tema della civiltà moderna minacciata dal “mercantismo”, presente
in modo costante in molti articoli giornalistici, da contingente
critica storica sulla società italiana che stava emergendo dalla lotta risorgimentale,
assume nella Storia filosofica dei secoli futuri i colori di
una profezia antropologica, lasciando emergere le ascendenze filologiche
e filosofiche che presiedono all’elaborazione del testo.
Il tema, compiutamente leopardiano, del futuro dell’umanità letto
mediante la critica delle “sorti umane e progressive”, ossia di un secolo
che ha eletto il mito del progresso a sostituzione del criticismo razionalistico
del Settecento, sembra veramente la falsariga inter-testuale
che guida qui la scrittura nieviana. Numerose potrebbero essere le
rispondenze con le Operette Morali, dalla visione negativa della civiltà
delle macchine, accennata ne La proposta di premi all’Accademia dei Sillografi,
cui sembra rifarsi l’invenzione degli omuncoli, alla visione
complessivamente negativa della storia futura nella Storia del genere
umano. La tentazione attributiva più pregnante è, però, la disincantata
visione esistenziale cui il narratore Vincenzo Berardi da Gorgonzola
sembra conformare la propria azione nel presente. Come Plotino che
nel Plotino e Porfirio si sottrae all’eccesso d’eroismo del suicidio stoico
per predicare una solidarietà tra gli uomini, così l’eroe nieviano si affida
alla pietas dei posteri per ottenere sul proprio sepolcro il conforto
di una piantina di tabacco che diffondendo il suo odore gli allevi, dopo
la vita presente, anche un’ipotetica vita ultraterrena.
Quanto tale minimalismo olfattivo sia lontano dalla visionarietà
utopica dell’ultima pagina delle Confessioni 20 quando l’immagine tra-
20 Cfr. Le Confessioni d’un Italiano, a cura di S. Romagnoli, cit., cap. XXIII, p.
915: “O primo ed unico amore della mia vita, o mia Pisana, tu pensi ancora, tu
palpiti, tu respiri in me e d’intorno a me! Io ti veggo quando tramonta il sole, ve-
[ 12 ]
“l’odore del tabacco” 287
sfigurata della Pisana spinge lo sguardo di Carlino verso il futuro, non
è solo evidente al lettore ma può sconcertare il critico sulla verità “seria”
e non solo parodica di questo finale.
Forse è merito dei nostri tempi, già entrati nel secolo della profezia
di Vincenzo Berardi da Gorgonzola, aver restituito problematicità e
più volti a un autore troppo spesso condannato a un unico profilo
dalla sua stessa precocità giovanile.
Ugo M. Olivieri
Università Federico II – Napoli
stita del tuo purpureo manto d’eroina, scomparir fra le fiamme dell’occidente, e
una folgore di luce della tua fronte purificata lascia un lungo solco per l’aria quasi
a disegnarmi il cammino. Ti intravvedo azzurrina e compassionevole al raggio
morente della luna; ti parlo come a donna viva e spirante nelle ore meridiane del
giorno.”
[ 13 ]

Giovanni Maffei
La prima formazione di Federico De Roberto:
la questione della lingua e le risorse della scienza
Si offrono in lettura alcune considerazioni sulla prima formazione linguistica e
letteraria di Federico De Roberto, in rapporto al contesto cittadino, regionale e
nazionale. Si mette a fuoco l’incidenza della formazione tecnico-scientifica dello
scrittore e in risalto il senso della sua ricerca espressiva: da una personale
questione della lingua (lo studio di possedere quella propria e corretta), all’approdo
dello stile: la «tormentosa gioia» e l’avventura flaubertiana della forma.

This essay sets out various thoughts concerning the early linguistic and literary
schooling of Federico De Roberto in relationship to the urban, regional and
national context. Emphasis is placed on the importance of the technical-scientific
schooling of the writer and the sense of his search for expression: from a
personal “questione della lingua” (the effort to acquire a specifically individual
and correct language) to the obtainment of a style; the “tormented joy” and the
Flaubertian adventure of form.
1. Le strutture formative e lo stato della cultura a Catania quando
Verga andava a scuola furono dipinte da De Roberto in una pagina
memorabile:
In Sicilia a quei tempi, non c’erano altri maestri tranne i preti, la cultura
dei quali non andava oltre le lingue morte: quanto al gusto, essi lo
avevano formato sulle traduzioni dei Santi Padri, sui quaresimali, i
panegirici e le orazioni funebri. I vizii nei quali Ruggero Bonghi doveva
trovare di lì a poco la spiegazione del Perché la letteratura italiana non
è popolare in Italia, la gonfiezza e la pompa facenti le veci della vera
nobiltà, gli artifici retorici nascondenti la vuotaggine del pensiero, le
inversioni e le contorsioni generate dalla mania di imitare i modelli
latini, erano comuni a tutta la penisola: ma nell’isola vi s’aggiungeva
una notazione alquanto ambigua della grammatica e della sintassi.
Quegli emeriti Padri-lettori ai quali non sfuggiva il minimo solecismo
quando i loro scolari adoperavano la lingua di Cicerone, lasciavano
Autore:Università di Napoli Federico II; ricercatore; gmaffei@unina.it
290 giovanni maffei
poi violentare le regole più elementari nelle composizioni italiane. I
giovani che uscivano dalle loro scuole erano troppo spesso costretti a
cavarsela dando cadenza toscana alle forme dialettali; e mentre per
questa ragione incappavano in grossolani errori, infarcivano contemporaneamente
le loro scritture di voci e costrutti disusati e rancidi che
i loro maestri stimavano preziosi e squisiti. Quasi tutta la poesia e quasi
tutta la prosa erano quindi agghindate e zoppicanti, imbellettate e
grinzose, piene di solennità classica e di sciatteria paesana1.
L’assunto, in questo e in altri saggi dedicati all’amico tra il 1920 e il
1925, è che, spiccato da una palude, il «volo» del futuro autore de I
Malavoglia ebbe del prodigioso: un volo «d’aquila»2. Mentre era giustamente
caduto come un «Icaro» Domenico Castorina, il cugino più
grande, proposto a Verga sin da piccolo dall’ambiente cittadino e familiare
come modello di uomo-letterato, di fervido patriota e d’ispirato
romantico: ma la sua arte meriterebbe un posto in un’eventuale
«crestomazia di esempii di brutto scrivere»3. Ed erano stati sgraziatissimi
i voli di Antonino Abate, il «maestro» alla cui scuola – di «liberalismo
» oltre che di «lettere, di storia e di geografia» – Verga subì per
ben dieci anni, fino alla vigilia dell’Unità, una didattica consistente
nella lettura di poche «poesie e prose» di autori quasi sempre «moderni
e modernissimi» (tra i quali il Castorina) e nella declamazione dei
molti versi del maestro, «fatta con voce commossa dallo stesso autore,
via via che li veniva componendo»4; dei poemi in cui il liberale, «Insofferente
di ogni giogo, “rubello” ad ogni schiavitù, smanioso di spezzare
tutte le catene, fossero anche “auree”», si dimostrava intollerante
altresì del «dispotismo della grammatica, della sintassi e
dell’ortografia»5. Un volo d’aquila, quello di Verga: prodigioso se si
pensa alla scuola che frequentò, alla Sicilia e a Catania negli anni Cin-
1 Federico De Roberto, Il volo d’Icaro. Domenico Castorina e Giovanni Verga,
«La Lettura», XXI, 10, 1° ottobre 1921; ora in Id., Romanzi novelle e saggi, a cura di
Carlo A. Madrignani, Milano, Mondadori, 1984, dove il testo è riprodotto integralmente
alle pp. 1687-1721; cito dalle pp. 1691-1692. Alle notizie fornite da De
Roberto sulla formazione di Verga ha dato valore strategico Francesco Bruni
nell’importante Sondaggi su lingua e tecnica narrativa del verismo (1982), ora in Id.,
Prosa e narrativa dell’Ottocento. Sette studi, Firenze, Cesati, 1999, pp. 137-192.
2 F. De Roberto, Il volo d’Icaro, cit., p. 1721.
3 Ibidem.
4 Federico De Roberto, Il maestro di Giovanni Verga, «La Lettura», XX, 9, 1°
settembre 1920; ora, con tagli, in Id., ‘Casa Verga’ e altri saggi verghiani, a cura di
Carmelo Musumarra, Firenze, Le Monnier, 1964, pp. 39-61; cito dalle pp. 45-46.
5 Ivi, p. 47.
[ 2 ]
la prima formazione di federico de roberto 291
quanta dell’Ottocento, al povero terreno di cultura dove mosse i primi
passi, e che quelle ali avrebbe dovuto nutrire.
2. E i primi passi del biografo alla lingua e alla letteratura? Certo
negli anni Settanta, quando De Roberto era ragazzo, a Catania ci si
formava meglio che ai tempi di Verga. In mezzo, un ventennio rilevante,
con l’unificazione e tutti i mutamenti legati all’istituzione dello
Stato nazionale. Verga si era dovuto accontentare dell’Abate, mentre
De Roberto ebbe decenti scuole pubbliche. Giravano libri, giornali e
riviste molto più che in età borbonica, e si respirava ben altra apertura
al continente e all’Europa. Catania aveva una letteratura propria in
italiano di cui andare orgogliosa: Verga e Capuana (non molto sentiti
però come glorie cittadine) e soprattutto Rapisardi, amatissimo dai
catanesi, il quale, nonostante certe affinità ideali e retoriche, non era
l’Abate.
Per quanto riguarda lo stato della lingua, potremmo paragonare –
per avere una misura dei progressi compiuti – i testi che Verga e De
Roberto produssero quando ancora andavano a scuola, e confrontare
con gli abusi retorici e i difetti grammaticali di Amore e Patria6 un campione
della lingua asciutta e quasi irreprensibile esibita da De Roberto
nel primo scritto pubblicato di lui di cui siamo a conoscenza, una cronaca
delle celebrazioni di Bellini che si tennero a Catania nel 1876 in
occasione del trasferimento dei resti del musicista nella città natale7. Se
l’articolo del cronista allora quindicenne fosse stato un tema in classe,
anche un insegnante competente e severo non avrebbe trovato quasi
nulla da segnare in rosso, e avrebbe potuto lamentare soltanto una certa
indigenza lessicale ed elementarità paratattica dello svolgimento:
Da un mese Catania è in uno stato anormale, ognuno si sente in dovere
di adoperarsi per ricevere degnamente il grande concittadino, e tutti si
sono adoperati tanto che per la ristrettezza del tempo si sono fatti mi-
6 Sulla lingua di Amore e Patria cfr. Francesco Branciforti, Alla conquista di
una lingua letteraria, in I romanzi catanesi di Giovanni Verga, Atti del I Convegno di
Studi (Catania, 23-24 novembre 1979), Catania, Biblioteca della Fondazione Verga,
1981, pp. 261-308. Sulle somiglianze fra la lingua di Amore e Patria e quella delle
opere dell’Abate, cfr. Gabriella Alfieri, Polemica e realtà linguistica nella Sicilia risorgimentale,
in I romanzi catanesi di Giovanni Verga, cit., pp. 189-260. Sulla lingua dei
Carbonari della montagna, che Verga pubblicò nel 1861-1862 (mentre Sulle Lagune è
del 1863), cfr. ancora F. Bruni, Sondaggi su lingua e tecnica narrativa del verismo, cit.,
pp. 174-178.
7 Federico De Roberto, Le feste belliniane, «L’Illustrazione Italiana», III, 51, 15
ottobre 1876, pp. 311-314.
[ 3 ]
292 giovanni maffei
racoli. Il 21 tutto era pronto. I treni e i piroscafi provenienti da tutte le
direzioni versavano a migliaia i forestieri, e la folla curiosa circolava
per le vie della città adorna di un infinito numero di bandiere nazionali
e di quelle di tutte le nazioni del mondo. Il 22 l’accorrenza dei forestieri
aumentò ancora. Tutti i balconi erano parati a festa, sui muri delle
vie si vedevano le immagini di Vincenzo Bellini circondate da ghirlande
e festoni di fiori, e su tutte le bocche risuonava il suo nome; era
un vero entusiasmo.
Ma il paragone tra le prose precoci di Verga e De Roberto sarebbe
una prova storico-linguistica fuorviante. Non tanto perché, come si
potrebbe osservare, Amore e Patria rimase manoscritto, mentre è probabile
che l’articolo derobertiano, prima della stampa, fosse stato rivisto
da qualche redattore della rivista ospitante8. Bensì perché i presumibili
interventi correttorî non impediscono di riconoscere in questa
cronaca un organismo così minimale e schivo di complicazioni da rischiare
pochissimo, di per sé, il madornale in cui era incorso Verga
giovinetto. Insomma le due scritture sono incomparabili innanzitutto
per la loro eterogeneità di registro: se le inadempienze del primo romanzo
di Verga sono indizio di un humus di troppa e maldestra letteratura,
la misura stilistica dell’altro autore da giovane nasceva da una
condizione culturale, e da una conseguente disposizione stilistica, affatto
diverse. Andava ancora a scuola, abbiamo detto; ma non faceva
studi classici, diversamente dalla maggioranza dei ragazzi di condizione
agiata e borghese della sua età. S’era iscritto, per l’anno 1874-
1875, al Regio Istituto Tecnico di Catania, nella sezione fisico-matematica,
antesignana del nostro liceo scientifico, che dava accesso alle facoltà
scientifiche dell’Università e a Ingegneria9. E quest’allievo del
Tecnico aveva voluto fare una relazione spassionata e ‘scientifica’ sulle
feste belliniane, e non un pezzo di belle lettere:
Fu poi discoperto il monumento sepolcrale, opera dello scultore Tassara,
composto d’un basamento in cui sarà incastrato un bassorilievo
rappresentante una scena della Norma. Sul basamento è un’urna, su
8 Suggeriscono l’ipotesi di questi interventi redazionali la lingua e la grammatica
assai precarie di un diario (le Memorie) che De Roberto a quel tempo andava
stendendo giorno per giorno, di cui è sopravvissuto il manoscritto che è stato in
parte pubblicato: cfr. Gabriella Alfieri, Le ‘Memorie giovanili’ di Federico De Roberto,
ovvero dell’educazione di un giovane perbene, «Annali della Fondazione Verga»,
11-12, 1994-95, pp. 141-181.
9 Cfr. Aurelio Navarria, Federico De Roberto. La vita e l’opera, Catania, Giannotta,
1974, p. 12.
[ 4 ]
la prima formazione di federico de roberto 293
cui il Genio della Melodia depone una corona. Il tutto è sormontato da
un’arcata che finisce con una croce a braccia uguali, e sul cui fondo un
bassorilievo rappresenta l’Apoteosi di Bellini. L’Apoteosi ed il Genio
sono in gesso, non essendo arrivati quelli in marmo. Ai piedi del monumento
è la tomba su cui sta scritto:
BELLINI.
La sera la banda di Messina intuonò l’aria del Pirata: Nel furor delle
tempeste, che fu fatta ripetere ben otto volte.
Infine si illuminò a fuochi di bengala tutta la via Stesicore Etnea, e dissipato
il fumo si lesse sull’arco di trionfo il nome di Bellini, che omai
riposa nella terra che lo vide nascere.
La sobrietà dell’espressione, a mio avviso, qui è l’effetto di un rigore
e di uno scrupolo referenziale desunti dalla consuetudine con le
dimostrazioni geometriche, con le descrizioni tecnologiche, con le registrazioni
delle scienze naturali. La misura antiretorica dello stile non
è un tratto modernizzante, un segno dei tempi nuovi, di una coscienza
critica della lingua ormai divenuta comune o diffusa, quanto una fisionomia
antica, che proviene dalla lunga tradizione cartesiana delle
scritture scientifiche, assestata fino a tempi recenti, come è stato notato,
«intorno a una lingua letteraria il cui carattere fondamentale sembra
la stabilità, e dove la sperimentazione di tipo manieristico viene
ridotta al minimo perché ciò che conta è la coesione, l’equilibrio per
così dire classico di un’esperienza già consolidata e sicura, riconoscibile
nei suoi principî costruttivi»10. Sicché la funzionalità scabra di queste
pagine, anziché inserirla all’avanguardia dei processi che renderanno
mediamente più economica la lingua del Novecento rispetto a
quella dell’Ottocento, dobbiamo interpretarla come caso specifico di
una tendenza generale dello stile della scienza a «un arretramento, che
è alla fine un’adesione critica, verso le forme più stabili del sistema,
verso il centro del modello linguistico istituzionalizzato»11. Si veda
quanto fossero omogenee la prosa del vulcanologo Carlo Gemmellaro
– nato nel 1787, e di cui si offre un passo risalente al 1831 – e quella
dell’alunno dell’istituto tecnico che presto, solo tre anni dopo aver diplomato
De Roberto, dall’illustre scienziato avrebbe preso il nome:
Il professore Hoffmann ed i suoi amici […] si misero alla vela da Sciac-
10 Così, sintetizzando i punti di vista di vari studiosi sulle modalità linguistiche
della scienza, Ezio Raimondi in Scienza e letteratura, Torino, Einaudi, 1978, p. 47.
11 Ibidem.
[ 5 ]
294 giovanni maffei
ca coll’idea di visitare il nuovo Vulcano […]. A sei miglia di distanza
scoprirono essersi formata un’Isola bassa, dietro alla quale compariva
che uscisse il fumo; ed avvicinandosi, prima a tre miglia, e gradatamente
a poco più di mezzo miglio, videro consecutivamente comparire
due altre isole, e poi congiungersi tutte in una, la quale non era altro
che l’orlo ineguale di un cratere, più alto dalla parte di scirocco, e bassissimo
dalla parte opposta. Esso era formato intieramente di scorie e
ceneri, e non si vedea lava da nessuna parte.
Il vento ed il densissimo fumo non permise loro di girarla all’intorno.
Si fermarono a lor bell’agio a ponente, donde ne tirarono varî disegni.
Ma la maestà e bellezza delle eruzioni, che con piccoli intervalli si succedevano,
non può esprimersi né col pennello, né con la penna.
Venne lor fatto di essere spettatori di una grande eruzione che durò
otto minuti. I getti della cenere e delle scorie erano in forma di saette, e
di centinaja di razzi, che s’innalzavano con gran velocità sino all’altezza
di 600 piedi12.
La corvetta rispose alle salve, avvolgendosi nel denso fumo dei suoi
cannoni. A regolari intervalli brillava un fuoco, e dopo un 12 secondi si
sentiva il lontano tonar del bronzo. Era ancora distante più di 4 chilometri.
La rotta era al sud, poi fu portata a sud-ovest. Si seguitò così fino
a che arrivò nella direzione del molo vecchio. Allora si avanzò nella
direzione del porto […].
Alle 5 1/2 il Guiscardo gettò l’àncora. […]
Intanto annottava. Si cominciò ad accendere i lumi. In 5 minuti il mare fu
coperto di punti rossi vagolanti. Alle 6 ore e 10 si accesero i fuochi di bengala
alla lanterna. Grandi fuochi di legna brillarono sulla costa e dall’alto
del Salvatore, i razzi multicolori solcavano l’aere, le granate scoppiarono
e i mortaretti aggiunsero il loro fragore all’incantevole scena13.
Si noti come la prosa di Gemmellaro non paia di tinta molto meno
moderna di quella di De Roberto, nato tanti anni dopo: è un effetto
della prossimità di entrambe al «centro del modello linguistico», come
prescriveva la scienza, cioè alla zona della lingua meno soggetta alla
mutazione diacronica. Si noti anche come il vulcanologo si consenta
un commento personale (sulla «maestà e bellezza delle eruzioni»), ciò
che De Roberto invece non fa mai, in tutto il suo articolo; così come
pare perfino più ‘scienziato’ dell’altro in certe esattezze superflue che
12 Carlo Gemmellaro, Relazione dei fenomeni del nuovo Vulcano, in Delle cose di
Sicilia. Testi inediti o rari, a cura di Leonardo Sciascia, Palermo, Sellerio, 1984, III,
pp. 148-149. Il testo apparve originariamente sul «Giornale delle due Sicilie», il 9
agosto 1831.
13 F. De Roberto, Le feste belliniane, cit., p. 311.
[ 6 ]
la prima formazione di federico de roberto 295
paiono rispondere a un automatismo dell’abitudine calcolatrice («dopo
un 12 secondi si sentiva…», «In 5 minuti il mare fu coperto di punti
rossi…»). Ma nel brano ci sono altri segnali importanti. Si considerino
– incuneate nel tessuto della prosa referenziale – le espressioni «il
lontano tonar del bronzo» e «i razzi multicolori solcavano l’aere». Qui
De Roberto non ha saputo contentarsi della lingua basica, del grado
zero della descrizione scientifica, ha voluto (o dovuto, per penuria di
alternative) far ricorso agli effetti connotativi e poetici: in altri termini,
microscopicamente, allo stile della letteratura. E subito è scattato un
riflesso, una memoria ‘abatiana’; un senso, in questi e in pochissimi
altri punti del testo, ma flagrante, della scrittura come eloquenza.
3. Sappiamo di altri articoli che pure De Roberto scrisse molto giovane,
e che, come il primo, si esita a collocare all’inizio della sua attività
letteraria, perché in effetti la precedono. Si tratta di articoli geografici
e vulcanologici risalenti al 1879 (mentre solo nel 1881 pubblicò
sul «Don Chisciotte» le prime recensioni letterarie e le prime brevi
novelle) nei quali non paiono messe alla prova le forze di uno scrittore
in erba quanto – più appropriatamente, dati i temi, di quel ch’era stato
nell’articolo belliniano – le competenze e la diligenza di un giovane
scienziato. Aveva finito la scuola, e aveva deciso di continuare sulla
stessa strada:
De Roberto conseguì la licenza dall’istituto tecnico il 25 luglio 1879 e
l’otto di novembre dello stesso anno fu immatricolato nell’Università
di Catania, nella facoltà di scienze fisiche, matematiche e naturali. Seguì
diligentemente le lezioni del primo e del secondo anno, dal 1879 al
1881, ma non sostenne alcun esame. I suoi maestri universitari furono
lo Zurria, docente di algebra, geometria analitica e calcolo infinitesimale;
il Distefano che insegnava geometria descrittiva e proiettiva, e disegno
architettonico; il Macaluso, di fisica, e il Filetti, di chimica; il vulcanologo
Silvestri, in fine, insegnava chimica e fisica terrestri. Si aggiungeva
un corso libero di letteratura italiana tenuto da Mario Rapisardi.
Antonino Sapuppo, compagno di studi del De Roberto, attesta che egli
fu assai versato nelle scienze matematiche e caro al valente professore
Zurria. Tuttavia non seguì gli studi nella scuola di applicazione e non
divenne ingegnere14.
Gli anni di formazione scientifica, a scuola e all’università, non furono
senza futuro. La loro lunga incidenza si decifra – oltre che nelle
14 A. Navarria, Federico De Roberto, cit., p. 13.
[ 7 ]
296 giovanni maffei
propensioni ‘geometriche’ del narratore e nelle sue istanze di «metodo
» rigoroso – nell’uso frequente, da parte del critico e del saggista, di
termini e metafore tolte dalla matematica, o dalla metodologia e dal
lessico di questa o quella scienza speciale. Ma la testimonianza migliore
del fatto che il suo esordio alla letteratura fu segnato dai precedenti
scientifici e tecnici è proprio De Roberto a offrircela, in un profilo inserito
nelle pagine introduttive di Arabeschi (il suo primo libro di critica,
del 1883, e il suo primo libro in assoluto) e attribuito a un anonimo
immaginario recensore. Se l’autore – questi assicura – avversa le pretese
scientifiche del romanzo sperimentale, lo fa a ragion veduta:
Il signor Federico De Roberto, un giovane, quale appare, è un deciso
oppositore di quella dottrina che fra i giovani, disgraziatamente per
essi – e per essa – ha molti seguaci: vogliam dire l’applicazione dei
processi scientifici all’arte. La pretesa, com’egli dice, d’un romanzo
sperimentale gli fa scrollar le spalle; […] egli ride delle esagerazioni in
cui gli artisti ed i critici naturalisti cadono, e fanno cadere. La cultura
più tecnica che classica di cui appare fornito, lo fa sdegnare quando
sente parlare di biologia, di sociologia, di fisiologia, di chimica, applicate
al romanzo, e gli fa quasi desiderare un ritorno al romanticismo,
cioè ad una esagerazione contraria; ma egli si arresta a tempo, ed in
quella guisa che delle moderne teorie artistiche ha accettato ciò che a
lui par buono, così dai romantici accetta l’importanza capitale accordata
alla forma, respingendo gli eccessi a cui quelli si abbandonarono15.
Chi nelle frasi citate distribuisce con tanta sicurezza nei rispettivi
spazi distinti la scienza e l’arte è un letterato che ha già risolto in sé –
come misura del giudizio, della composizione e dello stile – la sua
«cultura tecnica», l’abito razionale della scienza; mentre, pochi anni
prima, scrivendo da tecnico di cose tecniche e scientifiche, e quando
cioè il rischio avrebbe dovuto esser minore, De Roberto era incorso nei
più indiscreti sbandamenti retorici, era ricorso alle marche patenti della
letterarietà come non gli accadde più di fare, se non per satira o pastiche.
Prendiamo a campione un articolo geografico uscito sul finire del
1879, intitolato L’Oceano Artico e i commerci della Siberia16. Si direbbe che
15 Federico De Roberto, Arabeschi, Catania, Giannotta, 1883, p. VIII.
16 Il tema era di grande attualità: da poco era stato scoperto il cosiddetto passaggio
a Nord-Est e si parlava molto delle vie di comunicazione che si sarebbero
potute stabilire tra la Siberia e l’Europa, e delle possibilità conseguenti di sviluppo
commerciale ed economico.
[ 8 ]
la prima formazione di federico de roberto 297
sull’autore agiscano due spinte contrastanti: da un lato gli imperativi
referenziali della scienza, dall’altro un’ambizione retorica che lo induce
alle grazie più viete dell’aulico e non impedisce le scorrettezze
grammaticali e le improprietà lessicali. Evidentemente, trascorsi tre
anni dalle Feste belliniane, De Roberto ritiene che nelle esposizioni
scientifiche non guasti un po’ di qualità letteraria, e presume di potersi
consentire, rispetto al minimalismo dei quindici anni, un maggior
numero di parole, frasi più complesse: scogli difficili, ma non è troppo
pensieroso della rotta dello stile, perché non si sente ancora scrittore,
e infatti finisce col cozzarvi. Sicché nel testo troviamo – coi difetti sintattici
e i giri viziosi della frase – amendue, viemmaggiormente, quandochesia,
dessa, istoria, istudiare, risultamenti, dicesi, distinguonsi; e gli arditi
nocchieri scandinavi, l’Europa centro radiatore di civiltà, la matrigna natura,
i cangiati tempi, un fiume che si biforca in molti rami, e questo pensiero
dei «pescatori norvegesi di un secolo fa»: Ma compiere di siffatte imprese
egli è evidentemente un tentare Iddio.
Si ha l’impressione che la cattiva retorica dilagherebbe se non la
tenessero a bada lo scrupolo dell’attenzione che si è visto nelle Feste
belliniane, un impegno d’esattezza e trasparenza oggettiva che suggerisce
di selezionare i termini da ‘tecnico’, di aggettivare in modo funzionale,
di costruire periodi economici, con una membratura capace
di distribuire nella descrizione porzioni ampie di realtà, fatti, oggetti e
luoghi ordinatamente letti secondo lo spazio e il tempo. La veglia dello
scienziato può generare uno stile di cose, nonostante la secchezza,
onestamente ed efficacemente informativo, come in questo quadro
dell’economia siberiana:
La principale ricchezza della Siberia, e quella che è relativamente più
utilizzata, è rappresentata dalle vaste miniere dei più rari e più necessari
metalli; fra i quali: platino, oro, argento, ferro, rame, stagno, piombo
etc. Ma l’estrazione di questi si pratica in piccola scala e con metodi
primitivi; non se ne ricava dunque quanto se ne potrebbe. E così dicasi
delle cave di diaspro, corniola ed altre pietre preziose, fra le quali anche
il diamante.
Immensi giacimenti carboniferi, da poco tempo scoperti, restano ancora
nelle viscere della terra per mancanza di macchine che consumino il
prezioso combustibile.
La caccia, la pesca, le prime risorse dell’uomo semi-selvaggio, non sono
esercitate se non per i limitati bisogni della scarsa popolazione, e
migliaia e migliaia di zibellini, di ermellini, di volpi nere e di vari colori,
ed intere frotte di storioni colossali, di aringhe, sfuggono annualmente
al piombo ed alla rete.
Se si volge lo sguardo ai prodotti del suolo, è sempre la stessa ricchez-
[ 9 ]
298 giovanni maffei
za o attitudine a produrne, da una parte, e l’inutilità o il soverchio di
essa per rispetto a quei popoli, dall’altra17.
Ma l’incipit dell’articolo è stato invece il trionfo delle parole, quando
l’autore si è concesso, prima di adempiere ai doveri asciutti della
scienza, il lusso della letteratura, e hanno dilagato i superlativi, i luoghi
comuni, e un’enfasi datata, drammatizzante e personificante, una
concezione esornativa ed oratoria dello stile, come se anche lui fosse
andato a scuola dall’Abate:
La vecchia Europa, focolare di ogni umana attività, centro radiatore
che imprime vigorosi impulsi al mondo tutto, sorgente inesausta di
civiltà, che dispensa a piene mani in ogni più riposto angolo della Terra,
ebbe in questo mondo, di cui è l’anima, un posto invero poco felice;
perché, da ogni parte, insuperabili barriere le precludono la via.
Ad Oriente l’immenso colosso asiatico col suo insieme sterminato di
aridi deserti, di rocciosi altipiani, di altissime montagne, di fiumi giganteschi,
la comprime e quasi la soffoca; né contenta di questo, fin’ieri
stendeva la mano alla selvaggia Africa e dalle gelide lande de’ Samojedi
agli arsi deserti del Marocco, le precludeva il passaggio verso
l’Oriente. Né soddisfatta ancora, né rassicurata dalla sconfinate ghiacciaie
nordiche, chiude l’ingresso dell’Oceano Artico colla estrema barriere
della Nuova Zembla.
Ad Occidente il mare potrebbe schiuderle la via; ma le terre americane,
stendendosi dall’un Polo all’altro, sbarrano anche là il cammino al navigatore.
A mezzogiorno la uniforme e monotona costa africana, da
Ceuta alla città del Capo, costringe a lunghi e pericolosi viaggi. A tramontana,
finalmente, i ghiacci del Polo sono ben altrimenti insuperabili
dei mari e dei continenti.
Né a ciò solo si limitò la matrigna natura verso questa nostra gran patria
comune […]18.
17 Federico De Roberto, L’Oceano Artico e i commerci della Siberia, «Rivista Europea
», anno X, vol. XVI, fasc. III del 1º dicembre 1879, pp. 564-581, a p. 566.
18 Ivi, p. 564. Non siamo lontani dall’eloquenza – insieme banale e peregrina,
ottima per le confezioni dell’ideologia – che De Roberto esibirà satiricamente ne I
Viceré, nel comizio di Consalvo: «Il pensiero della patria nostra è quest’Italia che il
pensiero di Dante divinò, e che i nostri padri ci diedero a costo di sangue (Vivissimi
applausi). La nostra patria è anche quest’isola benedetta dal sole, dov’ebbe culla il
dolce stil novo e donde partirono le più gloriose iniziative (Nuovi applausi). La nostra
patria è finalmente questa cara e bella città dove noi tutti formiamo come una
sola famiglia (Acclamazioni)» (F. De Roberto, Romanzi novelle e saggi, cit., pp. 1090-
1091; in questa silloge è riprodotta la prima edizione dei Viceré, Milano, Galli,
1894).
[ 10 ]
la prima formazione di federico de roberto 299
4. Perché dal tecnico, dallo scienziato con le auliche intermittenze
venisse fuori il narratore che tutti apprezziamo ci fu bisogno di un tirocinio
della scrittura condotto su un terreno neutrale (fuori del dominio
stretto della scienza e solo latamente letterario), che mettesse De
Roberto di fronte al problema di un pubblico generico da informare e
da sedurre, rispetto al quale testare l’efficacia dei propri strumenti
espressivi. L’occasione gli fu fornita dal mestiere di cronista che esercitò
per il quotidiano romano «Fanfulla» dal 1880 al 1883, con le corrispondenze
periodiche da Catania firmate «Hamlet». Nel 1881 iniziò
anche l’intenso lavoro redazionale e di scrittura per la rivista politicoletteraria
catanese «Don Chisciotte»: De Roberto, che la dirigeva, vi
rivestì principalmente il ruolo del critico letterario, e come critico cominciò
a elaborare sotto specie di riflessione il senso dell’arte che nel
frattempo veniva sperimentando in quegli esercizi di narrativa ‘ufficiosa’
che sono spesso gli articoli per il «Fanfulla»19.
Nelle sue cronache Hamlet parla di tante cose: la vita politica del
municipio e della provincia, i problemi dell’amministrazione e dell’economia,
le feste, le celebrazioni, le iniziative culturali, la vita mondana
di Catania, gli aspetti storico-artistici, le questioni urbanistiche, la
morte di uomini noti della città, gli eventi naturali (eruzioni, terremoti)
e i paesaggi della regione etnea e della costa… Pochissimi i cenni
alla vita letteraria, e una sola corrispondenza interamente dedicata a
un libro nuovo. Non si tratta però dei secondi Studii di Capuana, pubblicati
a Catania da Giannotta nel 1882, e nemmeno dei Malavoglia,
usciti l’anno prima: a Milano, è vero, ma De Roberto avrebbe potuto
dire qualcosa, e si limita a un cenno, su Pane nero, novella verghiana
che pure Giannotta pubblicò in volume, prima che confluisse in Novelle
rusticane. Invece il lettore è intrattenuto lungamente su un opuscolo
Delle famiglie nobili tuttora non estinte e delle città e terre che presero parte
al Vespro siciliano, per Vincenzo Cordova, deputato al Parlamento, uscito
all’inizio del 1882 e preso di mira non solo perché l’autore faceva parte
della detestata «progresseria»20. ma anche per come è scritto:
19 Li si può leggere in Federico De Roberto, Cronache per il Fanfulla, a cura di
Giovanna Finocchiaro Chimirri, Milano, Quaderni dell’Osservatore, 1968.
20 Negli articoli per il «Fanfulla» come sul «Don Chisciotte» De Roberto si
schierava apertamente con i conservatori dell’Associazione costituzionale, non risparmiando
strali al marchese Antonino di San Giuliano, il sindaco progressista di
Catania poi trasfigurato fantasticamente, ne I Viceré e ne L’Imperio, nel personaggio
di Consalvo Uzeda. Sulle ambizioni personali ch’erano dietro questo schierarsi, nel
contesto non sempre limpido delle lotte politiche locali, si veda Antonio Di Gra-
[ 11 ]
300 giovanni maffei
L’onorevole Cordova comincia: «Disseppellendo i nomi di città, famiglie,
individui dalle profonde latebre dove il buio di sei secoli li avea
ricacciati, nol feci per vana pompa di erudizione, ma perché nelle feste
della gran patria italiana risorta pigli cadauno il suo rango e non restin
da sezzo gli antesignani». A questo punto io mi sento in dovere di fare
una dichiarazione: disseppellendo l’opuscolo dell’onorevole Cordova,
nol faccio se non per metterlo in quel rango che gli compete. E tiriamo
via, che ora viene il buono21.
I saggi che seguono di prosa cordoviana – con le sottolineature che
il recensore v’incide dell’aulico esilarante, e dell’illogico, dell’oscuro,
dell’improprio – potrebbero ben rientrare in un’eziologia de I Viceré,
per il germe che vi s’individua dell’Araldo Sicolo di don Eugenio. Ma
questa cronaca costituisce un precedente anche in un altro senso, perché
in essa, come poi farà nelle pagine sull’Abate e sul Castorina, l’autore
ritaglia dallo sfondo della cultura cittadina un caso di letteratura
abnorme, lo porta in primo piano, vi getta su la luce crudele di un’analisi
minuziosa, lo sottopone alle sezioni più animose e sarcastiche.
La lingua batte dove il dente duole: e la coscienza linguistica di De
Roberto, dov’era stata nel prosatore tecnico una debolezza e il rischio
dell’infezione retorica, ha sviluppato – ora che l’articolista si va facendo
letterato e artista – una forma di ipersensibilità, quasi dei suscettibilissimi
anticorpi. Questo sul Cordova è il primo saggio – in forma
ellittica di satira – della questione derobertiana della lingua.
Si sanno le risposte che andavano maturando, negli anni in cui maturava
il nostro scrittore, al problema di una lingua per la letteratura
della nuova Italia: che fosse duttile, all’altezza dei tempi e dei bisogni
della società, capace d’interpretare originalmente i flussi della cultura
europea e di rispecchiare la vita del nostro paese in forme insieme dignitose
e moderne. De Roberto rifiutò – travalichiamo per un momento
la zona della sua prima formazione – la linea carducciana e dannunziana,
propugnata dal coetaneo Scarfoglio, dei modelli forti della
tradizione nazionale, senza però schierarsi nel fronte degli empirici
do, La vita, le carte, i turbamenti di Federico De Roberto, gentiluomo, Catania, Biblioteca
della Fondazione Verga, 1998, pp. 66-69 (poi Acireale-Roma, Bonanno, 2007).
21 Cfr. Biblioteca di “Fanfulla”, con data 31 gennaio 1882, in F. De Roberto, Cronache
per il Fanfulla, cit., pp. 124-125. Le due motivazioni polemiche dell’articolo,
quella politica e quella stilistica, si risolvevano in una, perché l’eloquenza del Cordova
e la sua ideologia progressista a De Roberto giustamente parevano congiunte,
essendo allora in genere classicistica la retorica democratica italiana e classicisti
di tempra rapisardiana i democratici catanesi.
[ 12 ]
la prima formazione di federico de roberto 301
che subordinavano l’ideale della buona lingua a un criterio economico
di praticabilità, oppure alla misura mobile del gusto e dell’uso. Diversissimo
il suo punto di vista, ad esempio, da quello della Serao, che il
problema della lingua mise tranquillamente fra parentesi e giunse a
rivendicare il proprio ‘scriver male’ (attribuito estensivamente a tutti i
veristi) come un sistema virtuoso, conseguito per caso più che per studio,
che non imbalsamava l’espressione, e avrebbe garantito ai testi
una più lunga freschezza22. Invece in lui, per tutto il corso della sua
attività letteraria, in uno con il mito (e l’assillo) flaubertiano dell’ardua
perfettibilità dell’espressione, si registra un dibattere incontentabile
sulla lingua, un laborioso bilanciarsi del cruccio normativo e di un’ansia
dell’energia propria della parola, il travaglio dei vocabolari e l’orrore
degli stampi usurati, un’irritabilità grammaticale e lessicale da
pedante e un’apertura spregiudicata all’invenzione e all’innovazione.
Danno idea dell’esigente questionare linguistico certe lettere, a cavallo
tra gli anni Ottanta e i Novanta, che indirizzò al più giovane amico
Ferdinando Di Giorgi, anche lui autore di romanzi, novelle, drammi,
prodigandosi in consigli e censure con uno zelo, si può immaginare,
non sempre gradito:
Troverai notati un fenomeno necessario dello stato patologico e una crise di
pianto, che sono espressioni troppo scelte, troppo alte, pel tono dimesso
dell’argomento e della forma con cui è necessariamente svolto. Farai
uno scoppio di pianto, e il fenomeno non lo farai produrre. Trovo poi
alcuni sicilianismi come figlia di madre che da un non siciliano non s’intenderebbe;
dirai ragazza ammodo o qualche cosa di simile. Perseguita
femmine s’intende ma non è bello. Dire per matrimonio lo costruirei con
parlare di matrimonio, o press’a poco. Finalmente, invece di mettere in
freno direi tenere a dovere, che mi pare più energico. E questo è quanto23.
L’ipersensibilità linguistica lo faceva timorosissimo di errori di
stampa che svisassero la sua grammatica24, e gli suggerì questo inciso,
in un’altra lettera a Di Giorgi: «Ti ringrazio dell’annunzio e dell’offer-
22 Si vedano le dichiarazioni di Matilde Serao nell’intervista raccolta da Ugo
Ojetti in Alla scoperta dei letterati, Milano, Dumolard, 1895, pp. 233-242, in particolare
alle pp. 235-237.
23 Così da Catania il 2 ottobre 1889. La lettera è tra le molte di De Roberto a Di
Giorgi raccolte in appendice a A. Navarria, Federico De Roberto, cit., pp. 213-329;
cito da p. 231.
24 Si vedano (ivi, pp. 301-307) le ansie in occasione della stampa de I Viceré,
nella lettera all’amico da Catania del 18 novembre 1893.
[ 13 ]
302 giovanni maffei
ta dell’autobiografia di Stendhal (troppo genitivi!)»25. Essa lo rendeva
subito avvertito delle approssimazioni altrui, come si vede in vari articoli
critici, e gli provocava veri rimorsi quando gli accadeva di riscontrare
difetti nelle scritture proprie. Così, a proposito di un articolo
su L’Illusione pubblicato da Parmenio Bettoli sulla «Scena illustrata»,
se gli sembrava assai opinabile il parere del critico sul «valore artistico
» del libro, con rammarico non si sentì di respingere gli appunti
mossi alla lingua: «Nella seconda parte, che è l’enumerazione degli
spropositi, egli ha interamente ragione. Mi pare d’averti già detto che
io sento il bisogno di tradurre i miei libri in italiano; perché la lingua
in cui finora li ho scritti è talmente barbara da non aver che fare con
quella di Dante»26. Ma ritorse subito dopo la norma del buon italiano
contro il giudice severo:
mentre egli predica così bene, razzola malissimo, e quei suoi quattro
periodetti di cui, tolti i passaggi incriminati, si compone il suo articolo,
sono zeppi di strafalcioni: egli dice, per esempio, invece di attrattiva,
attraenza – che non esiste in italiano –; invece di imbastardire, abbastardire
– che è francese – e usa il verbo imbrumarsi che non solo non esiste,
ma occorre un certo lavorio mentale per capire che significa annebbiarsi
– ed è d’origine pura francese, come quegli altri che rimprovera a me.
Perfino il titolo del suo articolo è sbagliato: egli adopera delusione nel
significato di disinganno: «tal voce in tal significato, dice il Lessico del
Fanfani e dell’Arlia, non userà mai chi abbia tanto o quanto fatto l’orecchio
ai buoni scrittori e sappia, anche alto alto, che cosa è lingua
veramente italiana»27.
S’intende che De Roberto era contrario al liberismo della prosa
francesizzante e regionale, come alle preziosità dannunziane del tipo
del parasintetico imbrumarsi (anche se la parola qui viene segnalata
come un gallicismo). Abbiamo visto che metteva in guardia Di Giorgi
dalle «espressioni troppo scelte» (certo alludendo anche alla lingua
25 Ivi, p. 244. La lettera, da Catania, porta la data del 28 luglio 1890.
26 Così in una lettera da Catania del 10 settembre 1893: A. Navarria, Federico
De Roberto, cit., p. 297. L’articolo del Bettoli, intitolato La Delusione, era uscito sulla
«Scena illustrata» di Firenze il 15 agosto. De Roberto ebbe il tempo e il modo di
«tradurre» in italiano il suo romanzo solo nel 1899, per la «nuova edizione riveduta
e corretta» pubblicata da Treves nel 1900. Sulla meticolosa revisione della lingua
de L’Illusione, e sulle differenze tra la nuova e la redazione primitiva, cfr. Carlo A.
Madrignani, La sfortuna critica e le due edizioni dell’‘Illusione’, in Id., Illusione e realtà
nell’opera di Federico De Roberto, Bari, De Donato, 1972, pp. 211-225.
27 A. Navarria, Federico De Roberto, cit., p. 298.
[ 14 ]
la prima formazione di federico de roberto 303
eletta dei classicisti) e dalla corrività della lingua troppo ‘parlata’, coi
suoi calchi dialettali28. Andò sempre meglio individuando la via giusta
fra questi rischi nella religiosa applicazione flaubertiana: lo studio
paziente e sensitivo della frase, fino alla fusione dei toni e dei colori, al
riequilibrio del vario peso delle parole secondo la regola nuova, autosufficiente
e individuale, del testo lavorato, in cui ogni volta la lingua
si reinventa, o meglio rinasce, come stile. Ma conviene notar subito
che le qualità che De Roberto mostrava a Di Giorgi di escludere dal
suo concetto della prosa buona (il troppo alto e il troppo basso, l’eloquente
e lo sciatto) erano precisamente quelle che avevano insidiato la
sua prosa dapprincipio, e continuarono a insidiarla poi: ciò che è vero
di moltissimi autori dell’epoca, solo che De Roberto perseguì la salute
con un impegno (e con proporzionati successi) che in tanti non si riscontrano29.
5. Che avesse cominciato, da cronista del «Fanfulla», un lavoro critico
sulla lingua – per intero calato, ancora, in una prassi scrittoria – lo
si deduce se si guarda al corpus di questi articoli, alla maturazione che
28 Coerentemente, nell’intervista che rilasciò a Ojetti per Alla scoperta dei letterati,
De Roberto individuò le opposte insufficienze della «lingua nobile aulica che
Gabriele D’Annunzio predica e a volte usa» e della «lingua comune parlata viva e
vivace», «più borghese», che «serve a nominare gli oggetti e gli uomini tra cui viviamo
ogni giorno, serve a parlare e a intenderci nella vita comune». De Roberto
riteneva che fosse da cercare un’altra lingua, quella giusta, per risollevare le sorti
del romanzo italiano, e si diceva pessimista («Ci vorranno anni e anni perché
quest’istromento sia limato e solido»), significando tuttavia piuttosto chiaramente
da che lato occorresse guardare per trovarla: «Il Verga dai Carbonari della montagna,
uno strano romanzo di avventure inverosimili scritto nel 1861, fino alle ultime
novelle ha progredito nella italianità della lingua. Il D’Annunzio dal Piacere al
Trionfo è decaduto, in pochi anni» (U. Ojetti, Alla scoperta dei letterati, cit., pp. 81-
88, alle pp. 85-86).
29 Anche dopo l’Unità il controllo delle regole e del lessico dell’italiano fu una
faccenda complicata per molti letterati, come Bruni ha ravvisato nelle scritture della
Serao e di Carlo Del Balzo, peraltro ben inseriti nei circuiti della cultura nazionale
e internazionale: cfr. F. Bruni, Sondaggi su lingua e tecnica narrativa del verismo,
cit., pp. 139-147 e 178-182. A mio parere è vero specialmente per De Roberto ciò che
è stato scritto dei tre maggiori veristi siciliani e di Pirandello: «pochi altri tra i nostri
scrittori hanno avvertito il problema della lingua della prosa narrativa quanto
quei siciliani tra Ottocento e Novecento» (Alfredo Stussi, Storia linguistica e storia
letteraria, Bologna, Il Mulino, 2005, p. 289); mentre Antonio Di Grado ha sottolineato,
tra i tratti originari derobertiani, «un rovello espressivo che travaglierà perennemente
lo scrittore, terremotando la stesura d’ogni suo scritto e minando perfino
le sue riserve vitali» (A. Di Grado, La vita, le carte, i turbamenti, cit., p. 59).
[ 15 ]
304 giovanni maffei
vi si manifesta, al senso che se ne ricava di un indirizzo sempre più
sicuro, con migliori bussole, verso l’orizzonte dello stile.
La tinta dominante dei testi, senza grandi differenze tra le medie
che si ricavano dai primi e dagli ultimi, è piuttosto colloquiale e mediocre.
Una prosa qualche volta perfino trasandata (a cavallo dei muli
51, qual è quella costruzione che abbia potuto resistere 76, un effetto contrario
a quello che me ne aspettavo 99, figuratevi se l’invito sia tornato gradito 130)
e per lo più giornalisticamente corsiva, «borghese» nel senso che dava
la Serao all’aggettivo. Coltivandola, De Roberto avrebbe potuto ricavarne,
per il suo futuro di scrittore, una vena fluida e torbida, duttile
ma approssimativa, analoga a quella della scrittrice napoletana: la sua
produzione matura ci dice che non se ne accontentò30.
Ma i fenomeni più interessanti, nelle corrispondenze di Hamlet,
riguardano l’aulico: non per la frequenza, ché esso occorre di rado (dovizie
121 e vestigia 135 non fanno specie; ignivome 135, a proposito di
bocche vulcaniche, è da intendere come un tecnicismo), ma per la concentrazione
in particolari occasioni espressive, secondo un criterio di
opportunità che muta dai primi agli ultimi testi. Se all’inizio De Roberto
ricorre alle parole elevate e alle costruzioni latineggianti soprattutto
per un fine, che pare seriamente partecipato, di nobilitazione celebrativa,
poi la nota oratoria si fa sempre meno convinta, e si direbbe che il
giovane cronista stia addestrandosi ad impiegarla (come farà magistralmente
l’autore esperto de I Viceré) negli usi parodici e stilizzanti.
Consideriamo un genere tipico: l’elogio funebre di uomini illustri
e meritevoli di memoria. Muore un Gabriello Carnazza, avvocato catanese,
e De Roberto, nel marzo del 1880, celebra lo «strenuo campione
dell’unità e della indipendenza d’Italia», il «caldo fautore della glo-
30 U n indizio della distanza tra i modi in cui la Serao e De Roberto affrontarono
la questione della lingua sono i differenti schemi a tre termini abbozzati nelle rispettive
interviste per Alla scoperta dei letterati. La Serao rileva (e fa l’esempio di
Napoli) l’esistenza di «tre lingue, una letteraria, aulica, sognata, non reale; una
dialettale viva, chiara, pittorica, sgrammaticata, asintattica; una media che dirò
borghese, che è scritta dai giornali, che ripulisce il dialetto sperdendone la vivacità
e tenta imitare la lingua aulica senza ottenerne la limpidezza» (U. Ojetti, Alla
scoperta dei letterati, cit., pp. 235-236). Dal prosieguo del discorso si capisce che è
alla lingua media e «borghese», piuttosto che alle altre due, che sta pensando
quando vanta il proprio «scriver male» caloroso e vitale. Invece, come abbiamo
visto nella nota 28, nel suo sistema ternario De Roberto pone ai lati la «lingua nobile
aulica» di D’Annunzio e la «lingua comune parlata viva e vivace», utilitaria e
«borghese» (anche lui usa l’aggettivo, e sembra alludere al registro della Serao),
mentre colloca al centro, nella posizione mediana e giusta della lingua a cui l’arte
deve mirare, lo stile che Verga addita coi progressi delle sue opere.
[ 16 ]
la prima formazione di federico de roberto 305
riosa monarchia sabauda», che fu carbonaro, fece il ’48, andò esule per
il mondo, e quando venne «il giorno del riscatto», e «sorse l’alba del
nostro risorgimento», tornò come un Cincinnato «nel suo paese, fra la
sua famiglia, lontano da ogni politica agitazione». Le «maggiori sventure
» le soffrì nel 1837:
In quella memorabile epoca Carnazza fu eletto a far parte di tutte le
Giunte allora costituitesi e lavorò indefessamente, ma soffocato il moto,
si pone la sua testa a prezzo, ed arrestato, da una straordinaria
Commissione militare fu condannato a morte; poi, ottenuta grazia della
vita, a venticinque anni di ferri31.
Nel novembre muore un altro patriota, il senatore Marchese; la volontà
encomiastica non determina questa volta giri latini della frase,
ma si raddensa in scelte lessicali, in prestigiose anticipazioni aggettivali:
le «grandi e spesso incomprese cure della rappresentanza nazionale
», lo «strumento di cittadina virtù e di grandezza nazionale», la
«fede dei giovani anni», l’«ora del risorgimento», le «pastoie della tirannide
»; e poi la «redenzione», la «fede nella libertà», le «invocate
istituzioni», la «voce» che «risuonò», l’«alto consesso» di cui il Marchese
entrò a far parte quando divenne senatore32.
Ma già in un testo del settembre del 1881 le inversioni e gli aulicismi
sono quasi tutti in corsivo, distanziati dalla lingua dell’autore e
posti a documentare satiricamente l’enfasi di un convegno repubblicano:
i «provocatori nemici» di Rapisardi, le «bugiarde franchigie», la
«sfrenata licenza», il «ludibrio» di Saffi, i «rubicondi putti» del «cittadino
» Villari, la «fioca parola», il «trionfo dei fini» di Bovio33. In un pezzo
del novembre troviamo i «rapsodi», il «ramingo Ulisse», le «faci della
desolata Cerere», il «ceruleo Nettuno» che porta l’«estrema ruina»: ed
è ancora un contesto ironico, in cui si paragona la disattenzione dei
moderni al culto mitopoietico che avevano gli antichi del paesaggio
etneo34. Nel settembre del 1882 «alto sonno» è adoperato a indicare il
dormire profondo degli abitanti di piazza Stesicorea, risvegliati da
inopportuni lavori notturni degli operai comunali35. E vediamo invece
come si è parlato nel giugno della morte di Garibaldi, che era venuto
31 Un illustre patriotta (31 marzo 1880), in F. De Roberto, Cronache per il Fanfulla,
cit., pp. 30-31.
32 I funerali del senatore Marchese (29 novembre 1880), ivi, pp. 64-65.
33 Echi dell’Etna (4 settembre 1881), ivi, pp. 90-92.
34 La grotta delle Palombe (1 novembre 1881), ivi, pp. 105-106.
35 Il monumento a Bellini (23 settembre 1882), ivi, p. 145.
[ 17 ]
306 giovanni maffei
da poco in visita a Catania. Per l’eroe De Roberto manifestò sempre
ammirazione, tanto che la sua leggenda risulta appena scalfita anche
nel romanzo spietatamente antieroico che sono I Viceré; eppure in questa
nota giornalistica lo stile ha la meglio sull’eloquenza, e al padre
della patria De Roberto rende l’onore di poche parole asciutte e calibrate
più che di formule risonanti (a parte l’«antica fiamma» che «non
era peranco spenta»):
A Catania, come ovunque, la perdita di Garibaldi è stata fortemente
sentita; tutti ricordavano ancora l’aspetto sofferente del vecchio eroe
inchiodato nella sua seggiola, e il viso austero e gli sguardi la cui antica
fiamma non era peranco spenta, e la promessa fatta ai Catanesi di venire
per qualche giorno fra loro. Ora si pensa con una stretta al cuore
che quegli occhi sono chiusi per sempre, che di quella leggendaria figura
non resta se non il ricordo vivo, palpitante, in tutti gl’Italiani36.
Insomma nelle cronache per il «Fanfulla» – si ha l’impressione – De
Roberto si liberò per gradi del retore che era in lui; ma non alla veste
opposta che spesso assumono questi testi, giornalisticamente dimessa
e colloquiale, dobbiamo guardare per scorgere le premesse della maturità,
bensì al ruolo che ancora qui gioca lo scienziato, il tecnico esperto.
Le pagine migliori sono quelle che esibiscono un’osservazione condotta
con competenza: migliori non perché, senza che De Roberto lo prevedesse,
esse paiano prossime al nostro gusto di lettori postumi, ma
perché, intenzionalmente ed efficacemente, l’autore vi profuse più
estro e più cura, più ricerca espressiva, e vi ottenne una forza visionaria,
una sapienza costruttiva, certe accorte grazie, certi pregi di ritmo,
racconto e movimento: insomma qualità verificabilmente accostabili
ai livelli che vengono comunemente riconosciuti al De Roberto maggiore.
Si potrebbero allineare vari esempi di una scrittura elegante ed
esatta, di decoro manzoniano pur nelle enumerazioni e misurazioni
che l’avvicinano alle memorie scientifiche; una prosa che si libra ben al
di sopra della vivacità a buon mercato del registro medio dei giornali,
senza per questo cercare legittimità nei regni dell’eloquente e del poetico,
ma dove anzi sono insieme, funzionalmente, misura di stile e
competenza agronomica37, o geologica, o geografica38, immagini del
36 È morto Garibaldi (5 giugno 1882), ivi, p. 144.
37 Si vedano le pagine sull’agricoltura praticata sulle pendici dell’Etna in Il
Congresso alpino (Aci) (17 settembre 1880), ivi, pp. 49-50.
38 Si veda il viaggio in ferrovia descritto in Dall’Jonio alla Conca d’Oro (6 novembre
1880), ivi, pp. 58-61.
[ 18 ]
la prima formazione di federico de roberto 307
territorio e della città (col popolo che la abita) informative come una
carta topografica eppure mosse, animate, ‘narrate’ come non erano i
resoconti e i cataloghi del cronista belliniano e del geografo artico39.
Mi limito a un campione dal quale risultano bene, nel loro nesso felice,
le potenze vitali dello scienziato e dell’artista. Si parla di una grotta
che l’azione erosiva delle onde ha fatto crollare:
Scendendo da Acireale per la cosiddetta scalazza, sentiero che serpeggia
in lunghi zig-zag fra i dirupi e sospeso sull’abisso, si arriva in fondo
al precipizio, dove si distende un breve tratto di arene miste a detriti
vulcanici, che costituisce una corta spiaggia praticabile. Qua giù,
addossati al dirupo e specchiandosi sul mare, sorgono numerosi villini
eleganti dai tetti rossastri e povere casupole di pescatori […]. Più in là,
scomparsa la spiaggia, si ergono sul mare delle mura ciclopiche che
sembrano costrutte colla squadra e col compasso, tanta è la regolarità
dei prismi basaltici che appariscono al di fuori come mattoni colossali.
Qui, a guisa di portico appoggiato alla parete perpendicolare, si scavava
la Grotta. I pilastri che sostenevano la volta erano tutti scanalati in
prismi ed in colonne, quali ritte, quali piegate dallo sforzo delle rocce
sovrastanti. All’interno si ripeteva la stessa disposizione: dalla volta
oscura pendevano nere stalattiti elegantissime, aggruppate bizzarramente,
in modo da raffigurare un arco gotico. Le onde irrompevano
con impeto nell’interno della grotta, e ritirandosi, mettevano a nudo
un folto e variopinto tappeto di alghe, di coralline; mentre il vento,
precipitandosi nella cavità, vi produceva un assordante concerto di sibili,
di fischi, di urla. Gli uccelli acquatici, i palummi, sorta di colombe,
facevano il loro nido nelle anfrattuosità delle rocce, ed attiravano i cacciatori
che non si scoraggiavano per le difficoltà dell’aspro cammino40.
Nel novembre del 1881, dovendosi collocare in Catania un osservatorio
«astro-meteoro-vulcanologico», lo si stava costruendo in cima
al palazzo dell’Università. Il sindaco (a doverosa tutela urbanistica,
oggi a tutti parrebbe) ordinò di sospendere i lavori, e fece smontare le
strutture già erette. De Roberto non era d’accordo: fra i suoi argomenti,
l’idea che «uno stabilimento scientifico ha poco da vedere coll’estetica
»41. Nei suoi testi critici e teorici (sempre meno però col procedere
degli anni) insisterà sull’obbligo di tener distinte l’arte e la
scienza. Ma intanto l’«osservazione» scrupolosa sarà per lui un prin-
39 Per il De Roberto commentatore del paesaggio urbano, si veda Archeologia
(27 gennaio 1881), ivi, pp. 75-78; per il descrittore di una folla commossa, Il disastro
di Caltanissetta, sull’esplosione in una miniera (15 novembre 1881), ivi, pp. 108-111.
40 La grotta delle Palombe (1 novembre 1881), ivi, pp. 104-105.
41 L’osservatorio (26 novembre 1881), ivi, pp. 111-112.
[ 19 ]
308 giovanni maffei
cipio irrinunciabile dell’arte, «esatto», «nitido» (come parlando di una
misura o di una lente ben fatta) termini molto adoperati in sede critica,
e l’imitazione fedele della realtà un orizzonte da cui la sua idea della
letteratura non uscirà mai (anche se poi «realtà» fu sempre, per questo
realista, concetto molto problematico). Gli spregiudicati indagatori
delle leggi del mondo (Leopardi, Schopenhauer, Darwin, Taine) e non
i pensatori idealisti saranno i suoi filosofi; e nel canone derobertiano
degli scrittori-modello non troveremo gl’ispirati della creazione poetica,
i suscitatori dei sensi arcani, e nessuno a rappresentare i valori decadenti
del suggestivo, dello sfumato, dell’emotivo, bensì gli autori
con l’occhio attento e col senso acuto del reale, scaltri manipolatori
della natura e dell’arte e perciò ricercatori pazienti e accorti dello stile:
come chimici nei loro gabinetti o tecnici esperti che si approntano da
sé gli strumenti delicati.
6. Anche se De Roberto tende a suggerirlo, non è ovviamente vero
che la cultura siciliana, prima che Verga andasse a scuola, non avesse
da offrire che personaggi come l’Abate e il Castorina. Il «primo maestro
» di Verga, piuttosto, fu espressione mediocre di un tessuto culturale,
di una miscela nutritiva che – aiutando l’ingegno, gli studi, le
aperture internazionali – seppe ben produrre un Michele Amari (che
dell’Abate era di poco più anziano): illuminismo di specie materialistica,
laicismo e anticlericalismo, classicismo libertario e democratico,
fra Alfieri e Foscolo e Leopardi e Niccolini, nonché gl’ingredienti romantici
o romanticamente assunti che fossero compatibili con gli altri
che si sono elencati: un certo Dante, un certo Shakespeare, un certo
Byron… Taluni aspetti dell’indole di Verga – la serietà infusa di scetticismo,
il fastidio delle ubbie spirituali, la percezione lucida dei nessi
materiali della realtà – non si capirebbero senza collegarli al terreno
della cultura siciliana42.
E molto siciliano (anche se era nato a Napoli da padre napoletano)
fu sempre De Roberto, la cui formazione scientifica ce lo fa collocare in
questo spazio di cultura meglio ancora che se avesse fatto studi classici
e si fosse avvicinato alla letteratura senza passare per la matematica
o la geologia. È nota la tesi di Giovanni Gentile, di una Sicilia che non
ebbe o ebbe solo in modo tardivo e pallido la sua rivoluzione romantica,
e rimase settecentesca, materialista e sensista, archeologica e
42 Sempre importante, circa il terreno provinciale dove affondavano le radici
di Verga, Carmelo Musumarra, Vigilia della narrativa verghiana, Catania, Giannotta,
1958 (2ª ed.: 1971).
[ 20 ]
la prima formazione di federico de roberto 309
scientifica fino a tutto l’Ottocento. La tesi è stata discussa e ne sono
state proposte correzioni – e va senz’altro rifiutato il giudizio negativo
che Gentile ne ricavava sulla tradizione culturale siciliana – ma conserva
una sua validità, e c’interessano alcuni fatti e testimonianze che
si riportano nel libro che la contiene43.
Gentile parla molto di Domenico Scinà, «storiografo e professore
di fisica, dotto di lingue e letterature classiche e di scienze», che nel
primo Ottocento scrisse un’Introduzione alla fisica sperimentale e un manuale
di Elementi di fisica generale molto reputati e più volte ristampati,
e poi pubblicò, con uguale fortuna, un libro su Empedocle e un’opera
di mole sulla storia letteraria della Sicilia nel Settecento44. La scienza e
la letteratura in lui andavano benissimo d’accordo; ed è una prima
affinità derobertiana da tenere a mente. Un secondo punto di contatto
ci viene suggerito da una pagina di Scinà riprodotta da Gentile a riprova
dell’empirismo scettico che quello aveva appreso da Hume; pare
che lo scetticismo e il relativismo di De Roberto, e la fatalità, ch’egli
ne deduceva, di punti di riferimento solo probabili per la conoscenza
e per l’azione – ciò che potrebbe far pensare a un’incredulità lesiva dei
fondamenti della scienza – fossero stati la filosofia di uno scienziato
siciliano nato un secolo prima:
Ma chi potrà pretendere ad evidenza, trattandosi di cose, che nel mondo
reale si stanziano? Sono evidenti gli assiomi, perché proposizioni
identiche […], sono capaci di evidenza le matematiche, perché, astratte
e semplicissime, come sono, si lasciano, dirò così, vagheggiare fuori
del nostro mondo, e sopra definizioni da noi poste e tra noi convenute
si riposano. Per lo resto poi, non conoscendosi la natura delle cose, la
nostra scienza si risolve tutta nella testimonianza dei sensi, che non
sanno, né recar possono evidenza. Ma la costanza dei fenomeni osservati,
una successione di fatti simili, ed una ripetizione non interrotta
dei medesimi avvenimenti che sono il fondamento delle nostre cognizioni,
bastano a dar certezza alle verità della filosofia naturale […].
Che se alcuno più fastidioso, in luogo di certezza, volesse dir probabilità,
io glielo concederò benissimo, purché non mi negherà, che con la
medesima probabilità si regolano tutte le cose umane, che una tale
probabilità non ha ingannato giammai, e che la medesima ci muove e
ci governa come se fosse certezza45.
43 Giovanni Gentile, Il tramonto della cultura siciliana, Bologna, Zanichelli,
1919. Mi avvarrò per le citazioni della seconda edizione riveduta e accresciuta, Firenze,
Sansoni, 1963.
44 Ivi, p. 36.
45 Ivi, pp. 41-42. Gentile trascriveva dall’Introduzione alla fisica sperimentale.
[ 21 ]
310 giovanni maffei
Si considerino ora questi aforismi derobertiani, prelevati qua e là
dalla sua opera: «Noi ignoriamo la vera essenza delle cose diverse da
noi, delle quali soltanto le sensazioni ci dànno un’idea; ignoriamo anche
la nostra vera essenza, la vera qualità dei nostri sentimenti, che
definiamo con lo stesso linguaggio delle sensazioni»46; «Quantunque,
teoricamente, tutte le definizioni siano impossibili ed inutili, pure noi
riconosciamo ogni giorno la necessità e la possibilità di definire le cose.
Ammessa la loro infinita varietà e variabilità, la migliore definizione
di ciascuna di esse sarà quella che ne esprimerà i caratteri più generali
e costanti»47; «Tale è veramente la condizione dell’intelletto umano:
che esso, o deve rinunziare a comprendere tutta quanta la verità, o
deve appagarsi di una verità non tutta vera. […] Tutti i nostri giudizii
sono parziali, partigiani, appassionati, monchi; ma chi si spaventasse
di questa necessità dovrebbe continuamente tacere»48. Sia Scinà che
De Roberto – l’uno da teorico sistematico, l’altro per suggestioni da
letterato – mostrano di non voler disarmare la ragione di fronte all’incognita
della realtà, e di continuare ad affidarle la regolazione della
conoscenza possibile. Le sentenze affini dei due siciliani concordano
con l’ipotesi gentiliana di una falda culturale profonda e continua, razionalistica
e materialistica, da cui entrambi poterono trarre alimento.
Scinà – allievo di Rosario Gregorio, che gli comunicò il meglio del
Settecento isolano – fu a sua volta «maestro di quella generazione, alla
quale, insieme con parecchi altri cultori degli studi di erudizione e di
storia, appartenne Michele Amari»49; e dall’Amari (non dal suo rigore
di storico, ma dagli ingredienti classicistici e ghibellini e mazziniani
della sua cultura) non è impervio arrivare a Rapisardi (e siamo alla
generazione di Verga) o anche, per deduzione dall’illuminismo materialistico
amariano, a un materialista confesso come Pipitone-Federico
(e siamo nell’area del naturalismo, e alla generazione di De Roberto).
Questa linea però De Roberto non lo raggiunge bene, remoto com’era
tanto dai furori e dalle fedi del poeta catanese quanto dall’ingenuo
zolismo e progressismo del critico palermitano. L’argomento più saldo
su cui far leva per un’assimilazione del nostro scrittore alla progenie
di Scinà continua ad essere l’affiliazione alla scienza. E torniamo a
Gentile, che riteneva che il fisico umanista fosse fra i primi responsabili
di un clima, determinatosi nell’Ottocento in Sicilia, propizio «agli
46 Federico De Roberto, L’Arte, Torino, Bocca, 1901, p. 86.
47 Id., L’Amore. Fisiologia – Psicologia – Morale, Milano, Galli, 1895, p. 87.
48 Id., Leopardi, Milano, Treves, 1898, pp. 295-296.
49 G. Gentile, Il tramonto della cultura siciliana, cit., p. 36.
[ 22 ]
la prima formazione di federico de roberto 311
studi di patria erudizione come alle tendenze naturalistiche, positivistiche,
scettiche»50, e di una letteratura e di una storia «materialistiche,
a coltivare le quali non muove nessuna coscienza di speciali esigenze
spirituali, all’infuori dell’immanente aspirazione dell’anima umana a
conoscere: quella stessa curiosità profonda che sorregge l’opera del
naturalista. Una letteratura, infatti, e una storia, che nella tradizione
dello Scinà andavano bene congiunte alla matematica, alla fisica e alle
scienze della natura»51.
Ciò che l’idealista Gentile scriveva con intenzione diminutiva circa
l’incuranza della letteratura siciliana dell’Ottocento per le «speciali
esigenze spirituali», e circa la «curiosità profonda» rilevabile nell’opera
degli scrittori siciliani come in quella del «naturalista», De Roberto
l’avrebbe preso come una lode: la sinergia da Gentile supposta, di positivismo
ed empirismo, di erudizione, scienza e arte, difficile da verificare
quando la s’intenda come un connotato così diffuso da caratterizzare
la mentalità di un’intera regione, può valere come una buona
approssimazione alla forma complessiva della cultura di De Roberto.
E si può credere che se gli specialismi intellettuali dello scienziato e
del letterato in lui poterono integrarsi così bene fu perché al tempo
suo, fuori di lui, nel contesto intellettuale d’Italia, e in Sicilia più che
altrove, essi stavano davvero in un rapporto stretto che oggi non si dà.
7. Lo studioso di letteratura sa come gli scrittori del secondo Ottocento
distribuivano (spesso incautamente) in spazi distinti o variamente
comunicanti la scienza e l’arte; meno si pensa a quel che facevano
gli scienziati veri, all’ambito che si ritagliavano nel sistema della
cultura e ai rapporti che presumevano fra le proprie competenze e
quelle delle altre specie intellettuali. Uno sguardo in questa direzione
può riuscire utile, nonostante tutti i rischi di semplificazione che corre
il profano di storia della scienza. Cominciamo dalla situazione nazionale:
Respingete da voi, o giovani, le malevole parole di coloro che a conforto
della propria ignoranza o a sfogo d’irosi pregiudizî vi chiederanno
con ironico sorriso a che giovino questi ed altri studi, e vi parleranno
dell’impotenza pratica di quegli uomini che si consacrano esclusivamente
al progresso di una scienza prediletta. Quand’anche la geometria
non rendesse, come rende, immediati servigi alle arti belle, all’industria,
alla meccanica, all’astronomia, alla fisica: quand’anche un’e-
50 Ivi, p. 77.
51 Ivi, p. 83.
[ 23 ]
312 giovanni maffei
sperienza secolare non ci ammonisse che le più astratte teorie matematiche
sortono in un tempo più o meno vicino applicazioni prima neppur
sospettate […] – ancora io vi direi: questa scienza è degna che voi
l’amiate; tante sono e così sublimi le sue bellezze ch’essa non può non
esercitare sulle generose e intatte anime dei giovani un’alta influenza
educativa, elevandole alla serena e inimitabile poesia della verità!
Sono parole del pavese Luigi Cremona52, che fu matematico di vaglia
e uno dei fondatori della scuola geometrica italiana, fiorita con
qualche rinomanza all’indomani dell’unificazione. Fu anche uomo
politico, e a lui va il merito di aver organizzato l’istruzione scientifica
della nuova Italia, nelle scuole medie e all’Università. Fra le altre cose,
alla fine degli anni Sessanta riuscì a introdurre, per un breve periodo,
lo studio quasi integrale degli Elementi di Euclide nelle scuole classiche:
«La marmorea pulizia, il lucido rigore di tale opera doveva elevare
gli animi dei giovanetti alle gioie della contemplazione, e all’ammirazione
di questo oggetto stupendo e celeste: la matematica»53. Quando
De Roberto formulò l’idea, così aristocratica e parnassiana, che
«l’arte è qualche cosa oltre l’utile» e anzi, «in un certo senso, l’inutile
– il quale, in un altro senso e per altre ragioni, può essere utilissimo»54,
Cremona avrebbe assentito, anche a condizione di sostituire alla parola
«arte» la parola «matematica».
È facile capire che le diffuse e anche molto retoriche connotazioni
‘disinteressate’ della scienza avevano a che fare coi ritardi dello sviluppo
economico italiano, che restringevano, rispetto ad altri paesi, le
possibilità di conversione al concreto delle professioni e delle funzioni
tecniche svolte nell’industria, nell’agricoltura e nel commercio. Questi
ritardi assecondavano il peso predominante, negli ordinamenti dell’istruzione,
dell’educazione letteraria e umanistica, e il pregiudizio di
una sua superiorità rispetto all’educazione scientifica, pregiudizio al
quale molti matematici contribuivano involontariamente, con la loro
ansia di garanzie eteronome: il bello, il buono. In Sicilia, poi, i fattori
che anche altrove inibivano la piena autonomia della scienza è com-
52 Nella sua Prolusione ad un corso di Geometria superiore, Bologna, 1860, «Il Politecnico
», X, 1861, pp. 22-42. Le trascrivo da Massimo Galuzzi, Geometria algebrica
e logica tra Otto e Novecento, in Storia d’Italia. Annali 3. Scienza e tecnica nella cultura e
nella società dal Rinascimento a oggi, a cura di Gianni Micheli, Torino, Einaudi,
1980, pp. 1000-1105, a p. 1038.
53 Luigi Besana, Il concetto e l’ufficio della scienza nella scuola, in Storia d’Italia.
Annali 3, cit., pp. 1165-1284, a p. 1208.
54 F. De Roberto, L’Arte, cit., p. 139.
[ 24 ]
la prima formazione di federico de roberto 313
prensibile che agissero con forza particolare: perché le strutture produttive
erano più arretrate, e perché la cultura scientifica era nell’isola
tradizionalmente intrecciata con quella umanistica, implicata con essa
nei campi prestigiosi dell’erudizione storica, della conservazione archeologica
e demopsicologica, dell’osservazione naturalistica prodotta
per amore geloso dei luoghi e a indiretta rivendicazione del primato
della fisica magnogreca. Altrove si poteva contestare, cremonianamente,
la riduzione della cultura scientifica all’utile e al pratico, il suo
contrapporsi ai valori gratuiti e spirituali della cultura umanistica. Il
confine tra l’alacre, concreto, ‘interessato’ umanesimo siciliano e il disinteresse
di chi faceva matematica in un’isola che dava lavoro a pochissimi
ingegneri doveva apparire ancora più labile. Sicché ci sono
state tramandate parole di uno dei maggiori matematici siciliani (nato
pochi anni dopo De Roberto) che l’autore della Guerra del Vespro e il
Pitré, ad esempio, non avrebbero adoperato per le proprie discipline:
«non illudiamoci: la matematica che noi facciamo, non serve a fini utilitari
[…] – se quello che facciamo non è bello, che gusto c’è a lavorare?
e per me non è bello se non quel che è finito e perfetto»55.
A scuola e all’università De Roberto studiò l’algebra e la geometria
(nelle quali era molto versato) con professori presumibilmente cremoniani
nell’impostazione didattica e nell’amore della teoria bella: quando,
molto dopo aver lasciato i banchi, lesse che Picard e Poincaré assimilavano
all’esperienza estetica le matematiche, e che il visconte
d’Adhemar le inseriva senz’altro fra le arti56, forse ritrovò una cosa che
già sapeva, e che i matematici italiani hanno pensato fino al pieno Novecento.
È del 1937 la pagina di Francesco Severi in cui leggiamo:
Ognuno di noi sa che la conquista piccola o grande di una verità matematica
costituisce un elevato motivo di appagamento estetico e morale.
Il valore sintetico dei concetti, la divina armonia dei loro rapporti,
che l’intuizione rivela per lampi improvvisi, prima ancora che la deduzione
logica li abbia accertati; l’energia anticipatrice delle definizioni,
vere prese di possesso di ciò che è ancora ignoto e nella scelta delle
55 La dichiarazione fu attribuita a Giuseppe Bagnera (nato a Bagheria nel 1865)
dal matematico Francesco Severi, Commemorazione di Giuseppe Bagnera, «Rendiconti
della Regia Accademia Nazionale dei Lincei», s. 6ª, VIII, 1928, p. 17. La riprendo
da Luigi Cardamone, Le scuole matematiche in Sicilia dopo l’Unità, in La Sicilia
e L’unità d’Italia. Atti del Congresso Internazionale di Studi Storici sul Risorgimento
italiano (Palermo, 15-20 aprile 1961), Milano, Feltrinelli, 1962, pp. 981-1005,
a p. 991.
56 Cfr. F. De Roberto, L’Arte, cit., pp. 35-36.
[ 25 ]
314 giovanni maffei
quali l’intelletto sembra guidato dalla mano di Dio; la eleganza di un
nuovo algoritmo ben immaginato o la forza di un nuovo concetto ben
scelto, i quali operano quasi per virtù propria, creature del nostro pensiero,
che, nate appena, di colpo divengono entità distinte dallo spirito
che le ha create, tanto è l’aiuto che con piena autonomia gli porgono,
nell’ulteriore travaglio della scoperta; tutto questo costituisce la ragione
prima della tormentosa gioia che ci incatena al nostro lavoro e che
ce lo fa amare ben al di sopra di qualunque idea di tornaconto o di
qualunque miraggio di pratiche conseguenze57.
Sembra una metafora della creazione letteraria: il matematico che
vi si tratteggia ha molto dello scrittore «posseduto», come diceva De
Sanctis, dal proprio fantasma, o di quello, come si sentiva Flaubert,
«incatenato» alla «tormentosa gioia» del travaglio stilistico. E anzi
quest’immagine – dello scienziato che ‘si dimentica’ nel suo laboratorio,
e ha lasciato fuori la realtà, ma solo per ritrovarne poi, nel chiuso
e nella concentrazione, la struttura profonda, la legge razionale – è
quella che meglio riassume il senso che De Roberto ebbe sempre del
fare letteratura. Lo stile in luogo delle misure, dei microscopi, dei reagenti,
delle bilance, e dei segni di cui si avvalgono il geometra e l’algebrista:
ma un uguale affidarsi alle prove meticolose, ai tentativi e alle
combinazioni da cui può scaturire la luce, all’ostinata euristica dell’immaginazione,
alla «tormentosa gioia». Lo stile, la lingua – per ricondurci
a quel che se n’è detto – non furono per De Roberto questione di
norme e modelli, ma proprio questa scienza, quest’esperienza sempre
aperta, vitale e avventurosa della ‘verità’. Scrisse a Di Giorgi:
I francesismi, i neologismi e se occorre anche i solecismi non mi spaventano;
ma bisogna che la frase sia ricca e sonora: non bisogna lasciar
correre i periodi fiacchi, le ripetizioni fastidiose che ci escono dalla
penna nella foga dell’improvvisazione: bisogna impastare le parole come
i pittori impastano i colori, fin quando si trova il tono conveniente.
[…] Ecco qua: tutto questo che tu stai leggendo, io lo scrivo a poco per
volta, interrompendomi, pensando, cancellando, ricopiando. Nessuno
può guardare nel cervello d’un altro, niente si fa di getto: dunque, se è
sempre necessario manipolare un poco la materia prima, il nostro dovere
è di manipolarla molto. Certe volte, scrivendo, mi accorgo che lo
studio dell’espressione mi allontana dalla cosa da esprimere, mi fa tra-
57 Francesco Severi, Scienza pura e applicazioni della scienza. Conferenza inaugurale,
in Atti del I Convegno dell’Unione dei matematici italiani, 1937, Bologna,
1938, p. 16. Cito da M. Galuzzi, Geometria algebrica e logica fra Otto e Novecento, cit.,
p. 1079.
[ 26 ]
la prima formazione di federico de roberto 315
dire il primitivo concetto, mi falsa l’idea da cui sono partito; e mi pare
di non essere più schietto e sincero; ma poi penso: dove sta di casa la
sincerità?58
L’interrogativa che conclude non è indizio di una sfiducia nelle facoltà
conoscitive dell’arte: significa invece che anche lo scrittore – come
il matematico per Severi – non cerca ma trova, e allontanandosi
dalla «cosa da esprimere», dal «primitivo concetto», attraverso e anzi
nello stile può incontrare la cosa autentica, la sua verità necessaria.
In Scienza ed Arte, il più teoricamente ambizioso fra i saggi raccolti
in Arabeschi, il giovane De Roberto, da poco convertito alla letteratura,
praticò un taglio netto che sembra un programma: «Il positivo è che
l’opera dell’artista è essenzialmente dissimile da quella dello scienziato;
che i mezzi di cui l’uno dispone sono interdetti all’altro, e reciprocamente,
per dirlo come in matematica».59 Ma nelle stesse pagine –
non soltanto nella similitudine matematica appena trascritta – lo scrittore
principiante tradiva il debito contratto con l’abito della scienza.
L’orgoglio della «manipolazione» paziente più tardi partecipato a Di
Giorgi, il perfezionismo che porterà come una croce ed esibirà come
una virtù, l’ammirazione che manifesterà sempre per il «metodo di
precisione scrupolosa» di Flaubert e per la «forma esatta» e il «fino
lavoro» di Baudelaire, hanno un presagio preciso in quest’elogio delle
doti dello scienziato:
Ha notizia il signor Zola dei molteplici e complicati problemi che si
impongono allo studio degli scienziati, formano la loro preoccupazione
e li inducono a continue, lunghe, pazienti, meticolose indagini,
senz’altro scopo che di risolvere un dubbio, di accertare un fatto la cui
importanza sfugge spesso agli occhi dei più competenti?60
Giovanni Maffei
Università Federico II – Napoli
58 A. Navarria, Federico De Roberto, cit., pp. 263-264 (da Catania, il 7 marzo
1891).
59 F. De Roberto, Arabeschi, cit., p. 59.
60 Ivi, p. 55. I meriti che ho chiuso fra virgolette furono riconosciuti da De Roberto
a Baudelaire e a Flaubert in due articoli sul «Fanfulla della Domenica»: Poeti
francesi contemporanei. Carlo Baudelaire, nel numero del 22 aprile 1888; Gustavo Flaubert.
L’Opera, in quello del 13 aprile 1890.
[ 27 ]

ALESSANDRO BALDACCI
Giorgio Bassani e la “ricerca del dolore”
L’articolo è dedicato alla ricezione della poetica Reiner Maria Rilke nella fase
iniziale dell’opera di Bassani. L’analisi si sofferma in particolare sulle caratteristiche
della lettura bassaniana delle Lettere a un giovane poeta e delle Elegie duinesi,
sottolineando come lo scrittore ferrarese si muova fra gli influssi dell’ambiente
ermetico (da Vincenzo Errante a Leone Traverso e Mario Luzi) e l’impegno
civile e politico dell’antifascismo, a partire dall’incontro con Giuseppe
Dessì e Claudio Varese.

This article is devoted to Giorgio Bassani’s reading of Rainer Maria Rilke during
the early phase of his writing. In particular, the analysis dwells on the characteristics
of Bassani’s reading of Letters to a Young Poet and Duino Elegies, highlighting
how the writer from Ferrara both came under the influence of Hermetic
circles (from Vincenzo Errante to Leone Traverso and Mario Luzi) and
pursued the civic and political engagement of Antifascism, thanks to his meeting
with Giuseppe Dessì and Claudio Varese.
L’esperienza della solitudine, una solitudine in tensione fra lo spazio
dell’interieur e le violenze della storia, rappresenta uno dei tratti
dominanti dell’intera opera bassaniana, specchio di una frattura, di
tipo lirico, fra io e mondo, cui l’autore si richiama, in Dietro la porta,
sottolineando il proprio “destino di separazione”. Nei racconti che il
giovane Bassani inizia a pubblicare sul «Corriere padano», su «Termini
» e su «Letteratura», prende avvio la sofferta indagine di una soggettività
aggredita dagli eventi esterni, con una, a tratti quasi morbosa,
vena introspettiva, una inquieta sensibilità sempre prossima ad
esser ferita, frustrata o turbata. Nelle sue primissime prove poetiche
pubblicate nel 1936 il giovane Bassani appare già serrato in se stesso,
in bilico fra fantasie funebri e crepuscolari, intento a intrecciare, con
gesto letterario, eros e thanatos: «quando dagli astri / scenderai sul
Autore : Università di Varsavia, ricercatore; baldacci_alessandro@yahoo.it
318 alessandro baldacci
mio passo /risaprò le tue dita amorose, e il sapore / del tuo silente
riso / o morte»1.
Nei suoi esordi, durante gli anni Trenta, la prosa di Bassani fa spesso
ricorso alla prima persona con una scrittura dalla marcata tensione
lirica, oscillando fra memoria biografica e atmosfere malinconiche o
marcatamente scosse da un profondo senso di angoscia. Questi racconti
giovanili mostrano a tratti modalità e ossessioni prossime ai
rilkiani Quaderni di Malte Laurids Brigge, tradotti per la prima volta in
Italia da Vincenzo Errante nel 1929. Ma in generale il “naufragio
nell’inquietudine” del Malte, lo sprofondarsi dell’io in una esperienza
quasi fobica, l’identità chiamata a specchiarsi negli abissi dell’estraneità,
e l’impossibilità di transitare nel reale o di godere di una esperienza
piena e appagante, paiono depositarsi al fondo della poetica
bassaniana. Rilke inizia qui un vero e proprio «tirocinio dell’esilio»,
scoprendo «l’angoscia dell’estraneità opprimente, quando si perdono
tutte le sicurezze protettrici e crolla di colpo l’idea di una natura umana,
di un mondo umano in cui si possa trovare riparo»2. In questa
“ricerca del dolore” l’opera bassaniana potrà trovare significativi punti
di prossimità, se non di vera e propria convergenza. C’è infatti, nel
Malte, una implosione dell’interiorità e una ferita permanente che riconduce
all’infanzia: come in una famosa pagina del testo dove, in
pochissime righe, la parola Angst, ritorna più di dieci volte, in un crescendo
sempre più opprimente, divenendo il centro (deflagrante)
dell’esperienza del soggetto, per concludersi con la frase: «Ho supplicato
di poter risuscitare la mia infanzia. E l’infanzia è tornata. E sento
che essa è pur sempre terribile, come allora: che a nulla mi è giovato
invecchiare»3. Quanto è prossimo al passo appena citato, pur spostandoci
dall’infanzia verso l’adolescenza, il drammatico incipit di Dietro
la porta in cui l’io narrante affermava:«Gli anni trascorsi da allora non
sono in fondo serviti a niente: non sono riusciti a medicare un dolore
che è rimasto come una ferita segreta, sanguinante in segreto. Guarirne?
Liberarmene? Non penso che sarà mai possibile»4. Ma potremmo
1 Giorgio Bassani, Poesia, «Corriere padano», 7 novembre 1936, ora anche in
Rita Castaldi, Scritti su Bassani. Articoli, testimonianze e interviste tra letteratura
e cinema, a cura di Maurizio Villani, con la collaborazione di Antonietta Molinari,
Bologna, Diogene, 2016, p. 82.
2 Maurice Blanchot, Lo spazio letterario, Torino, Einaudi, 1975, pp. 102-103.
3 Reiner Maria Rilke, I quaderni di Malte Laurids Brigge, Milano, Alpes, 1929,
p. 55.
4 G. Bassani, Opere, a cura di Roberto Cotroneo, Milano, Mondadori, 1998,
p. 581.
[ 2 ]
giorgio bassani e la “ricerca del dolore” 319
anche spingerci, con maggior azzardo, sino al protagonista dell’Airone,
alla sua impossibilità di vivere in un mondo in cui ogni contatto
con la realtà pietrifica e terrorizza, tanto che l’integrità del sé è una
trama agonizzante, che vede l’«immagine di se stesso […] sempre in
procinto di dissolversi»5.
Immediatamente marcato e braccato da una “ansia atroce”, separato
da un presente che ha la forma di un evento impenetrabile, perturbante
e sempre troppo lontano, l’io narrante bassaniano parte da una
inquietudine in cui ricerca di sé e apprendistato letterario convergono.
In Una città di pianura la paura di fronte alla realtà determina la «stanchezza
dell’anima povera, sconsolata, battuta […] smarrita nella solitudine
della vita»6. A prevalere è qui una malinconia letterariamente
esasperata, un registro estremamente ricettivo verso soluzioni liricopatetiche,
una umanità «angosciosamente muta»7, in cui ogni relazione
è incisa in un solco di ostinata e desolata incompiutezza.
Una rapida scorsa al primo libro di poesie di Bassani, Storie dei poveri
amanti, basta per trovare ulteriori conferme, a partire dal precoce esilio
dell’io fuori da una realtà che non può essere posseduta, che si mostra
al soggetto ma non gli si offre, esasperando il senso di separazione,
serrando in un labirinto elegiaco-luttuoso la fantasia dello scrittore. La
poesia di apertura ci immette subito dentro atmosfere scosse da un senso
di acuto distacco, di perdita definitiva, mentre il ricordo viene fissato
tramite la lente del congedo. È qui forse reperibile anche una allusione
a Kore così come al percorso ctonio di Orfeo per recuperare Euridice,
con l’esito ferocemente delusivo del rilkiano Orpheus Eurydike Hermes,
tradotto per la prima volta in Italia già nel 1926 sulla rivista «Baretti
» (e ritradotto da Pintor nel 1940 su «Letteratura»). Scrive Bassani:
Lascia ch’io ti ricordi
Se ritarda l’inverno
Se ancora mi rimordi
Se mi tiene il tuo inferno.
[…] Ma tu calma fermenti
Pigra e opaca dal cuore.
Sei muta come un fiore.
Non odi, non rammenti8.
5 Ivi, p. 800.
6 Ivi, p. 1578.
7 Ivi, p. 1553.
8 Ivi, p. 1357.
[ 3 ]
320 alessandro baldacci
In questi versi siamo già all’interno di quel viaggio agli inferi cui
Bassani demanda il compito della vera poesia, e del poeta come psicopompo.
Verrebbe inoltre da aggiungere, citando Blanchot, che l’Orfeo
bassaniano, seppur in mondo inconscio,
non vuole Euridice nella sua verità diurna e nel suo assenso quotidiano,
ma la vuole nella sua oscurità notturna, nella sua lontananza, col
corpo chiuso e suggellato; la vuole vedere non in quanto è visibile, ma
in quanto è invisibile, non come l’intimità di una vita familiare, ma
come l’estraneità di ciò che esclude ogni intimità, non farla vivere, ma
avere vivente in essa la pienezza della morte. Orfeo è venuto agli inferi
per cercare solo questo9.
Potremmo dunque dire che per Bassani Euridice deve, necessariamente,
essere perduta. Non a caso l’autore stesso ragionando intorno
al significato più profondo del Giardino dei Finzi-Contini affermava: «in
Micol il protagonista avrebbe potuto raggiungere la vita […] avrebbe
però rinunciato ad essere un artista», poiché artista, o meglio poeta, è
colui che comunica la «nostalgia della vita», il «rapporto dialettico disperato
[…] tra la morte e la vita»10. Da questo punto di vista ci troviamo
all’interno di una declinazione della vocazione poetica non troppo
distante da quella che sostiene, fra fuggevolezza e assoluto, l’intera
opera rilkiana ed in particolare il disegno delle Elegie duinesi. Anche il
Romanzo di Ferrara sviluppa, con continue variazioni quasi musicali, il
tema della solitudine, tanto che si è opportunamente parlato di un rimando
al teatro cecoviano inteso secondo la formula szondiana della
“lirica della solitudine”11. E nel Bassani estremo di Epitaffio e di In gran
segreto si registrerà una ulteriore drammatizzazione della tematica, sino
alla implosione/esplosione dell’io lirico, alla rappresentazione di
una soggettività borghese tutta in perdita, e in negativo, che denuncia
la «crisi dell’esperienza e la distruzione dell’interieur»12.
Il senso di solitudine e separazione che domina la scrittura di Bassani
affonda le sue radici al di là delle leggi razziali e della Shoah, radicato,
per dirla con Montefoschi, «in un vero e proprio abisso della
9 M. Blanchot, Lo spazio letterario, cit., p. 122.
10 Così risponde Bassani nell’intervista dal titolo “Meritare” il tempo, contenuta
in Anna Dolfi, Giorgio Bassani: una scrittura della malinconia, Roma, Bulzoni, 2003,
p. 174.
11 Cfr. Luca Lenzni, Interazioni: tra poesia e romanzo: Gozzano, Giudici, Sereni,
Bassani, Bertolucci, Trento, Temi, 1998.
12 L. Lenzni, Interazioni: tra poesia e romanzo: Gozzano, Giudici, Sereni, Bassani,
Bertolucci, cit., p. 180.
[ 4 ]
giorgio bassani e la “ricerca del dolore” 321
psicologia umana, nella primordiale mai definitivamente accettata
separazione dal Tutto»13. Per cercare di indagare più in profondità le
implicazioni di questa solitudine può esser utile guardare alle dinamiche
della ricezione rilkiana nell’opera di Bassani. Il nome di Rilke appare
molto sporadicamente nella critica bassaniana. Due importanti
eccezioni sono rappresentate da Anna Dolfi, a cui si deve l’intuizione
di aver rilevato le dinamiche, nelle poesie del primo Bassani, di un
mondo «rilkianamente sfocato dei messaggi interrotti nel silenzio di
un esistere comunque in terra lontano»14, e da Paolo Vanelli, che, a sua
volta, ha scritto, sempre a proposito della formazione letteraria di Bassani:
«gli autori più amati saranno Rilke, il poeta dell’angoscia, della
solitudine, della morte e dell’aspirazione alla trascendenza (tutti temi
che poi caratterizzeranno i futuri grandi personaggi bassaniani) e il
Montale del male di vivere»15.
È certo una storia fra le più fertili da un punto di vista culturale e
letterario quella della ricezione italiana di Rilke a partire dalla seconda
metà degli anni Venti, con una penetrazione ed un influsso rilevantissimo
fra gli anni Trenta e gli anni Quaranta16: quelli appunto della
maturazione da un lato letteraria e dall’altro politica di Giorgio Bassani.
Tra il 1929 e il 1930 abbiamo la pubblicazione presso l’editore Alpes,
a cura di Vincenzo Errante, di quattro volumi dedicati a Rilke: il
primo offre una scelta di liriche del poeta praghese, in cui si va dalle
poesie giovanili alle Nuove poesie con l’esclusione delle Elegie duinesi e
dei Sonetti a Orfeo, la seconda opera, come già accennato, è la traduzione
dei Quaderni di Malte Laurids Brigge, quindi Le storie del buon dio, e
infine una monografia dello stesso Errante dal titolo Rilke. Storia di
un’anima e di una poesia. Il Rilke di Errante è inserito in una temperie
tardo-decadente, riletto in dialogo con Leopardi, Pascoli, D’Annunzio,
Shelley e Baudelaire.
Nel 1937 è Leone Traverso il protagonista della diffusione dell’opera
rilkiana in Italia: a lui dobbiamo la traduzione dalle Elegie duinesi,
tralasciate, non a caso, da Errante. Il libro, pubblicato da Parenti, viene
anticipato su «Letteratura» dove appare la traduzione della prima ele-
13 Giorgio Montefoschi, Bassani, la rivincita contro i moralisti, «Il Corriere della
Sera», 25 aprile 2005, p. 22.
14 A. Dolfi, Giorgio Bassani: una scrittura della malinconia, cit., p. 50.
15 Paolo Vanelli, Le icone del testo: saggi sulla narrativa contemporanea, Marietti,
Genova, 2006, p. 80.
16 Si veda a tale proposito Rilke. Un’inchiesta storica. Testimonianze da Anceschi a
Zanzotto, a cura di Giuseppe Bevilacqua, Roma, Bulzoni, 2006.
[ 5 ]
322 alessandro baldacci
gia. Nel 1938 vengono pubblicati i Sonetti a Orfeo, e nel 1944 abbiamo
la prima traduzione integrale delle Lettere a un giovane poeta, nella versione
di Guglielmo degli Ubertis, ma già nel 1939 erano state parzialmente
anticipate, grazie a Traverso, su «Circoli», che aveva tradotto
una delle lettere più importanti, quella datata 12 agosto 1904, che sulla
rivista aveva assunto il titolo Solitudine come misura: un testo di
enorme impatto non solo all’interno dell’ambiente ermetico, ma
nell’intero mondo letterario e culturale italiano, percepito come una
sorta di testo sacro. Inoltre Traverso su «Corrente», sempre a proposito
del tema della solitudine, lo stesso anno aveva tradotto dalle Lettere
a una giovane signora la missiva del 2 agosto 1919, in cui si poteva leggere:
«Si danno, lo so, momenti della vita, anni forse, in cui la solitudine
fra i propri simili raggiunge un grado, che non si sarebbe ammesso,
a sentirlo nominare in tempi di involontaria, corrente, socievolezza»17.
Passo questo che può aver trovato in Bassani un lettore costretto dalla
storia ad una bruciante, traumatica intimità con le parole appena riportate.
Infine a partire dal 1938 sino ai primi anni Quaranta diventeranno
fondamentali le traduzioni di Giaime Pintor (verso le quali sarà
significativa ed esplicita la predilezione di Franco Fortini), con il suo
Rilke contrapposto agli orrori della Germania hitleriana, messo al servizio
di una letteratura umanistica e impegnata.
In definitiva la stagione d’oro della ricezione rilkiana nella letteratura
e nella cultura italiana avviene fra gli anni Trenta e gli anni Quaranta,
determinando la formazione di poeti fra loro molto diversi come
Luzi, Caproni, Zanzotto, Sereni, Fortini. Chi cercasse però nella
biblioteca bassaniana conferme o testimonianze di una significativa
attenzione del nostro autore verso Rilke resterebbe, inizialmente,
estremamente deluso: vi troverebbe infatti la presenza di una sola
opera, e non certo decisiva, come Le poesie ultime, a cura di Leone Traverso,
del 1946 (ma in realtà, come si vedrà nelle prossime pagine, almeno
un’altra opera rilkiana, e di primissimo rilievo, ha fatto in passato
parte della biblioteca bassaniana).
In tutta l’opera pubblicata da Bassani esiste poi un solo esplicito riferimento
a Rilke, all’interno della raccolta di saggi Di là dal cuore. Il
saggio dal titolo I libri di Giulio Petroni del 1955. Affrontando il testo di
Petroni Lettere da Santa Margherita, storia di due amanti, Alfa e Renato,
Bassani, nella fuga romantica di Renato verso il paesaggio ligure, sostiene
che«non è tanto da vedere un pretesto decorativo quanto piuttosto la
17 R. M. Rilke, A una giovane signora, «Corrente», II (1939), n. 19, p. 3.
[ 6 ]
giorgio bassani e la “ricerca del dolore” 323
ricerca del dolore, della rilkiana “solitudine come misura”»18. Specificando
poi:«[r]icordo bene in che modo vennero lette da molti di noi in
quegli anni dal 1935 al 1940 le Lettere a un giovane poeta di Rilke tradotte
da Leone Traverso e le poche pagine di Kindheit des Herzen di Podbielski,
tradotte da Giaime Pintor»19. Dopo di che Bassani afferma: «Fuggendo
da Alfa, andando incontro alla solitudine e alla morte […]anche il Renato
di Petroni si rivolta»20. Solitudine dunque come paradossale protesta,
opposizione, estrema resistenza: non vizio ma virtù: addirittura rivolta,
ovviamente allo stesso tempo esistenziale e storica. È dunque un Rilke,
questo, a metà degli anni Cinquanta, che Bassani rivendica per introdurci
Petroni, il quale, negli anni Trenta, pubblica su «Letteratura» e che
condivide il clima intellettuale di particolare ricettività verso l’autore
delle Lettere a un giovane poeta, un Petroni che passa dalle Giubbe Rosse
alla prigione e alle torture di Via Tasso (si pensi alla sua importantissima
testimonianza contenuta in Il mondo è una prigione del 1949). È un
Rilke questo dunque la cui “ricerca del dolore” procede dal rovello esistenziale
all’orrore dei fatti, un Rilke, per rifarci al felice titolo di un libro
di Alessandro Rovatti, da collocare fra “Micol e il partito d’Azione”.
Nella lettera tradotta da Traverso Rilke affermava che la solitudine
«è cosa che non sia dato scegliere o lasciare. Ci si può ingannare su
questo e fare come se non fosse così. É tutto. Ma quanto meglio è comprendere
che noi lo siamo, soli, e anzi muovere di lì»21. Si presenta qui
il dramma di una solitudine che poteva esser riletta, nell’Italia fra il
1939 e il 1943, sotto il segno di un esilio interno alla dittatura fascista,
e magari tradursi anche in presa di coscienza, in punto di partenza per
opporsi al regime, determinando spinte ed implicazioni lontane da
una fruizione meramente letteraria.
Il passaggio attraverso Rilke è stato decisivo per tutto l’ermetismo
e la terza generazione. Interessante in questa ottica risulta l’attenzione
subito manifestata da Bassani verso il Luzi di Avvento notturno, il suo
libro più rilkiano. Avvento notturno esce nel 1940 e lo stesso anno Bassani
lo acquista, offrendolo a se stesso, in un suggestivo gioco di sdoppiamento.
Il libro risulta infatti “donato” da: «Giorgio Bassani a Giacomo
Marchi, con stima e affetto/ Bologna 18 febbraio 1940»22. Ironica
18 G. Bassani, Opere, cit., p. 1124.
19 Ivi, p. 1125.
20 Ibidem.
21 R. M. Rilke, Solitudine come misura, «Corrente», II(1939), n. 8, p. 3.
22 Cfr. Micaela Rinaldi, Le biblioteche di Giorgio Bassani, Milano, Guerini Associati,
2004, p. 439.
[ 7 ]
324 alessandro baldacci
dichiarazione di poetica fra “affinità elettiva” e corto circuito dell’identità.
Nel libro di Luzi ritroviamo accanto al “romanticismo funebre”
di Novalis un profondo dialogo con il Rilke dei Sonetti a Orfeo e
delle Elegie duinesi. I componimenti sono uniti da una melodiosa angoscia,
mentre l’io lirico rincorre, in un «mutevole averno», le “tristi
epifanie” di fanciulle ctonie, accostando Kore, Euridice e Aretusa. Il
Rilke di Bassani però, come già accennato, oltre a passare e dialogare
con la koinè ermetica presenta, e in modo non secondario, una natura
e una dinamica differente e in parte divergente, per comprendere la
quale è opportuno approfondire l’ambiente a lui più prossimo fra la
seconda metà degli anni Trenta e i primi anni Quaranta.
Tra il 1937 e il 1943 sappiamo che per Bassani è di vitale importanza
l’impegno politico, l’attività clandestina come via di fuga dalla discriminazione.
Si apre in questo contesto la possibilità di una lettura di
Rilke aperta verso esigenze schiettamente morali, ideali, spirituali, volte
a recuperare la dignità umana. Pensiamo all’incontro con Aldo Capitini,
profondamente segnato dalle Lettere a un giovane poeta così come
dalle Storie del buon Dio: il suo è quindi un Rilke riletto in chiave spiritual-
pedagogica e intrecciato con Budda, Francesco d’Assisi e Tolstoj.
Grazie ad Aldo Capitini Bassani conoscerà anche, personalmente, Guido
Calogero, del quale legge, con grande attenzione, confermata dalle
copiose sottolineature, La scuola dell’uomo (libro uscito nel 1939) alla
ricerca di una bussola morale di fronte alle crisi dell’Europa e dell’uomo
sfociata nelle persecuzioni razziali della seconda guerra mondiale.
Ed in questo contesto appare, significativamente, il nome di Rilke. Bassani
lo segna sulla sua copia del libro di Calogero in corrispondenza
del passo in cui si afferma che al di là del supremo valore della ragione
«c’è in noi l’oscuro flusso del sangue»23, lo stesso che «sta all’origine
del carattere enigmatico di molti personaggi»24 dell’opera bassaniana.
In quegli anni avviene anche l’incontro con i sardo-pisani Varese e
Dessì, verso i quali Bassani si riconoscerà debitore «di una esperienza
morale, di una rivelazione nella via dello spirito»25 tanto da aggiunge-
23 L’annotazione bassaniana è riportata in Giorgio Bassani: il giardino dei libri, a
cura di Annamaria Andreoli, Franca Lorusso De Leo, Roma, De Luca 2004, p. 21.
24 Stefano Guerriero, La fedeltà di Giorgio Bassani alla storia nella rappresentazione
della comunità ebraica ferrarese sotto il fascismo, in Narrare la storia: dal documento
al racconto, a cura di Fondazione Maria e Goffredo Bellona, Accademia Nazionale
Virgiliana, introd. di Tullio De Mauro, postf. di Nadia Fusini, Milano,
Mondadori, 2006, p. 365.
25 G. Bassani, Intervento, in La cultura ferrarese fra le due guerre mondiali. Dalla
[ 8 ]
giorgio bassani e la “ricerca del dolore” 325
re: «non mi sarebbe stato possibile diventare antifascista senza di loro,
per uno come me che ha avuto la rivelazione dell’antifascismo come
scelta essenzialmente morale»26. Rilke rappresenta nella formazione
di Dessì una lettura decisiva. Lo aveva scoperto pochi anni prima grazie
a Delio Cantimori che allo scopo di svecchiare il suo carduccianesimo
gli aveva donato L’estetica in nuce di Croce e due libri di Rilke: Le
liriche e I quaderni di Malte, dell’edizione Alpes, tradotti da Errante.
Analogo interesse per Rilke caratterizza Varese. Nello scambio epistolare
fra i due, in risposta all’invio di alcuni racconti da parte di Dessì,
nel 1931, Varese risponde all’amico «Caro Dessì, ho ricevuto le tue
lettere, ho letto le tue cose: bene, cioè meglio. Mi pare che la cosa più
buona sia quella in cui si risente e felicemente, del Rilke»27, e ancora,
diversi anni dopo: «trovo in te una forza romantica che solleva la materia,
diciamo così, decadente, come in Rilke, in Thomas Mann, in
Proust»28. É dunque questo il contesto in cui i due amici collocano il
poeta praghese, come baluardo di una Europa dell’anima e della ragione,
illuminata e libera. Per Dessì la lettura di Rilke ha, come detto,
una importanza enorme (e anticipa la successiva scoperta di Proust),
ma non è scevra da perplessità e distinguo: come emerge dalla lettura
dei Diari in cui troviamo affermazioni quali: «Bisogna guardarsi anche
dal decadentismo estetizzante di Rainer Maria Rilke»29.
È possibile che sia proprio grazie e per il tramite di Varese e Dessì
che Bassani giunga ad approfondire, nella seconda metà degli anni
Trenta, l’opera di Rilke, e che dunque il suo sia, in partenza, il Rilke di
Errante, delle liriche e del Malte. Si pensi in particolare all’ossessione
di morte che segna i componimenti scelti da Errante e presentati con
uno stile irto, reticente, con un linguaggio di “consuetudine ermetica”.
Ma anche a proposito delle Elegie duinesi, i nomi di Bassani e Dessì
si intrecciano. Nella biblioteca di Dessì è infatti presente un’edizione
delle Elegie duinesi di Rainer Maria Rilke del 1937, appartenuta proprio
a Giorgio Bassani.30
Scuola Metafisica a «Ossessione», a cura di Walter Moretti, Bologna, Capelli, 1980,
p. 214.
26 Ibidem.
27 Giuseppe Dessì, Claudio Varese, Lettere 1931-1977, a cura di Marzia Stedile,
Roma, Bulzoni, 2002, p. 37.
28 Ivi, p. 275.
29 G. Dessì, Diari 1949-1951, a cura di Franca Linari, Firenze, Firenze University
Press, 2009, p. 98.
30 Cfr. Giuseppe Dessì: bibliografia e letteratura, a cura di Sabinio Caronia, Cosenza,
Periferia, 2008, p. 21.
[ 9 ]
326 alessandro baldacci
Di questo libro Bassani e la futura moglie Valeria parlano in uno
scambio epistolare del luglio 1943. In uno dei momenti più drammatici
della vita di Bassani, nel periodo del suo imprigionamento, viene
ribadita l’attualità della poesia rilkiana. Bassani è inoltre timoroso che
Le elegie duinesi, opera così ardita e complessa, possano non risultare
gradite alla sua compagna, tanto che quest’ultima si vede costretta a
ribattere:
Ma perché non credi che Rilke mi sia piaciuto? […] Non siamo più
all’epoca di Ferrara, quando in quel famoso Novembre dedicavi il tuo
libro “alla signorina Valeria Sinigallia, e mi portavi altri, di scrittori
nuovi per me, difficili e spesso barbosi (parlo di allora) […] Allora non
avevo ancora trascorso questi due anni e più insieme a te; ora Rilke
può anche piacermi, non ti pare? L’introduzione alle Elegie l’ho letta
come prima cosa e mi ha aiutato molto31.
L’introduzione di cui si parla è ovviamente quella di Traverso. Una
introduzione, la sua, che, come vedremo, risulterà estremamente congeniale
per la poetica dello stesso Bassani. Nelle Elegie tradotte da Traverso
Bassani ritrova la celebrazione del legame fra amore e distacco.
Nelle amanti abbandonate delle Elegie duinesi l’abbraccio, aspirazione
ad essere accolti e fusi con l’altro e con la vita in modo pieno, in realtà,
«il vuoto scaglia negli spazi che noi respiriamo»32. Una possibile variazione
di questo dramma, appunto, dei “poveri amanti”, la ritroviamo,
opportunamente trasformata e fatta propria, nella Storia di Debora e
nelle poesie ad essa connesse nel libro del 1946. Nella lettura esistenzialista,
orfico-ermetica di Traverso si focalizza inoltre il «disagio irrimediabile
» per cui«l’uomo si sente estraneo nel mondo in cui vive e di
fronte ai suoi simili»33.É in questione una radicale domanda di senso,
un paradossale tentativo, attraverso “l’insistenza della disperazione”
di andare oltre lo sconforto. Bassani cala questo terribile sforzo «di
salvare la vita in sé, in qualunque forma e in qualunque condizione si
attui»34, nel profondo della sua maturazione etico-civile fra il 1939 e il
1945 e al centro della sua intera opera letteraria e intellettuale. E al
contempo nelle Elegie duinesi trova la denuncia di una ferita insanabile,
originaria, secondo la quale, per rifarci ancora alle parole di Traver-
31 La lettera è riportata in appendice al volume di Paola Frandini, Giorgio
Bassani e il fantasma di Ferrara, Lecce, Manni, 2004.
32 R . M. Rilke, Le elegie duinesi, Milano, Parenti, 1937, p. 55.
33 Leone Traverso, Prefazione in R. M. Rilke, Le elegie duinesi, cit., p. 14.
34 Ivi, p. 23.
[ 10 ]
giorgio bassani e la “ricerca del dolore” 327
so, «la perfetta felicità è […] in quell’originario indifferenziato che
precede la nascita; ché il grembo è tutto. Colla separazione invece nasce
il senso della diversità, del contrasto e della nostalgia insanabile
della patria perduta»35. Nasce da qui allora «l’inquietudine dell’uomo
e il vano sforzo di imporre al mondo, in cui si ritrova estraneo, un suo
ordine. Ma il suo sguardo è fatalmente sempre rivolto all’indietro,
verso ciò che è morto, di cui non sa comprendere né accettare la
scomparsa»36.
Come scrive lo stesso Rilke: «ci resta il cammino di ieri / e la fedeltà
viziata di un’abitudine, / che presso di noi si compiacque e non se
n’è andata – e rimase»37. Sono passi questi che esprimono una marcata
prossimità rispetto alla poetica bassaniana, come conferma il racconto
Caduta dell’amicizia, del luglio 1937, assai prossimo all’uscita delle Elegie
rilkiane, dove la piaga elegiaco-luttuosa porta l’io narrante ad affermare:
«Camminavo con la testa volta al cammino percorso»38, prima
apparizione di uno sguardo che nel Giardino dei Finzi-Contini ribadirà,
in modo ancor più netto, e ancor più prossimo alle parole appena
riportate dal Rilke di Traverso: «Era il “nostro” vizio, questo: d’andare
avanti con le teste sempre voltate all’indietro»39.
Alessandro Baldacci
Università di Varsavia
35 Ivi, p. 18.
36 Ibidem.
37 R . M. Rilke, Le elegie duinesi, cit., p. 46.
38 G. Bassani, Racconti, diari, cronache (1935-1956), a cura di Piero Pieri, Milano,
Feltrinelli, 2014, p. 99.
39 G. Bassani, Opere, cit., p. 513.
[ 11 ]

Francesco Save rio Minervini
Michelangelo Grisolia, un pontaniano alla fine
del Settecento
Le opere di Giovanni Pontano, la vitalità della lingua, l’articolazione della prosa,
il contenuto etico dei suoi trattati vengono riscoperti e attualizzati nel XVIII
secolo dall’abate Michelangelo Grisolia (1751-1794), “regio professore di etica
nell’accademia militare”. Nelle traduzioni dell’abate calabrese si coglie una armoniosa
fusione tra le considerazioni filologiche e linguistiche e le coeve inquietudini
riformatrici dello studio napoletano, particolarmente sensibile alla
tematica politica e culturale di cui Pontano garantiva un illustre e paradigmatico
precedente teorico e pratico.

The works of Giovanni Pontano, the vitality of his language, the articulation of
his prose, the ethical subject-matter of his treatises were rediscovered and updated
in the Eighteenth century by the abbot Michelangelo Grisolia (1751-1794),
“royal professor of ethics in the military academy”. The translations of the Calabrian
abbot show a harmonious blend of philological and linguistics remarks
together with contemporary anxieties of reform within the Neapolitan university,
the latter being especially sensitive to political and cultural issues regarding
which Pontano offered an illustrious and paradigmatic precedent on a theoretical
and practical level.
Sul finire del XVIII secolo una ‘strana’ fortuna arride alle opere di
Giovanni Pontano, simile per certi versi a quella attestata nella più
recente modernità dal rinnovato fervore critico e filologico sviluppatosi
intorno alle opere del segretario regio di Alfonso, dalle edizioni
dei Dialoghi, alle opere storiografiche e politiche, alle traduzioni poetiche1.
La lingua latina, e nello specifico il latino di Giovanni Gioviano
Autore: Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”; ricercatore confermato;
francescosaverio.minervini@uniba.it
* Le ricerche preliminari per la redazione di questo saggio sono state esposte e
discusse nel XVIth International Congress of the International Association for Neolatin
Studies (Ianls), Vienna, 2-7 August 2015 e nel convegno Una lingua morta per
letterature vive: discussioni e controversie sul latino in età moderna e contemporanea,
Meridionalia
330 francesco saverio minervini
Pontano, si presenta come una lingua che ‘esiste’ surrettiziamente, che
disvela la propria esistenza con il singolare paradosso di palesarsi nella
dimensione dell’absentia, ovvero nell’atto dell’alterazione dall’originale
che ogni composizione letteraria e ogni traduzione necessariamente
comporta. Questo fenomeno è sottoposto ad una significativa
amplificazione nel XVIII secolo, nel momento in cui le acquisizioni sui
generis di questo articolato frangente storico e intellettuale reclamavano
l’esigenza di reperire parole che potessero compiutamente e perfettamente
significare i nuovi concetti scientifici e filosofici; essi necessitavano
di un proprio specifico riconoscimento lessicologico in un quadro
definitivamente scientista, cosmopolita e razionalistico2, linguisticamente
spaccato che, mentre sanciva il tramonto del primato delle
lettere nell’uso del latino, oscillava tra il giudizio di crisi elaborato da
Alfredo Schiaffini (1937), e gli istinti di rinnovamento con una «crisi di
crescenza» del Settecento (e invero anche del Quattrocento) indicata,
invece, da Gianfranco Folena (1962), connessi ad un senso di «continuità
con la tradizione» o al suo rifiuto.
D’altra parte, il tema della diffusione di una lingua antica nella
dimensione della modernità rimane comunque una questione alquanto
delicata e dibattuta; di recente Maurizio Campanelli ha mostrato
come le moderne acquisizioni critiche a proposito del Settecento latino
e gli studi sulla presenza del latino nella produzione letteraria del
XVIII secolo abbiano segnato il passo, rimanendo relegati (in un contesto
agonistico di attribuzione del primato tra italiano e latino) agli
studi della seconda metà del Novecento di Giulio Natali prima, e di
Bruno Basile poi3.
L’antagonismo tra latino e lingue moderne appariva naturalmente
Roma 10-12 dicembre 2015 organizzato dal “Ludwig Boltzmann Institute for Neo-
Latin Studies” di Innsbruck.
1 Cfr. Francesco Tateo, Pontano poeta, Foggia, Edizioni del Rosone, 2017.
2 Cfr. Luca Serianni, La lingua italiana dal cosmopolitismo alla coscienza nazionale,
in Storia della letteratura italiana, vol. VI. Il Settecento, Salerno editrice, Roma,
1998, pp. 187-237, cui si rimanda per le citazioni di Alfredo Schiaffini, Aspetti
della crisi linguistica italiana del Settecento, in «Zeitschrift für romanische Philologie
», LVII (1937), pp. 275-295, e di Gianfranco Folena, Il rinnovamento linguistico
del Settecento italiano, in L’italiano in Europa, Torino, Einaudi, 1983, pp. 5-66.
3 Maurizio Campanelli, Alessandro Ottaviani, Settecento latino I, «L’Ellisse.
Studi storici di letteratura italiana», II (2007), pp. 169-203 con un’appendice di
testi degli Arcadum carmina; e si veda anche Maurizio Campanelli, Settecento latino
II, «L’Ellisse. Studi storici di letteratura italiana», III (2008), pp. 85-110, cui rinvio
per gli approfondimenti storico-linguistici e per l’apparato bibliografico.
[ 2 ]
michelangelo grisolia, un pontaniano alla fine del settecento 331
soggetto agli influssi di una specifica vocazione del Settecento alla democratizzazione
del sapere e alla moltiplicazione dei saperi: per ragioni
di contingente opportunità, la volgar favella veniva anteposta alla
lingua antica, scatenando una lunga querelle che avrebbe finito con
l’additare riduttivamente il latino come una lingua del passato, obsoleta,
inattuale e inadatta alla modernità, o al più riservata ad un ristretto
e qualificatissimo numero di fruitori.
Un momento decisivo in questa disputa fu segnato da Antonio Genovesi;
nel 1754 per interessamento dell’economista fiorentino Bartolomeo
Intieri, amministratore di casa Corsini e degli stati medicei del
Regno, fu istituita a sua spese una cattedra di economia (‘commercio’)
presso l’Università di Napoli, che sarebbe stata tenuta da laici e, soprattutto,
che avrebbe impartito le lezioni in italiano. Così Genovesi
riportava le sue prime impressioni in una lettera indirizzata a Giuseppe
De Sanctis del 23 novembre di quell’anno:
Grande fu la meraviglia in sentir dettare italiano. Sicché essendomene
accorto, nello incominciare la spiegazione dovetti cominciare da’ pregi
della lingua italiana, e urtar di fronte il pregiudizio delle scuole d’Italia.
Non è edificante il quadro della scuola settecentesca che emerge
dalle parole di Genovesi: «piena di uditori di barba» e in cui «i giovani
non ancora intendono tutta l’utilità di queste materie, e dove non si
sente citar Giustiniano o Galeno non troppo sentono del gusto»4. L’esordio
della lingua italiana nell’insegnamento universitario non cancella,
tuttavia, una diffusione diversa del latino, ma non per questo di
minore interesse.
Un caso singolare del confronto dicotomico lingua morta/lingua
viva tra latino e italiano è rappresentato dalle opere di Michelangelo
Grisolia, nato a Mormanno di Calabria nel 1751 e morto nel 1794. Sacerdote
e professore di etica all’Accademia militare di Napoli, questi
si dedicò all’analisi e allo studio di un tema assai diffuso nel panorama
culturale della seconda metà del Settecento, ovvero la questione
della sovranità5 e della insanabile divisione tra il polo della religione e
4 Lettere familiari dell’abate Antonio Genovesi, Savioni, Venezia, to. I, Lettera
XXIV, pp. 63-64.
5 Saverio Napolitano, Il problema della sovranità nella cultura napoletana di fine
Settecento: il contributo del mormannese Michelangelo Grisolia, in Tra Calabria e Mezzogiorno.
Studi storici in memoria di Tobia Cornacchioli, a cura di Giuseppe Masi, Cosenza,
Pellegrini, 2007, pp. 65-79.
[ 3 ]
332 francesco saverio minervini
quello del governo politico dello Stato6. Significativamente, il complesso
della produzione letteraria di Grisolia (variamente composta di opere
in latino e in italiano) restituisce una sicura attenzione alla questione
linguistica del confronto tra le due lingue, alla quale si avvicina con
diligente lucidità, contemplando e soppesando le esigenze divulgative
dell’italiano, da un lato, e le potenzialità stilistiche e culturali del
latino, dall’altro.
Dopo un battesimo letterario profuso nelle orazioni latine encomiastiche
in lode di Maria Teresa d’Austria7, Grisolia inizia un percorso
di avvicinamento a Pontano: nell’exemplum del cerretano, Grisolia
vedeva rappresentata quella coerenza culturale e stilistica che
intendeva replicare nella scrittura di un trattato in latino, nel quale
avrebbe potuto coniugare la trattazione della dottrina del governo e il
fondamento etico, culturale e politico del modello del Segretario di
Alfonso.
Unum enim dicendi genus, quod Romanis Imperatoribus prae coeteris
olim arrisit, latinum illud fuit: quod unum gravitate ac venustate
sua, Imperatoriae Majestati alloquendae extollendae celebrandae non
impar, nedum dictis sed factis, ipsimet Augusti Principes declararunt.
Quis enim ignorat‚ audire eos olim refugisse Graecos legatos; quod
Attica, non autem Romana lingua eos alloqui aggrederentur? Ex omnibus
itaque dicendi generibus, Romanorum Augustae praeclarissima
virtus extolli merebatur‚ latinum erat. […] Laudationem latiali
lingua institui‚ quae ne omnes quidem virtutes ejus persequi in animo
mihi fuit8.
6 Nel Ragionamento sul sistema dell’origine della sovranità, Napoli, presso Vincenzo
Orsino, 1783, Grisolia sosteneva che nel corso dei secoli le nazioni non avessero
avuto il medesimo zelo e ‘attaccamento’ ai propri governi come alle proprie religioni,
i cui principi ispiratori non di rado hanno svolto un’azione positiva (supplementare
all’istituto laico) per la creazione di una società civile. Di qui deriva la
visione di una religione come funzionale al dominio delle passioni dell’uomo e,
dunque, utile alla convivenza sociale: «la società sarà un effetto del Governo, e
sarà debitrice del suo stabilimento alla Religione non meno che al Governo Politico;
il qual è una ordinazione immediatamente dalla Religione derivata per eternare
la Società Civile» (p. 14); cfr. Anna Maria Rao, Esercito e società a Napoli nelle
riforme del secondo Settecento, «Studi Storici», XXVIII (1987), pp. 623-677; Ead., Esercito
e società nell’età rivoluzionaria e napoleonica, Napoli, Morano, 1990.
7 Pro Augusta M. Teresia Austriaca M. Angeli et Petri Grisolia Orationes, Neapoli,
apud Vincentium Mazzola-Vocola, 1781.
8 M. Grisolia, Pro Augusta M. Teresia Austriaca, cit., p. 7. Sostiene che, nonostante
le molte lingue disponibili, la stessa Maria Teresa preferisse esprimersi nella
lingua latina per una questione di stile e di raffinatezza dell’eloquenza.
[ 4 ]
michelangelo grisolia, un pontaniano alla fine del settecento 333
In una noterella della traduzione del trattato Il principe eroe di Gio.
Gioviano Pontano ad Alfonso d’Aragona duca di Calabria (1786), Grisolia
interviene nelle questioni linguistiche del tempo, prendendo le parti
della lingua del Lazio antico. Nel trattato di Pontano si esaltava la
fortezza come «virtù morale dominante agli affetti» («colla fortezza si
domina alle passioni»), che regola i piaceri e che va tenuta distinta dalla
«virtù fisico-politica, ch’egli parlando di Scipione appella valore. La
fortezza è figlia della sapienza, fanale della ragione». Il passaggio doveva
senz’altro apparire uno dei nodi centrali per un professore di
etica come era Grisolia; e, infatti, il mormannese prende spunto proprio
da una scelta stilistica dell’umanista (il termine agnominarunt utilizzato
da Pontano che – sostiene il traduttore – non è una parola latina)
per offrire quasi una dichiarazione programmatica di intenti, in
cui si fondono le scelte linguistiche, quelle stilistiche e le indicazioni
morali:
la voce agnominarunt non è latina. Il nostro Autore in questi libri usa
della molta libertà, che si arrogò nell’altro libro de Principe. Io noterò
tutto diligentemente, affinché resti conchiuso, che se i nostri Cruscanti
non permettono un vocabolo nuovo in una lingua viva, molto meno
debbesi ciò creder permesso in una lingua morta. Se il nostro Pontano
si diede questa facoltà nel nuovo gener di poesia, ch’egli cercò di coltivare,
dove avea bisogno di uno stile molle e delicato, e di parole corrispondenti;
non doveva ciò permettersi in una prosa seria e studiata9.
Più avanti, nel capitolo XXI Della fortezza Eroica e degli Eroi, descrivendo
l’episodio di Eurialo e Niso, Grisolia si sofferma sul verso 201
del IX libro dell’Eneide virgiliana10 e contesta l’interpretazione data da
Annibal Caro:
Il Caro è più preciso, ma non mi sembra di aver espressa la mente del
Poeta. Stimo apporre qui la traduzione del Caro, perché si scorga
dagl’intendenti del latino, che non sono spiegate le idee di Virgilio.
Traduce dunque così: A me non diè questa creanza Ofelte / mio genitor:
il cui valor mostrossi / ne gli affanni di Troja, e nel terrore / de
l’Argolica guerra… Eurialo voleva seguir Niso suo amico; voleva insiem
con lui correre i più aspri perigli, diceva perciò, ch’egli non temeva
la morte, ed i perigli perché da fanciullo educato dal padre nella più
spaventevole guerra, qual fu quella di Troja. Ma io non vedo queste
9 M. Grisolia, Il principe eroe, cit., pp. 10-11.
10 Verg. Aen. IX, 20-203: «non ita me genitor, bellis adsuetus Opheltes, / Argolicum
terrorem inter Troiaeque labores / sublatum erudiit».
[ 5 ]
334 francesco saverio minervini
idee nel Caro. Il Pontano diede ancora a’ versi di Virgilio quel senso
che gli abbiamo dato noi11.
Grisolia si volse alle traduzioni delle opere di Pontano all’interno
di un più ampio progetto culturale che prevedeva l’elaborazione di un
catechismo laico ad uso e vantaggio dei suoi discenti presso l’Accademia,
dei sudditi e, non in ultimo, dei governanti12. In questo catechismo,
dettato dalla sua vocazione didattica, il latino si configurava come
una lingua di provenienza, una lingua originale, e non un lingua
morta come alcuni ancora si affannano a sostenere. Essa si presentava
nelle vesti di una “lingua di cultura”, nel senso settecentesco dell’e-
11 M. Grisolia, Il principe eroe, cit., pp. 114-115.
12 Pasquale Materazzo, La formazione civile del suddito nel Regno di Napoli alla fine
del XVIII secolo: i catechismi degli stati di vita, «Atti dell’Accademia Pontaniana», LVI
(1998), pp. 173-94. Il libello fu aspramente criticato per la questione della sovranità
da Antonio Jerocades (poeta, religioso e traduttore di autori classici), sodale di
Antonio Genovesi, e fondatore della Società Patriottica Napoletana (giacobino, antigiurisdizionalista
e protagonista delle rivolte anti borboniche di fine secolo), il
quale aveva tenacemente propugnato la fondazione di uno stato repubblicano libero
da ogni ingerenza ‘temporale’ della Chiesa: cfr. Saverio Napolitano, Il problema
della sovranità, cit. (vedi sopra, n. 4), p. 68; per la documentazione biografica
su Jerocades cfr. Camillo Minieri Riccio, Memorie storiche degli scrittori nati nel
Regno di Napoli, (rist. anast. Napoli 1844) Bologna, Forni, 1967, p. 164; Dizionario
biografico degli italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, vol. LXII, 2004,
pp. 214-218. Inoltre cfr. Guglielmo Adilardi, Un sacerdote massone. Antonio Jerocades
(1738-1803) poeta neoplatonico, massone e, infine, giacobino, Firenze, Polistampa,
1999; Anna Maria Rao, Illuminismo e massoneria: Antonio Jerocades nella cultura
napoletana del Settecento, in Le passioni dello storico. Studi in onore di Giuseppe Giarrizzo,
a cura di Antonio Coco, Catania, Edizioni del Prisma, 1999, pp. 481-510;
Giovanna Scianatico, Neoclassico, Roma, Marzorati-Editalia, 2000; Ead. Settecento
orfico: Jerocades, una traduzione napoletana degli ‘inni’, «Problemi, Periodico quadrimestrale
di cultura», CXVI-CXVII (2000), pp. 30-37; R. Giglio, I letterati e la rivoluzione
napoletana del 1799, in L’identità nazionale nella cultura letteraria italiana. Atti
del III Congresso nazionale dell’Adi-Associazione degli italianisti italiani (Lecce-
Otranto, 20-22 settembre 1999), a cura di Gino Rizzo, Galatina, Congedo, 2001, to.
I, pp. 299-308; Davide Monda, Antonio Jerocades. Un massone calabrese di respiro europeo,
in Id., Amore e altri despoti. Figure, temi e problemi nella civiltà letteraria europea
dal Rinascimento al Romanticismo, Napoli, Liguori, 2004, pp. 169-193; per la lirica cfr.
Milena Montanile, Orfismo e mistero nella lirica di Antonio Jerocades, in Ead., Fuori
solco. Percorsi alternativi di letteratura italiana, Napoli, edizioni scientifiche italiane,
2000, pp. 55-66; Ruggiero Di Castiglione, La Massoneria nelle Due Sicilie e i «fratelli
» meridionali del ’700. Saggio di prosopografia latomica, vol. 3., pt. II, Dal legittimismo
alla cospirazione, Roma, Gangemi, 2010 (un breve profilo di Grisolia è descritto
a p. 196); per la lingua di Jerocades cfr. Pantaleo Minervini, La lingua dell’abate
massone Antonio Jerocades, Napoli, Loffredo, 1978.
[ 6 ]
michelangelo grisolia, un pontaniano alla fine del settecento 335
spressione; non già e non più la lingua esclusiva della cultura (e d’altra
parte non avrebbe ormai potuto più esserlo anche per ovvie motivazioni
di carattere politico e diplomatico), il latino diviene uno strumento
di diffusione culturale e al tempo stesso veicolo e patrimonio di
conoscenze marcatamente connesso con il passato, eppure votato agli
approdi della modernità, espressione ed emblema di un sapere di riferimento
a sua volta latore di un sistema di valori etici, morali e politici
cui evidentemente il traduttore, il manipolatore linguistico, l’interprete
filologico e filosofico guardavano come ad un paradigma. Pertanto,
secondo un’equazione ampiamente diffusa nella dimensione intellettuale
del Settecento, il giudizio linguistico e filologico giunge a confondersi
con la sfera della politica e il campo della filosofia, con l’etica
e con la religione. La scelta della lingua delle nazioni diveniva sovente
una rivendicazione di spazio e di riconoscibilità per quelle già esistenti,
mentre per quelle solo auspicate o appena in divenire assumeva le
forme di uno sdegnoso strumento di protesta, immagine di vigore politico
affidato a monolitiche espressioni antiche. La lingua latina si trova
a svolgere questa complessa funzione quando ristabilisce il suo
statuto di lingua della comunicazione politica: in questo senso, ad
esempio, gli approdi degli studi sull’epistolografia condotti recentemente
da Fabio Forner attestano che il latino come ‘lingua ufficiale’
permanga ormai solo nella cancelleria dello Stato della Chiesa, e che la
lingua sovranazionale sia ormai diventata il francese, con l’italiano,
che se non è relegato in un cantuccio assai circoscritto, appare per lo
più impegnato in traduzioni dal francese per denigrarlo, metterne alla
berlina o all’indice gli autori e le teorie proposte con il solo obiettivo
di contrastarne l’egemonia culturale. E, in molti altri casi, l’italiano
disperde le proprie energie sciommiottando l’idioma transalpino nella
resa estetica e nell’assunto etico, come segnalavano Vittorio Imbriani13
(il quale si scagliava contro il «gergo infranciosato moderno»),
Saverio Bettinelli (che denunciava «la vacua artificiosità e la lingua
infranciosata
»), e Melchiorre Cesarotti il quale auspicava una lingua
che non fosse «né licenziosa, né serva, né antiquata, né infranciosata,
né cruscheggiante; ma polita, libera, disinvolta, scorrevole, tale che sia
intesa senza intoppo e gustata da tutte le persone colte dal mare
all’Alpi»14. In questa temperie linguistica variegata e in continuo dive-
13 Luca Serianni, La lingua di Vittorio Imbriani, in Studi su Vittorio Imbriani, a
cura di Rosa Franzese e Emma Giammattei, Napoli, Guida, 1990, pp. 35-65, in
particolare p. 31.
14 Saggi dell’abate Melchior Cesarotti sulla filosofia delle lingue e del gusto a cui si
[ 7 ]
336 francesco saverio minervini
nire si conferma quanto «la cultura settecentesca è frutto di uno straordinario
equilibrio di lingue, che coesistono in una dialettica
vivace»15.
Il dissidio, lo scontro culturale tra le due lingue, latina e italiana,
rappresenta una tenzone che non porta a risultati concreti se si intende
meramente stabilire il primato definitivo e assoluto dell’una sull’altra.
Grisolia non giunge per caso alla lingua di Pontano; ne è un assiduo
e profondo lettore, un sapiente traduttore. Inoltre, per via della
sua condizione di religioso e di maestro di politica, il calabrese si sentiva
naturalmente attratto dalla figura intellettuale del segretario di
Alfonso, fine umanista e abile mediatore all’epoca della congiura dei
Baroni del 1485-86 tra le ragioni di papa Innocenzo VIII e le aspirazioni
di Alfonso duca di Calabria, la cui ingratitudine fu in seguito descritta
nelle scene di «giusta indignazione» del dialogo Asinus pubblicato
solo postumo per la cura di Pietro Summonte nel 150716. Lo stesso
Pontano, nominato nel 1487 primo Segretario del re proprio in virtù di
questo successo diplomatico, avrebbe incoraggiato un programma
politico di normalizzazione dei rapporti con lo Stato Pontificio: una
linea politica che, per quanto allora non avesse riscosso un grande favore
né all’interno della Corte, né dallo stesso Ferrante17, veniva ora
ripresa quale modello auspicabile.
Il latino di Grisolia è, dunque, il latino di un maestro di scuola
(l’Accademia militare) che avrebbe potuto guardare a molti altri autori
della latinità classica, umanistica e rinascimentale, magari a quanti
avessero condiviso con lui l’abito talare; eppure Pontano, il latino di
Pontano (irrobustito anche dallo sperimentalismo riversato nelle Neniae),
i suoi trattati emanavano un fascino sui generis, per via di quella
capacità di «equilibrare le esigenze della necessità e quelle della morale
», come ha scritto Jerry Bentley18 a proposito del De fortitudine (1481).
Rifiutando lo stato di natura di Hobbes e, solo in parte accogliendo il
aggiungono le Instituzioni scolastiche private e pubbliche e le Memorie intorno alla vita ed
agli studi dell’autore, Milano, per Giovanni Silvestri, 1821, p. 305.
15 M. Campanelli, A. Ottaviani, Settecento latino 1, cit., p. 170.
16 Cfr. Asinus. Dialogo dell’ingratitudine, a cura di Francesco Tateo, Roma, Roma
nel Rinascimento, 2014.
17 Cfr. Giovanni Pontano, Dialoghi cit., pp. 48-53; Claudio Finzi, Re, Baroni,
Popolo. La politica di Giovanni Pontano, Rimini, Il cerchio iniziative editoriali, 2004.
18 Jerry H. Bentley, Politica e cultura nella Napoli rinascimentale, Napoli, Guida,
1987, in particolare p. 258. Rinvio, inoltre, al volume di Guido M. Cappelli, Maiestas.
Politica e pensiero politico nella Napoli aragonese (1443-1503), Roma, Carocci,
2016, nel quale si ricostruisce dal punto di vista storiografico, e soprattutto sul
[ 8 ]
michelangelo grisolia, un pontaniano alla fine del settecento 337
contratto sociale di Rousseau, Michelangelo Grisolia si mostrava convinto
della necessità nella sfera politica dell’etica e, soprattutto, della
«religione come strumento disciplinatore del processo associativo»19;
muovendo da tali posizioni, egli innalzava Pontano ad emblema del
perfetto politico, illuminato segretario, dell’intellettuale che alla corte
del sovrano sapeva spaziare dal ruolo di precettore di principi e potenti
a quello di negoziatore, dalla laurea poetica (1486) alle legazioni
diplomatiche nelle quali si era brillantemente distinto (è ancora il caso
della congiura dei Baroni del 1484-86 ricordata nell’Asinus quale «allegoria
della carriera politica di Pontano»20) per la sapiente fusione di
abilità retoriche (la facetia, per esempio) e di intuizioni politiche, non
scevre di profonde riflessioni etiche saldamente ancorate all’esercizio
della gestione amministrativa, confidando nella «fermezza delle […]
convinzioni circa la possibilità di poter cambiare con l’azione il corso
delle cose»21: un’impostazione metodologicamente coerente che, come
ha rilevato Tateo, si consustanziava eticamente nella impostazione dei
trattati delle virtù sociali e retoricamente nel De sermone22.
Ma accanto a siffatte qualità, le più note, Pontano (e il suo complesso
filosofico ed etico espresso nella lingua latina) è assunto da Grisolia
quale metonimica immagine di uno specifico orizzonte geografico,
quello meridionale e segnatamente napoletano e, con esso, della lingua
utilizzata da Iovianus che è altresì una lingua ‘accademica’, nel
senso più ‘umano’ del termine, ovvero una lingua dell’ammaestramento,
dell’insegnamento slegato e scisso da fattori di elitarismo della
conoscenza.
La ‘svolta’ volgare di Grisolia conferma, allora, la sottrazione di
piano del pensiero politico, la centralità della città di Napoli e dei suoi umanisti
nelle proposte intellettuali della seconda metà del XV secolo.
19 S. Napolitano, Il problema della sovranità, cit., p. 70.
20 Giovanni Pontano, Dialoghi: Caronte Antonio Asino, a cura di Lorenzo Geri,
Milano, BUR, 2014, p. 55.
21 Giovanni Pontano, De principe, a cura di Guido M. Cappelli, Roma, Salerno
editrice, 2003, p. XIII: «è un dato che l’entusiasmo teoretico delle opere politiche
prodotte negli anni degli impegni di governo cede il posto, soprattutto una volta
consumatasi la discesa di Carlo VIII (1494), a una riflessione più sfumata, meno
sicura, più complessa, che si riflette nella rimeditazione delle cause e degli sviluppi
della guerra sostenuta dal giovane Ferrante per la successione napoletana (uno
degli episodi chiave nelle vicende del regno), nell’interesse per il tema della “fortuna”,
e soprattutto nelle riflessioni sul concetto di prudenza».
22 Cfr. Francesco Tateo, Umanesimo etico di Giovanni Pontano, Lecce, Milella,
1972; Id., I libri delle virtù sociali, Roma, Bulzoni, 1999; Giovanni Pontano, De Sermone,
a cura di Alessandra Mantovani, Roma, Carocci, 2002.
[ 9 ]
338 francesco saverio minervini
ogni velleità autonomistica o autoritativa del latino nel Settecento,
suggerendo di contro una consapevole prospettiva di rilancio e non di
irreversibile oblio. E ciò, com’è naturale, a tutto vantaggio delle lingue
nazionali (che in teoria pure sarebbero state contendenti del latino),
almeno per quei territori (come l’Italia) che si apprestavano, nel breve
volgere di qualche anno, a dare una concreta forma politica ad un concetto
unitario culturalmente già attivo da almeno due secoli23. D’altra
parte, la singolare convergenza che in questi tempi si era andata istituendo
tra politica e scelte linguistiche, e che finiva per sovrapporre la
questione della lingua, il rapporto tra lingue moderne e il latino e la
supremazia nella nuova Europa degli Stati nazionali, aveva preso avvio
già nella seconda metà del Seicento con il filosofo inglese John
Locke e, solo in seguito, trasferita su un piano eminentemente politico:
dovendo, infatti, definire il termine di comunità, Locke decretava
pari autonomia e dignità alla propria favella, ragionando pariteticamente
su un caso di specie per cui «i latini designavano con il termine
civitas il cui migliore corrispettivo nella nostra lingua è commonwealth»24.
23 Ugo Foscolo, Prose e poesie edite ed inedite di Ugo Foscolo, Frammenti dilezioni
di eloquenza, a cura di Luigi Carrer, Venezia, co’ tipi del Gondoliere, 1842. Nella
Lezione II intitolata Della lingua italiana tanto storicamente che letterariamente, Foscolo
intende dimostrare che la letteratura è «annessa» alla lingua che deve essere
nazionale: il che consiste in un «valore». Egli esaltava la provenienza della lingua
italiana dal latino («non può non comprendersi come la lingua italiana non provenga
dalla latina; perché anche volendola formare dal dialetto siciliano o provenzale,
si conferma lo stesso, provenendo questi dialetti dalla lingua latina»). Le
principali differenze tra italiano e latino consistono nelle terminazioni e negli articoli.
Dei dialetti presenti in ogni lingua distingueva uno plebeo (senza storia, né futuro,
riservato all’uso vocale, ai libri dei giureconsulti, agli scrittori comici) e uno
letterario, illustre. Questa la situazione del secolo XVIII: «dietro al Cesarotti sono
venuti i toscanelli, che scrivono tutti male [si riferisce all’uso dei troncamenti, ndc].
Se non che l’Alfieri con quel suo genio libero, non ammaestrato alle scuole de’
Gesuiti, ha scritto in vera lingua italiana, richiamando il gusto di Dante e di Machiavelli.
Dunque presentemente la lingua italiana si trova più generalmente insegnata
in tre scuole tutte cattive. La prima è quella del Boccaccio, e i suoi satelliti,
Della Casa, Bembo ec. La seconda è quella gesuitica, a capo della quale stanno
Roberti e Bettinelli. La terza scuola è la cesarottiana, o francese. Bisogna di conseguenza
studiare quei pochi: 1. Che hanno scritto con lingua esatta e di pronuncia
intera; 2. Quelli che mantennero nella italiana la più giusta analogia che può avere
colla latina; 3. Che finalmente conservarono quella sintassi, che più esige la eleganza
congiunta alla naturale chiarezza dell’espressione, come abbiamo già osservato
in quel verso di Dante Ambo le mani per dolor mi morsi» (pp. 356-357).
24 John Locke, Secondo trattato del governo, London, 1690, anonimo, 133 (Le
forme dello stato). Recenti studi critici sull’epistolografia nel XVIII secolo hanno peraltro
rilevato quanto il latino apparisse relegato in una posizione di nicchia, del
[ 10 ]
michelangelo grisolia, un pontaniano alla fine del settecento 339
Le argomentazioni linguistiche abbracciavano quasi fisiologicamente
il campo delle discussioni politiche: è da ritenersi che l’impegno
di traduzione di Grisolia (sperimentato nel trattato del 1783) e,
più in generale, l’uso del latino alla fine del Settecento intendano, in
un certo senso, ispirarsi e replicare la paradigmatica esperienza diplomatica,
politica e intellettuale di Giovanni Pontano.
La preferenza ‘tematica’ accordata ad un autore del passato si precisava,
dunque, anche come una scelta di carattere stilistico; così si è
recentemente espresso un fine conoscitore dell’umanesimo napoletano
come Francesco Tateo a proposito dell’opzione non solo formale
contenuta nel latino (il latino del sermo facetus) di Pontano: «la difesa
pontaniana della ‘scelta’ come criterio stilistico opposto alla rigidità
della regola, in presenza di un’alternativa nello stesso patrimonio
dell’antichità, ricorda il principio analogo che fonda la vita etica sulla
libertà della scelta entro i confini della liceità, che non coincidono con
quelli posti da un’istituzione umana, ma sono appunto quelli universali
dell’etica»25.
La tesi trova un sicuro corroboramento nel latino degli umanisti e
nella liceità dell’opzione linguistica rappresentata da Pontano e dalle
sue opere: alla fine del XVIII secolo, infatti, l’abate Grisolia, evidentetutto
subordinata e secondaria alle lingue delle diplomazie ufficiali europee tra le
quali la palma del primato spettava senz’altro al francese, e con il quale l’italiano
cercava vanamente di competere. Quanto poi ai territori della nostra penisola –
questo è un dato significativo – persino nella cancelleria vaticana, il latino non riusciva
più ad imporre o solo a eguagliare quella sopranazionalità che ne aveva decretato,
invece, il rinnovato successo fra Quattrocento e Cinquecento, pur a fronte
della irraggiungibile esclusività medievale. Cfr. Fabio Forner, Alla ricerca di una
lingua per l’epistolografia italiana: la proposta di Francesco Parisi, «Aevum. Rassegna di
scienze storiche linguistiche e filologiche», XXCVIII (2014), III, pp. 683-698.
25 Francesco Tateo, Giovanni Pontano e la nuova frontiera della prosa latina: l’alternativa
al volgare, in Sul latino degli umanisti. Studi raccolti e a cura di Francesco
Tateo, Bari, Cacucci, 2006, pp. 11-78, qui p. 31. In epoca umanistica Diomede Carafa
(De regis et boni principis officio, l469-1482), Bartolomeo Platina (De vero principe,
1481) Giovanni Pontano (De principe, 1465) sostenevano la centralità dell’etica, come
più tardi, anche Erasmo da Rotterdam, il quale aggiungeva che «il patto tra i
principi cristiani è sacro e quanto mai vincolante e ciò per il semplice fatto che sono
Cristiani». Le virtù (saggezza, clemenza, liberalità, magnificenza, splendore,
convivialità) creano l’autorità del sovrano assumendo così un ruolo politico, ed è
per questo che il sovrano deve (o dovrebbe) possederle nella loro massima pienezza:
cfr. Claudio Finzi, Obbedienza e giustizia in Napoli aragonese. Diomede Carafa e
Giovanni Pontano, «Revista Chilena de Historia del Derecho», XXII (2010), pp. 171-
191; sulla riflessione politica cfr. Davide Canfora, Prima di Machiavell. Politica e
cultura in età umanistica, Roma-Bari, Laterza, 2005.
[ 11 ]
340 francesco saverio minervini
mente imbevuto della cultura e delle letture antiche e umanistiche, si
cimenta nella scrittura in latino, utilizzandola per la traduzione del
trattato di un autore come il cerretano, che più di tutti avrebbe potuto
affermarsi quale auctoritas simultaneamente nei pronunciamenti in
campo linguistico, politico ed etico. Nel 1783, dunque, Grisolia pubblica
a Napoli per i tipi dell’editore Vincenzo Orsini, il De principe liber
unus26, dedicato a Maria Carolina d’Austria, augustissima Regina di Sicilia
e Gerusalemme, moglie per procura nel 1768 di Ferdinando IV di
Borbone, re a otto anni, poco versato negli studi, primo sovrano ‘napoletano’
sotto il cui regno Grisolia trascorrerà tutta la sua breve vita:
moris Maiorum tenacissima custos nihil antiquius habuisti, quam ut
saeculo nostro, ne sterile omnino esset, et effoetum faveres, Pacis, artes,
hominum generi maxime utiles litterasque tuere iam labantes, litteratosque
potissimum tantoque animi conatu proveheres, ut Auspiciis
Tuis quam loetissimis spiritum, et sanguinem, ac patriam propriam
sedem recepisse litterarum studia videantur27.
La sovrana, dedicataria dell’opera, si imponeva sul più debole marito
grazie ad una personalità più forte ma anche più ‘illuminata’, sia
sul piano intellettuale (per via dei suoi noti interessi per la pittura e
per gli illuministi meridionali come Gaetano Filangieri, definito da
Grisolia l’«immortale cavaliere», Domenico Cirillo e Giuseppe Maria
Galanti), sia per la preparazione culturale (studiò le lettere e la filosofia,
conosceva il latino e il greco), sia sul piano politico, riconosciuta
come referente de facto del governo di Napoli. L’opuscolo si inscrive
nella tradizione cattolica della trattazione politica dell’antimachiavellismo,
ben riconoscibile nell’appunto mosso dal revisore dell’opera;
questi, infatti, segnalava il rischio che il titolo originale De principe, sive
de Ortu et progressu regiae potestatis che avrebbe potuto «dimostrare,
che la Regal Podestà nel suo nascimento fu piccola, e che nel progresso
di tempo, secondo che si stabilì in potenza, acquistò quella grandezza
che da principio non avea. Quindi farebbe luogo a congetture,
che la Regia Podestà non nacque da Dio fornita di tutte quelle parti,
che il Pubblico Diritto le ascrive, ma che le tolse il Popolo per violenza
»28.
26 Michaelis Angeli Chrysolii De principe liber unus, Neapoli, apud Vincentium
Orsini, 1783, pubblicato contestualmente con il Ragionamento sul sistema dell’origine
della sovranità.
27 Michaelis Angeli Chrysolii De principe, pp. V-VI.
28 Ivi, pp. XIV-XV.
[ 12 ]
michelangelo grisolia, un pontaniano alla fine del settecento 341
Nei quattordici capitoli di questo speculum si dipana il tentativo di
attualizzare il magistero pontaniano, e di calarlo nella dimensione filosofica
e letteraria contingente29. A fronte delle reminiscenze testuali
antiche (la cui eco classica è stata diffusamente rilevata nell’edizione
del De principe curata da Guido Cappelli) che impreziosiscono la prosa
del Pontano, Grisolia ricorre ad un Pantheon filosofico e letterario modernissimo:
Hobbes, Rousseau, Bossuet, Voltaire, solo per fermarsi sui
più noti, comunque arricchito dall’etica cristiana, giacché «fra tutte le
virtù debbono dare il primo luogo alla vera pietà, ed alla giustizia,
basi fondamentali della durazione di ogni Principato»30.
L’anno seguente (1784) Grisolia dedica ancora a Maria Carolina
d’Austria I doveri del principe, ovvero la traduzione in italiano del De
principe pontaniano, facendolo seguire da Il principe eroe, pubblicato
insieme al plutarchiano Ad principem ineruditum (1786), e da L’eroe domestico,
pubblicato nel 1787 insieme con il Saggio su gli dieci libri dell’Etica
di Aristotele a Nicomaco, in tal modo ricomponendo anche in italiano
i due libri che costituivano il trattato pontaniano De fortitudine31.
29 Tullio Gregory, Sul lessico filosofico latino del Seicento e del Settecento, «Lexicon
philosophicum. Quaderni di terminologia filosofica e storia delle idee», V
(1991), pp. 1-20.
30 Michelangelo Grisolia, I doveri del principe di Giovanni Gioviano Pontano ad
Alfonso duca di Calabria, traduzione di Michelangiolo Grisolia con sue annotazioni storiche,
critiche, morali, e politiche e col testo latino a fronte, in Napoli, presso Michele
Morelli, 1784, p. 53.
31 Michelangelo Grisolia, Il principe eroe di Gio. Gioviano Pontano ad Alfonso
d’Aragona duca di Calabria. Traduzione di Michelangiolo Grisolia con sue annotazioni
storiche, critiche morali, e politiche e col testo latino a fronte. Si premette un discorso ai
dotti, ed una dissertazione preliminare; e si aggiugne in fine la traduzione del libro di Plutarco
Ad principem ineruditum, in Napoli, nella Stamperia reale, 1786; L’eroe domestico
di Gio. Gioviano Pontano ad Alfonso d’Aragona duca di Calabria. Traduzione dell’Ab.
Grisolia… con sue annotazioni storiche, critiche, morali e politiche, e col testo latino a
fronte. Si aggiugne in fine un Saggio su gli dieci libri dell’Etica di Aristotele a Nicomaco,
Napoli, nella Stamperia Reale, 1787. Sulla ricezione ‘politica’ e artistica del De fortitudine
rinvio al saggio di Margherita Sciancalepore, Note sulla fortuna del Pontano
nel Settecento di prossima pubblicazione negli atti del congresso Ianls di Vienna
(2-7 agosto 2015); Amedeo Quondam, Cavallo e cavaliere. L’armatura come seconda
pelle del gentiluomo moderno, Roma, Donzelli, 2003 ha studiato la presenza del topos
di Ercole che passa dal mito alla politica nella trattatistica in età umanistico-rinascimentale
e, in particolare, nel De principe di Bartolomeo Platina (per cui cfr. Bartholomaei
Platinae De principe, a cura di Giacomo Ferraù, Palermo 1979) e nel
De fortitudine di Pontano (pp. 114-208); si veda, inoltre, Rinaldo Rinaldi, Un problematico
autografo del ‘De fortitudine’ di G. Pontano, in Le carte aragonesi, a cura di
Marco Santoro, Pisa-Roma, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, 2004,
pp. 141-162.
[ 13 ]
342 francesco saverio minervini
Nelle pagine iniziali de I doveri del principe, Grisolia fissa una specie
di teoria del doppio speculum: come, infatti, il compito degli intellettuali
è quello di illustrare certe conoscenze tecniche e teoriche ai capi del
governo politico, essi devono necessariamente avere «l’animo e ’l cuore
ben formato» per divenire concreti esempi per il popolo tutto. In
questa prospettiva di chiara estrazione illuministica (o propriamente
civile, visti gli anni politicamente e socialmente tormentati in cui si
colloca), soprattutto coloro che sono deputati all’amministrazione politica
devono fornire un loro concreto, tangibile apporto:
Questi fortunati condottieri de’ Popoli, dico i Principi sommi ed indipendenti,
che debbono comandare altrui, e regolargli, e servire anche
loro di specchio e di norma per tutto ciò, che sia giusto ed onesto, debbono
spezialmente aver bene appresa, ed in tutta la sua estensione, la
Teoria de’ Doveri […] la quale sempre può considerarsi come un corollario
della scienza del dritto di natura e delle genti. Sicché quella che
appelliamo noi oggi scienza de’ Doveri, Morale, Etica, oggi non è altro,
che un risultamento della disciplina del dritto di natura e delle genti,
incognita a tutti gli antichi Filosofi32.
Quella stessa dottrina era antifrasticamente espressa nella ottusa
ingratitudine di un asinus, ma perfettamente riconoscibile per i contemporanei
nella sapiente diplomazia del Pontano; ora essa si traduce
nel costante ricorso alla necessitante (ancor più in territorio cristiano)
presenza dell’etica (fra l’altro proprio la disciplina insegnata nello studio
napoletano dal calabrese Grisolia), virtù divenuta irrinunciabile
per i sovrani «poiché non è altro il fine della Sovranità, che l’armonia
e la pace fra i cittadini, nascente da quella esatta osservanza di dritti
scambievoli»33. Il discorso è riccamente infarcito di termini illuministici
quali pubblico ben, civile società, stato naturale e selvaggio e così via.
Argomenti questi che spinsero i sovrani ad avvertire Grisolia della
necessità di «tradurre nella italiana favella un pregiato libro del celebre
Pontano»; e la chiarezza politica dello speculum dell’umanista cerretano
(«massime nette e precise») insieme all’esempio dell’osservazione
di «un più grande e nitido originale vivente da imitare, qual
appunto è V. M.», sarebbero stati, dunque, «di lume e di norma» sia
per la composizione del trattato di Grisolia, sia per la pratica concreta
degli uomini politici, sia per un complessivo ‘aristotelico’ senso di misura
disposto nel pensiero politico del Segretario.
32 M. Grisolia, I doveri del principe, cit., Dedica e p. 45.
33 Ivi, p. 50.
[ 14 ]
michelangelo grisolia, un pontaniano alla fine del settecento 343
Nell’avvertenza ai dotti leggitori del trattato del 1784 I doveri del
principe, Grisolia conferma un sospetto che si nutre già ad una prima
lettura:
ma voi dovete soprattutto ricordarvi, dottissimi leggitori, che il mio
libro De Principe ancorché fosse stato da voi e da tutti compatito; certamente
per ciò a’ più non piacque, perché scritto in una lingua già morta,
in tempo che il secolo è da un differente genio condotto, anzi che
dalla passione delle lingue madri. Né soltanto molti uomini sommi di
nostra nazione, ma eziandio gli altri letterati d’Italia, e spezialmente
quelli di Firenze (in nota: Leggasi la Gazzetta Letteraria del 15 Maggio
1784, num. 20) non ebbero ritegno di disapprovare il mio sistema intorno
al genere dello stile, nel quale pensava, che si dovessero scrivere sì
fatte opere. Io dunque che son persuaso, che le opere instruttive, debbono
scriversi nella lingua madre, e che da molto tempo mi ho fatto un
costume della docilità: volentieri, adattandomi per ancora al genio
universale, cambio stile e favella34.
Dunque, l’opuscolo di un autore poco noto (forse in contrasto con
talune richieste critiche della nostra contemporaneità) si segnala, invece,
proprio per una perfetta intuizione dello stato di fatto delle cose
linguistiche, letterarie, nonché politiche di fine Settecento e per la
sconvolgente considerazione del latino (e, invero, anche del greco) come
lingua madre, lingua che un tempo ha prodotto la conoscenza e
nella quale ora egli intende comunque proseguire i suoi lavori:
Non ometto […] di esponere al Pubblico le ragioni singolari, che mi
esortarono a scriver quella mia opera in latino, e che in progresso mi
moveranno a continuarla nello stile, in cui l’ho intrapresa. Insieme
esporrò le antecedenti disposizioni dell’animo mio riguardo al grande
utile che può derivare alla Nazione Italiana scrivendosi nel natio nostro
linguaggio. La ragion principale, che mi mosse a scrivere in latino
quel mio libro intorno all’Origine della Sovranità, fu la seguente.
Avendo io impreso a trattare una materia, in cui gli argomenti Filologici
doveano avervi la maggior parte, non poteva ciò fare felicemente
scrivendo in Italiano stile, che non soffre esser frequentemente rotto
colla citazione di autorità estrinseche. All’incontro io ben mi avvisava,
che dovendo spesso far uso degli argomenti, che ho detto, parte per
confermare il mio sistema, e parte per abbellirlo, ciò non poteva eseguirsi
che in latino. Poiché quella sorta di argomenti non potevansi da
me derivare, se non dagli antichi originali Latini e Greci, che sono i
soli tesori a noi rimasti a scorgere il pensare degli antichi Sapienti nelle
34 Ivi, pp. V-VI.
[ 15 ]
344 francesco saverio minervini
differenti materie. Ed ecco la ragione perché la mia opera De Principe,
non potendosi da me con ugual comodo, e con ugual eleganza (per
quanto le mie deboli forse mi permettevano) scriversi in Italiano, come
fu scritta in Latino, fu necessità che io la scrivessi in quella lingua; anche
per non muover la noja a’ Leggitori colle frequenti citazioni, scrivendo
nella lingua nostra35.
Nel sistema dei valori proposti, Pontano diveniva il garante e il
paradigma di una temeraria (e insieme sapiente) scelta culturale, morale,
politica e linguistica, di un esercizio della virtù della fortezza36
(«senza dubbio la regina di tutte le altre virtù»37); e aiutava, persino, a
recuperare facilmente l’equazione tra lingua, stile ed etica che rappresentava
(per forma e per contenuto) l’opzione perseguita dall’umanista
stesso alla fine del Quattrocento. Non sono emersi riscontri testuali
né storiografici ad un pur plausibile dubbio: è probabile, infatti, che
questa tensione illuministica di Grisolia (il bene pubblico, il viver civile…)
nasconda un malcelato auspicio di assurgere ad un più alto e
decisivo ruolo di educatore, di istitutore di un’intera società o almeno
– si fa per dire – di un sovrano, o di un parente prossimo al sovrano (in
un passaggio si lamenta delle «mie occupazioni che mi tengono dissipato
»).
35 Ivi, p. 2. Sulla stessa linea di pensiero anche il Ragionamento sul sistema dell’origine
della sovranità di Michelangelo Grisolia, in Napoli, presso Vincenzo Orsino,
1783.
36 M. Grisolia, L’eroe domestico, cit., pp. 4-5. Nel sistema di pensiero di Grisolia
la virtù della fortezza «può rendere ancor l’uomo Eroe fra le domestiche mura
lungi dai perigli della guerra; se questa virtù sola rende l’uomo capace da resistere
a tutte le passioni domestiche, a’ dolori, alle voluttà, all’ambizione, come dice il
nostro autore: dunque la Fortezza non ha per oggetto solamente l’audacia e ’l timore;
ma può considerarsi come una virtù dominante nell’uomo, guida e norma de’
suoi costumi, e sola capace di rintuzzare la forza delle passioni e della rea fortuna.
La Fortezza è quella singolare virtù, che ci rende capaci della sofferenza, unico alleviamento
e ristoro ne’ mali più grandi. Ella non ci lascia cadere vilmente nella
debolezza di caricar di maldicenze la sorte, e struggerci di tristezza. Ella è il fonte
di quella gloria, che oppressi dalle disgrazie in tempo di pace, e nella propria casa,
ci rende nondimeno superiori a’ colpi della Fortuna. Ella ci rende onesti e giusti
nell’amministrazione dei pubblici affari».
37 Nella Dissertazione preliminare anteposta a Il principe eroe, Grisolia ricorre al
fattore linguistico per spiegare e suffragare le scelte in merito alla Fortezza virtù
necessaria nello stato sociale: «Essi si persuaderanno che la Fortezza sia una virtù eccellente
e dominante, cui servono agevolmente tutte le altre. Non avranno infine i
medesimi difficoltà di accordarmi esser la Fortezza tutto ciò che dicesi virtù e bontà
in generale: poiché non potranno negarmi significar tanto in latino virtus, virtù,
quanto in italiano Fortezza, in latino fortitudo» (p. 27).
[ 16 ]
michelangelo grisolia, un pontaniano alla fine del settecento 345
Tornando alla preferenza del latino, Grisolia statuisce una classificazione
tra lingue morte e lingue vive, lingue d’uso e lingue materne,
le quali ultime «non hanno un pregio indipendente e disgiunto dal
bello che contengono»38. Esse si rivelano le «chiavi disserratrici della
sapienza degli antichi Filosofi, che scrissero in queste lingue per […]
rendersi utili alla di loro Nazione»39. Pertanto, ne deriva «che i letterati
Uomini debban reputarsi certamente più utili allo Stato, quando colle
loro fatighe rendano men necessario, almeno per i più della loro
Nazione, il debito di apprendere le lingue morte»; e qui cita una prefazione
del Cesarotti avuta da Saverio Mattei e «che corre manoscritta
», nella quale aveva auspicato come necessaria addirittura una traduzione
universale dei classici latini e greci40.
Egli indirizza e concentra questa teoria linguistica sull’uso, definito
come «l’ostinato esercizio di coloro che amano di sapere»41, sulla
auctoritas delle lingue classiche e sul concetto di accrescimento che de-
38 M. Grisolia, I doveri del principe, cit., p. 3.
39 Ibidem.
40 Si badi che Grisolia più avanti non demonizza la cultura ‘nazionale’: «allo
stesso modo potremmo parlare degli altri Poeti fondatori al pari della sapienza
delle nazioni, che delle loro lingue. Mi piace far qui menzione dei divini Poemi di
Ossian Poeta Celtico. Tradotti nel nostro linguaggio dall’immortal Cesarotti, Professore
di Lingue negli studi di Padova. Questo Poeta scrisse ancora nella propria
lingua per insinuare la sapienza nei ruvidi petti de’ Celti, e lo fece con tanta filosofia,
che merita dirsi l’Omero di quelle nazioni»: M. Grisolia, I doveri del principe, cit.,
pp. 3-4 (nota). In una lettera inviata al Cesarotti dall’avvocato, poeta e musicista
Saverio Mattei, si trova conferma di questa notizia riportata dal Grisolia, il quale
appare ora evidentemente ben dentro la pratica letteraria contemporanea. Così
scrive il Mattei (di cui l’amico Melchiorre disse: «mi compiacqui di trovarlo nel
carattere superiore alla sua dottrina, voglio dire disinvolto, ingenuo, cordiale, lontanissimo
dall’affettazione dalla pedanteria») nell’epistola del 12 maggio 1777 inviata
al Cesarotti da Napoli: «Che vi dirò della Prefazione soppressa? È un capo
d’opera: vi sono delle scappate ammirabili: v’è una franchezza, che sorprende, che
persuade, che alletta ec. non mi meraviglio che vi sia impedita la pubblicazione:
essa contiene una riforma, che a’ nostri barbagianni sembra peggiore di quella di
Lutero, e Calvino: le proposizioni vostre non possono non credersi da’ nostri pedanti,
o eretiche, o prossime all’eresia. Veramente è una disgrazia la nostra, che per
essere, o comparir dotti, dobbiam sapere tutte le più puerili cognizioni delle lingue
Ebraica, Caldaica, Siriaca, Greca, Latina, ed oggi della Palmirena, dell’Etrusca, e
poi di tutte le lingue viventi. […] Gli studi ecclesiastici, e i legali più d’ogn’altra
cosa contribuiscono alla conservazione delle lingue antiche, ch’entrano così nel
governo e nella religione» (Dell’Epistolario di Melchiorre Cesarotti, Firenze, presso
Molini, Landi e Comp., 1811, vol. 2, pp. 11-15; ma si veda anche la successiva epistola
del 18 maggio 1779, pp. 15-25).
41 M. Grisolia, I doveri del principe, cit., p. 6.
[ 17 ]
346 francesco saverio minervini
riva alla modernità dalla assiduità, dalla frequenza delle cose antiche:
una nozione esemplarmente messa in atto dall’Umanesimo e che, tuttavia,
pare alquanto più rivoluzionaria perché ora attestata in quell’età
delle Rivoluzioni, sovente ostinatamente attenta a demolire ogni
fenomenologia del passato, piuttosto che a recuperarne il buono che
v’è dentro. Una carenza di capacità espressive cui Grisolia, con sottile
acribia, ascrive «la ragione della debolezza dell’eloquenza di questi
tempi»42. Il ragionamento riconosce che potrebbe tornare utile e vantaggioso
per le generazioni moderne infondere loro la sapientia43 più
ampia nella propria favella; ma in questo modo «si farebbe un gran
pregiudizio al buon gusto del pensare, e del parlare, che altronde non
può derivarsi, che dalla lettura de’ sensatissimi Greci e Latini, nei propri
originali»44. L’illuminismo dello stile e della lingua si precisa nell’esaltazione
della «robustezza di dir naturale ed elegante», di quegli
autori francesi che uniscono alla gravità della favella quella del cuore:
Mr. De Fenelon, Du Pin, Bossuet, Bernardo de Fontanelle, Rousseau,
Voltaire. E Grisolia ricorda che proprio Voltaire riteneva che la frivolezza
dei libri, quelli senza stile, imbruttisce la lingua e l’espressione
di un’intera nazione; cosa vieppiù vergognosa se dovesse capitare
all’Italia, considerata autarchicamente sufficiente a se stessa su questo
piano, e non debitrice di alcuno per quanto va dall’ottimo al leggiadro,
sia per stile che per idee.
Affideremo la conclusione ad un’osservazione di Josef Ijsewijn:
«During the second half of the seventeeth and troughout the eighteenth
century the Jesuit order could boast of an impressive series poetry
who wrote mainly in the didactic vein. This didactic poetry was a
European phenomenon of that time»45; tra questi si annoverano i Poemata
didascalica di Nicolas Oudin (Parigi 1749), gli Halieuticorum libri X
(Napoli 1689) di Nicola Giannettasio, Jesus puer (Milano 1690) e la Philosophia
novo-antiqua (1704) di Tommaso Ceva, i Botanicorum seu Insti-
42 Ivi, p. 18.
43 Il riferimento alla sapientia è ben presente anche nelle opere di Pontano per
cui si veda Francesco Tateo, La nuova sapienza nel Dialoghi di Giovanni Pontano,
«Studi mediolatini e volgari», IX (1961), pp. 187-225. Sul ritorno e sulla fortuna del
dialogo classico in età umanistica cfr. Marco Giovini, Il dialogo latino in età classica,
medievale e umanistica, in Il lessico della classicità nella letteratura europea moderna. Vol.
I. La letteratura drammatica, to. I., parte II. Il dialogo, a cura di Paola Dolcetti e
Marco Giovini, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2008, pp. 403-425.
44 M. Grisolia, I doveri del principe, cit., p. 12.
45 History and Diffusion of Neo-Latin Literature, a cura di Jozef IJsewijn, Leuven,
University press, Peeters press, 1990, p. 64.
[ 18 ]
michelangelo grisolia, un pontaniano alla fine del settecento 347
tutionum rei barbariae libri IV (Napoli 1712) di Francesco Savastano; i
Carmina di Carlo d’Aquino (Roma 1701-1703). Accanto a tale considerazione,
non sarà inutile rimarcare che furono sapienti utilizzatori della
lingua latina anche Ludovico A. Muratori e Girolamo Tiraboschi,
ovvero gli iniziatori del modello storiografico della letteratura italiana.
Un’attenta cura dell’eloquenza connota la prosa latina del Settecento,
per la quale non si registra una diminutio né in termini quantitativi,
né per ciò che concerne la resa stilistica; si deve, tuttavia, riconoscere
che la destinazione d’uso (scuole, seminari, accademie, collegi)
in qualche modo possa avere influito (come nel caso dell’abate Grisolia)
su un risultato che rimane complessivamente eccellente e, seppur
talora afflitto da una tensione alla verbosità, questa moderna lingua
latina si mostra capace di una strenua vitalità e versatilità estesa ai più
svariati argomenti di supporto all’educazione della gioventù, finanche
alla più moderna divulgazione scientifica ai massimi livelli; e per
limitarsi ai nomi più famosi, ricorderemo almeno i trattati di Giovan
Battista Morgagni e del suo allievo Leopoldo Caldani per gli studi
sulla medicina, e di Luigi Galvani e di Alessandro Volta per quelli
sull’elettricità.
Questo rilevante fenomeno, che assunse un respiro europeo, e che
ricevette un impulso dall’attività dell’Accademia dell’Arcadia, non
può più considerarsi in un quadro restrittivo della diffusione della
lingua latina in epoca moderna, tutt’altro: «it is a serious error to believe
that Latin literature in Italy died with the end of the Ancien Régime
or the papal state for that matter. Although generally ignored by literary
historians, there have been at least a couple of hundred Latin
writers in Italy between Napoleon and today»46.
Francesco Saverio Minervini
Università di Bari
46 History and Diffusion of Neo-Latin Literature, cit., pp. 64-65.
[ 19 ]

Annalisa Comes
Anatomia, ermeneutica psicanalitica e critica del testo
La crisi dell’ermeneutica psicanalitica freudiana si consuma all’interno del
freudismo con Carl Gustav Jung, attraverso un rifiuto della riduzione dell’analisi
dell’opera d’arte a pura biologia, proprio come quella del lachmannismo –
che è in sostanza la crisi della scientificità della filologia, e nella prassi ecdotica
del metodo ricostruttivo – matura tutta all’interno della famiglia lachmanniana
con Joseph Bédier, allievo ‘lachmanniano’ di Gaston Paris. L’autrice, prendendo
a spunto un brano del romanzo di Andrew Miller, Il talento del dolore (1997), riflette
sul parallelismo dei due percorsi.

Just as the crisis of psychoanalytic Freudian hermeneutics took place within
Freudianism through Carl Gustav Jung, in the refusal to reduce the analysis of
the work of art to pure biology, so that of Lachmann-inspired philology – which
is, in essence, the crisis of the scientific nature of philology, and in the ecdotic
praxis of the reconstructive method – came into being entirely from within the
Lachmannian school thanks to Joseph Bédier, a Lachmannian scholar trained
by Gaston Paris. The author, taking her lead from a passage in a novel by Andrew
Miller Ingenious pain (1997), looks at the similarities linking the two developments.
[…] Ross denuda il cadavere e lascia cadere a terra la camicia da notte.
Dalla valigetta estrae un coltello e lo passa a Burke, che ne osserva la
lama e annuisce. Burke, posta sul mento di James la mano libera, con
l’altra squarcia il tronco dalla cima dello sterno a un punto poco sopra
il pelo pubico. Poi taglia orizzontalmente lungo il costato, producendo
una sanguinolenta e rorida croce rovesciata. Si interrompe per prendere
le lenti dall’astuccio in una tasca del giustacuore, e se le fissa sul
naso ammiccando. Bofonchia qualcosa, afferra un lembo di pelle e
grasso e lo tira. Per liberarlo dalla materia sottostante usa la punta del
coltello. Le sue mani sono muscolose come quelle di un marinaio. Ross
Contributi
Autore: Università di Verona – Université de Lorraine (Nancy); dottoranda di
ricerca; annalisa.comes@gmail.com
350 annalisa comes
regge la lanterna. Ha in mano un bastoncino che ha strappato dai rovi
lungo il cammino. Lo usa per sondare le viscere di James. […] «E adesso
dedichiamoci al cuore», dice Burke. Cominciano a squarciare il costato,
lavorando le costole con un seghetto e poi usando il coltello per
aprirsi la strada tra i grandi vasi sanguigni. I dottori sono visibilmente
eccitati, lustri come biglie. Qui ci scappa la pubblicazione, il saggio, la
conferenza davanti agli illuminati: «Alcune Considerazioni, hmm, circa
il Caso del fu Jm Dyer. Una Indagine nel… Mondo del Bizzarro e
Misterioso… il quale Jm Dyer, sino al suo ventiqualchesimo anno d’età,
era insensibile al… ignorava… interamente privo di sensazione…
senso… esperienza del… dolore. Con prove, illustrazioni, reperti e
quant’altro»1.
Così, in una delle prime pagine del romanzo Il Talento del Dolore di
Andrew Miller, viene descritto l’accanimento anatomico sul cadavere
di James Dyer da parte dei dottori Ross e Burke nel tentativo di comprendere
il perché dello straordinario talento dell’uomo: quello di non
provare dolore. Le sue viscere dovrebbero svelare scientificamente
quel misterioso segreto, ma, una volta terminata l’orrenda vivisezione,
non ci sarà nessuna risposta.
1. Anatomia medica e filologica: Sigmund Freud e il lachmannismo
Sono stati pubblicati nel 2000, a cura di Mario Lavagetto, i verbali
delle riunioni dei mercoledì di Freud2. A partire dal 1902 infatti, Freud
organizzò, prima a casa sua, poi, dal 1910, in una sede apposita, incontri
su vari temi artistici, letterari e filosofici ai quali parteciparono anche
Wilhelm Stekel, Reitler, Kahane, Alfred Adler e poi Carl Gustav
Jung, Otto Rank (che dal 1906 verbalizzò tutti i dibattiti)3, Sándor Ferenczi,
Theodor Reik e Karl Abraham. Il metodo di indagine, vòlto a
indagare il mistero della creazione artistica, era più o meno quello
anatomico – o meglio “psico-anatomico” – descritto da Miller nel suo
romanzo, cioè quello biografico in chiave psicoanalitica.
1 A. Miller, Ingenious pain (1997) tr. it. Il Talento del Dolore, Milano, Bompiani,
1998.
2 Palinsesti freudiani. Arte letteratura e linguaggio nei verbali della società psicoanalitica
di Vienna. 1906-1918, a cura e con prefazione di M. Lavagetto, Torino, Einaudi.
3 I verbali curati da O. Rank sono stati raccolti in tre volumi, in Italia il primo
in traduzione: Dibattito della società psicoanalitica di Vienna (1906-1908), a cura di H.
Nunberg e E. Federn, Torino, Einaudi, 1973.
[ 2 ]
anatomia, ermeneutica psicanalitica e critica del testo 351
Alcuni di questi dibattiti confluirono poi in studi individuali riguardanti
la produzione letteraria, come Il delirio e i sogni nella “Gradiva” di
Wilhelm Jensen del 1907, quella pittorica Un ricordo d’infanzia di Leonardo
da Vinci del 1910, o, del 1914 la scultura Il Mosè di Michelangelo4.
L’assoluta certezza dei dottori Ross e Burke davanti al corpo di
Dyer di scoprire il segreto della sua straordinaria capacità, è la stessa
dei freudiani di arrivare a comprendere l’essenza dell’opera d’arte per
mezzo di analisi biografiche (quella che Jung definì come «metodo
“purgativo” di Freud»5): la fiducia di arrivare a quello che si potrebbe
definire come l’archetipo malato, da curare mediante lo sfoltimento
delle sovrastrutture (l’analisi), parallela a quello perseguita in campo
filologico, del cosiddetto lachmannismo.
In realtà – come più volte e da più parti è stato evidenziato6 – il
metodo stemmatico, (metodo che si basa su recensio e emendatio) ascritto
a Karl Lachmann è in effetti il frutto di studi maturati prima e contemporaneamente
al Lachmann nel campo della filologia. Cronologicamente
siamo lontani da Freud, ma il metodo comparativo derivato
com’è dalle scienze naturali7 e la positivistica fiducia di giungere all’archetipo
– il testo originario (‘sanato’ tramite una cura) – costituiscono
gli stessi dati culturali di partenza.
Nel 1885 infatti, grazie a una borsa di studio, Freud poté seguire a
Parigi le lezioni di Jean-Martin Charcot alla Salpêtrière, approfondendo
e affinando metodologie e rigore scientifico8. Più o meno negli stes-
4 Il primo, Eine Kindheitserinnerung des Leonardo da Vinci, fu pubblicato nel 1910
una prima volta nella collana “Schriften zur angewandten Seelenkunde” [Scritti di
psicologia applicata], n. 7, Leipzig-Wien, una seconda nel 1919 e una terza nel 1943
con aggiunte, poi riprodotta in Gesammelte Schriften, vol. 9 (1925), pp. 371-454 e
Gesammelte Werke, vol. 8, pp. 128-211, trad. it. in S. Freud, Opere 1909-1912. Casi
clinici e altri scritti, ed. diretta da C. L. Musatti, vol. 6, Torino, Einaudi, 1974, pp.
207-284. Der Wahn und die Träume in Wilhelm Jensen ‘Gradiva’, in S. Freud, Opere cit.,
vol. 5; Der Moses des Michelangelo, in S. Freud, Opere cit., vol. 7.
5 p. 44.
6 Cfr. S. Timpanaro, La genesi del metodo del Lachmann, (Firenze, Le Monnier,
1963), Torino, Utet Libreria, 2004; G. Contini, Breviario di ecdotica, Milano-Napoli,
Ricciardi Editore, 1986, p. 7; R. Antonelli, Interpretazione e critica del testo, in Letteratura
italiana diretta da A. Asor Rosa, IV, L’interpretazione, Torino, Einaudi,
1985, p. 148; G. Fiesoli, La genesi del lachmannismo, Firenze, Edizioni del Galluzzo,
2000.
7 Antonelli, Interpretazione cit., p. 149 e D’A. S. Avalle, L’immagine della trasformazione
manoscritta nella critica testuale, appendice 3 di La letteratura medievale in
lingua d’oc nella sua tradizione manoscritta, Torino, Einaudi, 1961, pp. 183-196.
8 Cfr. a questo proposito: S. Freud, Bericht über meine Studienreise nach Paris und
[ 3 ]
352 annalisa comes
si anni lo stesso rigore empirico appare nell’opera di Gustav Theodor
Fechner («il grande Fechner», come lo definì lo stesso Freud) che andava
fondando la nuova psicologia scientifica. Nel 1860 la pubblicazione
degli Elemente der Psychophysik provoca un’opera di rottura con
la tradizione della romantica psicologia filosofico-speculativa ottocentesca,
utilizzando metodi e funzioni mutuati dalle scienze naturali.
Tra le corsie della Salpêtrière Freud si trova a fare un incontro fondamentale
per i successivi sviluppi della nuova disciplina: l’isteria9. Tornato
a Vienna, pur nella prosecuzione degli studi neurologici, Freud
approfondisce sempre più l’allontanamento da una eziologia organica,
concentrando la propria riflessione su una eziologia della parola,
del logos. Sarà questo “linguaggio del sintomo” che necessita una interpretazione
(Deutung) e culmina in una ri-costruzione, il punto di
partenza metodologico per le successive indagini non solo nell’ambito
del lavoro analitico, ma anche nel campo della riflessione artistica.
Scriverà infatti Freud più avanti, nel 1937: «L’analista deve scoprire, o
per essere più esatti costruire il materiale dimenticato a partire dalle
tracce che di esso sono rimaste».10
2. La crisi: Carl Gustav Jung e Joseph Bédier
L’incontro di Carl Gustav Jung con Sigmund Freud risale al 1906 e
segna l’inizio di un rapporto di sincera stima, di profonda e intensa
comunicazione11, destinata a durare fino al 1913, anno della rottura. Le
riflessioni di Jung che matureranno una profonda crisi e una successiva
frattura con il maestro nascono proprio da quello che era stato il
punto di forza di Freud: la fiducia nella spiegazione scientifica dell’uomo
e della sua realtà. Per Jung il pensiero di Freud propugnando una
metodologia speculativa esclusivamente biologica, è riduttivo. Significative
a questo proposito sono le parole di Jung che si leggono nel
Necrologio di Freud (1939):
Berlin trad. it. Relazione sui miei viaggi di studio a Parigi e a Berlino e Charcot, in S.
Freud, Opere, cit., voll. 1 e 2.
9 Cfr. tra gli studi più importanti: Hysteria (1888), trad. it. Isteria; Studien über
Hysterie (1893-1895), trad. it. Studi sull’isteria; Zur Ätiologie der Hysteria, trad. it.
Eziologia dell’isteria, rispettivamente in S. Freud, Opere, cit., voll. 1 e 2.
10 S. Freud, Konstruktion in der Analyse, trad. it. Costruzione nell’analisi in S.
Freud, Opere, cit. vol. 11, p. 543 e cfr. anche F. Rella, Costruzione nell’analisi di S.
Freud, in «Aut Aut», 152-153.
11 Cfr. Lettere tra Freud e Jung, Torino, Einaudi, 1974.
[ 4 ]
anatomia, ermeneutica psicanalitica e critica del testo 353
Da tutto il pensiero di Freud ridonda dunque su di noi un terribile,
pessimistico “niente altro che”. In esso non si apre mai uno spiraglio
liberatorio su forze soccorritrici, risanatrici, che l’inconscio faccia giungere
a beneficio del malato. Ogni posizione viene scalzata mediante la
critica psicologica che riduce ogni cosa ai suoi elementi sfavorevoli e
dubbi, o almeno insinua che tali elementi esistano. Simile posizione
eminentemente negativa è peraltro indubbiamente giustificata di fronte
alle inadeguatezze che la nevrosi origina in abbondanza… Il metodo
psicologico di Freud è sempre stato un farmaco per materiale guasto e
degenerato quale si trova soprattutto nei nevrotici. È strumento da maneggiarsi
dal medico e diventa pericoloso e distruttivo, e nel migliore
dei casi inservibile, se applicato a manifestazioni e necessità vitali naturali12.
La storicizzazione delle teorie e del pensiero freudiani costituisce
un’apertura allo spiritualismo e al soggettivismo (in quanto testimonianza).
Ma non si tratta di un ritorno al passato, di un recupero
memoriale, nostalgico, romantico del Geist, bensì della coscienza dei
limiti della ‘scientifizzazione’, ed è in questo la grande e innovativa
portata del pensiero junghiano. Tuttavia la psicologia analitica di
Jung si colloca perfettamente nell’ambito del coevo storicismo tedesco,
nella realtà storica, sociale, culturale del suo tempo e come d’altra
parte mostrano in modo evidente riflessioni metodologiche simili
di altre discipline tra le quali, come si vedrà più avanti, anche nel
campo della filologia: la prospettiva nuova della considerazione della
psicoanalisi quale storia di una tradizione (e fruizione), l’assunzione
esplicita di un relativismo dinamico – cioè sia pratico che teorico

In due importanti scritti, il primo del 1922, Psicologia analitica e arte
poetica, il secondo del 1930, Psicologia e poesia13 Carl G. Jung riflette sul
rapporto tra psicologia e arte distaccandosi in modo evidente e sostanziale
dalle teorie del maestro: «Ciò che la psicologia potrà dire
12 C. G. Jung, Sigmund Freud, Necrologio (1939), in Il contrasto tra Freud e Jung
trad. it., Torino, Einaudi, 1975, pp. 252 e 254.
13 Il primo è il testo di una conferenza tenuta a Zurigo (maggio 1922) e
pubblicata a settembre con il titolo Ueber die Beziehungen der analytischen Psychologie
zum dichterischen Kunstwerk in «Wissen und Leben» (vol. 15); il secondo
Psychologie und Dichtung in «Philosophie der Literaturwissenschaft» (1930), poi
riveduto e ripubblicato nella raccolta Gestaltungen des Unbewussten (vol. 7, Zurigo
1950): tr. it. C. G. Jung, Psicologia e poesia 1922-50, (1979) Torino, Einaudi,
1997.
[ 5 ]
354 annalisa comes
dell’arte si limiterà sempre ai processi psicologici dell’attività artistica,
senza raggiungere mai la sua essenza più intima»14.
Il riconoscimento positivo dell’indirizzo inaugurato da Freud consta
per Jung soprattutto nella possibilità di avvalersi del suo metodo
quale tecnica «senza però, al tempo stesso, elevarla a dottrina». Scrive
infatti più avanti:
[…] ho finito col comprendere che una psicologia, il cui orientamento
sia esclusivamente biologico, potrà essere applicata forse con ragione
all’uomo, ma mai all’opera d’arte; perciò non la si può applicare all’uomo
quale creatore,
e ancora:
Per dare all’opera d’arte ciò che le è dovuto, è necessario che la psicologia
analitica escluda completamente ogni pregiudizio di carattere
medico, poiché l’opera d’arte non è una malattia e quindi richiede un
orientamento del tutto diverso da quello medico15.
La crisi dell’ermeneutica psicanalitica freudiana si consuma all’interno
del freudismo con Carl Gustav Jung, attraverso un rifiuto della
riduzione dell’analisi dell’opera d’arte a pura biologia16, proprio come
quella del lachmannismo – che è in sostanza la crisi della scientificità
della filologia, e nella prassi ecdotica del metodo ricostruttivo – matura
tutta all’interno della famiglia lachmanniana con Joseph Bédier, allievo
‘lachmanniano’ di Gaston Paris17: crisi inaugurata dal famoso
articolo del 1890 La tradition manuscrite du “Lai de l’Ombre”18.
Com’è noto, proprio con la pubblicazione del poemetto anticofrancese
Bédier, aderendo strettamente alle teorie lachmanniane aveva
ottenuto uno stemma ad albero bifido e alla fine aveva optato per
offrire l’edizione di un solo manoscritto. Una stessa situazione di bifidismo,
quella che nel 1928 definì la silva portentosa,19 gli apparve anche
14 C. G. Jung, Psicologia e poesia cit., p. 20
15 Ibidem., pp. 30 e 28.
16 P. 29.
17 Sulla figura di Joseph Bédier si possono ricordare: F. Lot, Joseph Bédier, Paris,
1939, G. Contini, Ricordo di Joseph Bédier; (1939), in Esercizî di lettura sopra autori
contemporanei con un’appendice su testi non contemporanei. Edizione aumentata di
«Un anno di letteratura», Torino, Einaudi, 1974, pp. 358-371; R. Antonelli, Interpretazione
cit., pp. 167-174.
18 J. Renart, Le Lai de l’Ombre, a c. di J. Bédier (1890), Fribourg, Imprimerie et
Librairie de l’OEuvre de Saint-Paul, 1913.
19 J. Bédier, La tradition manuscrite du Lai de l’Ombre. Réflexions sur l’art d’éditer
[ 6 ]
anatomia, ermeneutica psicanalitica e critica del testo 355
negli anni 1912-13, all’esame di circa ottanta edizioni antico-francesi:
l’impossibilità di utilizzare il metodo Lachmann, la sfiducia nella capacità
di ricostruire il testo «secondo la volontà dell’autore», condussero
Bédier a ritornare al dato storico-oggettivo: il testo così come è
stato tramandato da un manoscritto, una direzione dunque storicistica,
vòlta al recupero del dato documentario reale. Questa la conclusione
che sottolinea la rinuncia al metodo lachmanniano:
Noi rinunciamo a proporre una classificazione dei nostri manoscritti:
non perché sia difficile proporne una, accettabile quanto quelle impiegate
in tante edizioni da tanti critici, ma al contrario perché è troppo
facile proporne parecchie20;
Roberto Antonelli sottolinea infatti che:
con l’edizione di tipo bédieriano, pur restando all’interno di un puro
problema tecnico (non coinvolgendo la più complessiva questione della
tradizione e del suo rapporto con l’interpretazione) viene posta in
realtà in discussione una concezione ermeneutica e la nozione stessa
della filologia quale “scienza” storica, “positivamente” fondata. Si
spiega così, al di là della coscienza dei singoli e dell’importanza tecnica
delle argomentazioni bédieriane, la centralità che la riflessione di
Bédier ha assunto, da allora fino ai nostri giorni21.
Jung «si rifiuta di fare della teoria il momento di estensione dell’esperienza
terapeutica»22, proprio come Bédier rifiuta l’estensione della
sistematica categorizzazione lachmanniana della prassi ecdotica:
[…] con Bédier (non sembri una forzatura) si ha quantomeno di fatto
la prima netta distinzione fra “Autore” e “testo”, su un piano esclusivamente
tecnico (ma con ampi rapporti con l’evoluzione dell’ermeneutica
filosofica, ancora più radicale) all’interno di quel nesso Autore/
Auctor-Testo/Valore-lettore, che la teoria e la pratica petrarchesca
avevano affermato nella nuova tradizione occidentale quale espressione
pratica e teoretica più alta di un universo artigianale. Se non esiste
metodo scientifico possibile per la ricostruzione del testo secondo la
volontà dell’Autore, se per limitare i danni occorre rispettare un “testo”
inteso come documento, ma oggettivamente esso stesso già raples
anciens textes, in «Romania», 54 (1928), pp. 161-196 e 321-356 (in particolare p.
171).
20 J. Bédier, La tradiction cit., p. XLI.
21 R. Antonelli, Interpretazione cit., pp. 170-171.
22 S. Vegetti Finzi, Storia della psicoanalisi, Milano 1986, p. 133.
[ 7 ]
356 annalisa comes
presentante di innovazioni rispetto alla volontà dell’Autore, dunque
di una fruizione e di una interpretazione nuova e storicamente collocata
nel-tempo, allora, da un punto di vista teorico, si dovrà ammettere
che il testo stesso è un valore storicamente dato e di fatto potenzialmente
indipendente dall’Autore23.
Annalisa Comes
23 R. Antonelli, Interpretazione cit., pp. 173-174.
[ 8 ]
Monica Bisi
«Pellegrini della forma»: la conversione della scrittura
ne Le farfalle di Gozzano
Le particolari scelte retoriche con le quali Gozzano dà forma alle metamorfosi
dei bruchi e poi alla vita delle farfalle nelle Epistole entomologiche, nella loro
stretta corrispondenza con la materia dinamica che rappresentano, inducono a
ipotizzare che l’autore abbia compiuto un effettivo cambiamento di prospettiva,
almeno formale, rispetto alle prime due raccolte. Sullo sfondo degli intarsi
danteschi, da un lato, e del pensiero filosofico ereditato dal primo Novecento,
dall’altro, il contributo vuole mettere in luce quelle che sembrano le caratteristiche
peculiari dell’«altra voce» con cui Gozzano promette di tornare poeta dopo
i Colloqui.

The particular rhetorical choices through which Gozzano gives form to the
metamorphoses of caterpillars and then to the life of butterflies in Epistole entomologiche,
in their close correspondence with the dynamic material they represent,
suggest that the author may indeed have changed perspective, at least
formally, compared to his first two collections. Against the backdrop of borrowings
from Dante and a philosophical outlook inherited from the first half of the
Twentieth century, this study aims to demonstrate the peculiarities of that “other
voice” with which Gozzano promised to return after the Colloqui.
1. Del non essere ancora
«Con altra voce tornerò poeta!». Con questa promessa, come è noto,
Gozzano si avvia a congedare il lettore dei Colloqui, ponendo la
speranza di Pd XXV1 a suggello di Pioggia d’agosto, testo che sembra
Autore: Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano; assegnista di ricerca;
monica.bisi@unicatt.it.
1 In ben altro contesto, come è noto, Dante aveva auspicato per sé il ritorno
dall’esilio: «con altra voce omai, con altro vello / ritornerò poeta» (Pd XXV, 7-8).
Per il rapporto fra la chiusa di Pioggia d’agosto e la produzione successiva di Gozzano,
in particolare le Epistole entomologiche, si vedano Giuseppe Zaccaria, Nel
volo breve di una farfalla, in Id., Reduce dall’amore e dalla morte: un Gozzano alle soglie
358 monica bisi
indicare con decisione quello che vorrebbe essere un rinnovamento
della sua poesia, d’ora in avanti in esclusivo ascolto della Natura. Un
rinnovamento, almeno sul piano dei contenuti, che è già in corso, in
realtà, all’altezza di questi versi del 19102, se si presta fede a quanto
preannunciato in L’amico delle crisalidi e in Una risorta, pubblicate per
la prima volta, rispettivamente, su «Riviera ligure» nell’agosto 1909 e
su «La lettura» nel giugno 19103 e chiaramente anticipatrici di un’opera
a venire, nella quale, ancora con Dante, Gozzano dirà sui lepidotteri
«cose non dette ancora»4.
Forse perché atto mancato rispetto a così audaci auspici, le Epistole
entomologiche, cioè gli abbozzi di quello che avrebbe dovuto essere il
poema Le farfalle – il «volume» a lungo meditato cui accennano i versi
di Una risorta – sono parse a gran parte della critica una rinuncia, un
fallimento, addirittura un «disastro»5, che segue l’unico vero libro di
Gozzano, dopo il quale la sua ispirazione poetica si sarebbe esaurita6.
Eppure il poema è concepito nel pieno della sua stagione creativa, come
attesta la nota lettera ad Amalia Guglielminetti scritta da Ronco il
del postmoderno, Novara, Interlinea, 2009, pp. 141-169: 141-142 e, con un’attenzione
più specifica al significato degli intarsi danteschi, Daniele Maria Pegorari, Cercando
«il volume foglio a foglio»: il dantismo di Gozzano fra anticapitalismo e scientismo,
«Dante», v (2008), pp. 76-108: 93-94.
2 Editi per la prima volta su «Riviera ligure» nel novembre 1910 e poi su «la
Tribuna» del 22 febbraio 1911, sempre con il titolo Verso la fede.
3 E poi confluite, come è noto, la prima nelle Poesie sparse e la seconda nei Colloqui.
4 Una risorta, v. 100. Il riferimento è naturalmente a Dante, Vita Nova, XLII, [2]:
«io spero di dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna».
5 Guido Gozzano, Poesie, a cura di Edoardo Sanguineti, Torino, Einaudi,
1973, p. VIII.
6 Eugenio Montale, Gozzano dopo trent’anni (1951), in Id., Il secondo mestiere.
Prose 1920-1979, a cura di Giorgio Zampa, Milano, Mondadori, 1996, i, pp. 1270-
1280: 1274. Non molto distante la posizione espressa da Gigliola De Donato, Lo
spazio poetico di Guido Gozzano, Roma, Editori Riuniti, 1991, che definisce le Epistole
«un organismo poematico scompensato e povero di intrinseca vitalità narrativa»
(p. 41). Nei medesimi anni, pur identificando «le tracce dell’ultima vera poesia di
Gozzano» negli «spezzoni delle Epistole entomologiche», Lenzini conclude il suo
profilo del poeta nella convinzione che «non sembra proprio possibile, […], sulla
base del programma delle Farfalle, accreditare al poema incompiuto una nuova
svolta nella concezione gozzaniana della poesia e dell’arte»: Luca Lenzini, Gozzano,
Palermo, Palumbo, 1992, pp. 51 e 53, a cui rimando per una esaustiva rassegna
bibliografica che ripercorre analiticamente la storia della critica delle opere di Gozzano
fino agli anni Novanta del Novecento.
[ 2 ]
la conversione della scrittura ne le farfalle di gozzano 359
3 settembre 19087, e conosce una gestazione che si protrae in anni importanti,
fra il 1909 e il 19118, periodo nel quale appaiono in rivista i
due componimenti che anticipano il progetto. D’altra parte, come è
noto, il tema delle farfalle non si limita a brani ben determinati, ma
accompagna tutta la produzione dell’autore, da La via del rifugio fino
alle Lettere dall’India9, la cui stesura coincide con gli anni di maggior
dedizione a quello che resterà il poema mai concluso, ma di cui Gozzano
ha più volte annunciato, con intento autopromozionale, la sempre
ormai prossima pubblicazione presso Treves. Anche proprio per la
pervasività della loro presenza tra le immagini emblematiche care al
poeta, tanto da essere ad un certo punto destinate a costituire materia
esclusiva di un’intera opera, le farfalle e i versi ad esse dedicati non
possono essere relegati nei confini incerti della bozza e meritano che il
lettore ne ricerchi il carattere più proprio. Lo conferma il fatto che,
benché opera certamente non finita, ma compiuta almeno nella fase
progettuale10, le Epistole entomologiche non hanno incontrato presso la
critica solo dissensi: alla decisa collocazione fra gli esperimenti falliti
si sono infatti affiancate alcune più felici interpretazioni che ne hanno
intravisto il valore o addirittura posto in luce la portata innovativa,
avvicinandone la prospettiva – tematica più che formale, naturalmente
– a quella del Montale delle Occasioni11, tanto che nel 1981 Pontiggia
7 Guido Gozzano, Poesie e prose, a cura di Alberto De Marchi, Milano, Garzanti,
1961, p. 1313. Testimonianze ulteriori vengono dalla successiva lettera alla
Guglielminetti (17 settembre 1908) e da quella al De Frenzi del 15 giugno 1909. Per
una rassegna completa delle missive utili a ricostruire «ideazione, crescita e destino
tipografico del poemetto» si veda Guido Gozzano, Tutte le poesie, testo critico e
note a cura di Andrea Rocca, introd. di Marziano Guglielminetti, Milano,
Mondadori, 1985, pp. 411-414 (la citazione è a p. 411).
8 Così Rocca nella sua Introduzione a G. Gozzano, Epistole entomologiche in Id.,
Tutte le poesie, cit., pp. 411-431. Giorgio De Rienzo, nel suo Guido Gozzano. Vita breve
di un rispettabile bugiardo, Milano, Rizzoli, 1983, aveva proposto tempi più dilatati,
collocando la genesi delle Epistole fra il 1908 e il 1912.
9 Si leggano a riguardo Lorenzo Mondo, Natura e storia in Guido Gozzano (e
due capitoli gozzaniani), Roma, Silva, 1969, pp. 112-114 e G. Zaccaria, Nel volo breve
di una farfalla, cit., pp. 149 e segg.
10 Come sembra attestare il progressivo assestamento dell’idea iniziale che si
scorge nella sequenza dei cinque «“disegni” autografi» riprodotti e analizzati da
Rocca in G. Gozzano, Tutte le poesie, cit., pp. 374-376.
11 Oltre a Giorgio Bàrberi Squarotti, Realtà, tecnica e poetica di Gozzano, in Id.,
Astrazione e realtà, Milano, Rusconi e Paolazzi, 1960, pp. 83-119 e a Edoardo Sanguineti,
Tra Liberty e Crepuscolarismo, Milano, Mursia, 1961, pp. 17-39, si vedano in
particolare Gianni Pozzi, La poesia italiana del Novecento. Da Gozzano agli Ermetici,
Torino, Einaudi, 1965, pp. 27-37; L. Mondo, Natura e storia, cit., pp. 108-115, benché
[ 3 ]
360 monica bisi
ne parla come del «cuore»12 della produzione di Gozzano e due anni
più tardi De Rienzo, pur definendo la storia del poema come «la storia
di una rinunzia delusa, di un abbandono definitivo e malinconico», vi
ravvede senz’altro «una grandissima rivelazione umana», la ricerca di
una «poesia diversa»13, come, negli abbozzi, scorge «l’avvio di un profondo
processo di maturazione» che non giunge tuttavia a compimento14.
Poema del «non essere più, / del non essere ancora» (Le farfalle, vv.
211-212), le Epistole entomologiche meritano rinnovata attenzione in
quanto, lungi dal rappresentare l’esperienza di una stasi limbica che si
compiace dell’inazione, come quella di colui che parla in prima persona
nella Via del rifugio e nei Colloqui, sembrano segnalare da subito la
loro distanza da certe forme consolidate, iterative e cicliche, tipiche
delle due raccolte più celebri: il poema non compiuto si fa mossa scrittura
del divenire e pare voler andare oltre alcuni topoi dei versi che lo
precedono, come la rinuncia alla vita, la noluntas, l’eterno rinnovarsi
della materia in nuove forme, l’amore esclusivo per ciò che è già stato
quest’ultimo riconosca in Gozzano solamente l’enunciazione, la «volontà decisa di
fare nuova poesia, anziché […] una effettiva realizzazione» (p. 112); Lucio Lugnani,
Gozzano, Firenze, La Nuova Italia, 1973, anch’egli propenso a riconoscere nelle
Farfalle la ricerca di una nuova voce poetica, anche se «il tentativo è molto più interessante
del risultato» (p. 127) e Giuseppe Savoca e Mario Tropea, Pascoli, Gozzano
e i crepuscolari, Bari, Laterza, 1988, p. 120, in cui si legge: «Nella parola, in lui
mai così levigata come adesso [cioè ne Le farfalle] […] egli riusciva a scavare la dimensione
nuova di un brivido funebre che era di un mondo morente. Le farfalle
segnano in effetti un’ulteriore fase di approfondimento del discorso poetico di
Gozzano». Boggione, infine, non ha dubbi sul fatto che «proprio nelle Farfalle ci
sembra vada riconosciuto il primo tentativo di una poesia nuova» (Valter Boggione,
Poesia come citazione. Manzoni, Gozzano e dintorni, Alessandria, Edizioni
dell’Orso, 2002, p. 147). Già nel 1953 Giovanni Getto aveva lamentato la scarsa attenzione
della critica nei confronti del poema, nel quale «non manca completamente
la possibilità di segnare una via di sviluppo […] in quanto il sostituirsi di
una materia reale al gioco fantastico o troppo autobiografico della precedente poesia
sembra avviare ad un’arte diversa, di cui, senza che sia possibile prevederne
tutte le conseguenze, è tuttavia concesso avvertire il profilo sicuro» (Giovanni
Getto, Poeti, critici e cose varie del Novecento, Firenze, Sansoni, 1953, p. 50, poi in Id.,
Poeti del Novecento e altre cose, Milano, Mursia, 1977, pp. 32-33).
12 Giuseppe Pontiggia, Il giardino delle Esperidi; in Id., Opere, Milano, Mondadori,
2004, pp. 667-673: 670.
13 Giorgio De Rienzo, Il gioco della poesia nelle «Farfalle» di Guido Gozzano, in
Guido Gozzano. I giorni, le opere. Atti del convegno, Torino, 26-28 ottobre 1983, Firenze,
Olschki, 1985, pp. 85-101: 94 e 97.
14 Id., Guido Gozzano. Vita Breve di un rispettabile bugiardo, cit., p. 185.
[ 4 ]
la conversione della scrittura ne le farfalle di gozzano 361
o per quanto non si può avere. Le Epistole dicono forse del non-esserepiù
e del non-essere-ancora del poeta che vorrebbe giungere «ai suoi
perfetti giorni» (Storia di cinquecento vanesse, v. 1); dell’uomo che entra
finalmente nella vita rinunciando alla rinuncia e abbandonando la
poltrona dello spettatore; della poesia che trova una misura ulteriore15,
più propria, una forma costruttiva dopo tutta l’ironia corrosiva
delle due prime raccolte. Se questa ipotesi è lecita, considerarla alla
luce delle affermazioni di Baldissone e Lenzini sul metalinguaggio di
Gozzano16 e alla luce delle suggestioni di Bàrberi Squarotti circa le
farfalle come simbolo della fragilità della bellezza e della poesia nel
mondo borghese17 condurrà forse a intravedere nella metamorfosi
delle farfalle rappresentata nelle Epistole entomologiche una sorta di
correlativo oggettivo della metamorfosi del linguaggio poetico. Linguaggio
che, proprio in quanto forma poetica, coinvolge nel proprio
mutamento anche i contenuti cui dà ordine e senso; quei medesimi
contenuti che, a loro volta, ne orientano le modulazioni espressive.
Linguaggio, infine, la cui trasformazione potrebbe includere anche
l’impiego della citazione: svolta, questa, che si rivelerebbe decisiva,
dato il valore costitutivo che la citazione assume nell’opera del poeta
torinese18.
Le Epistole entomologiche sono, infatti, la trascrizione – ma non solo
– in versi di pagine interamente desunte da Maeterlink, con frequenti
prestiti da Betti, Alamanni, Mascheroni, Pascoli, Jammes, ma anche da
Parini, D’Annunzio, Leopardi; pagine percorse da tensioni spiritualiste
nella cornice, tuttavia, di un non dimenticato Positivismo19. Ed è
15 Si veda per questo ancora Id., Il gioco della poesia, cit.
16 Contenute rispettivamente in Giusi Baldissone, Introduzione a Guido Gozzano,
Opere, Torino, UTET, 1983, pp. 9-59: 9-11 e in L. Lenzini, Gozzano, cit., che
invece mette in guardia dal rischio di una interpretazione troppo sbilanciata
nell’ottica del metalinguaggio, in quanto essa porterebbe a considerare la tradizione
un «magazzino di forme senza sostanza» e la poesia traduzione di traduzione
(p. 132).
17 Per questo si veda Giorgio Bàrberi Squarotti, Introduzione a Guido Gozzano,
Poesie, Milano, Rizzoli, 200410, pp. 7-21. Della prospettiva di Bàrberi Squarotti,
che dall’equazione farfalla-bellezza-poesia conduce alla constatazione dell’inevitabile
oblio cui la poesia stessa è destinata, riteniamo la prima, preziosa, suggestione
per cercare di intravedere, a partire da essa, altri possibili esiti oltre l’oblio.
18 Ne offre autorevole prova nell’ambito specifico della citazione dantesca
l’imprescindibile intervento di Pino Fasano, Il bello stile negli esili versi. Colloqui con
Dante di Guido Gozzano, «La rassegna della letteratura italiana», xcviii (1994), n. 3,
pp. 5-29.
19 Si vedano L. Mondo, Natura e storia, cit., p. 107 e i commenti di Rocca in G.
[ 5 ]
362 monica bisi
vero che si dichiarano fin dall’inizio (ma per gioco) di natura didascalica,
in un rimpianto del Settecento che è ironico quanto ammiccante
grazie alla sua riproduzione del modello (divisione in monografie,
apostrofi al destinatario, tono divulgativo, spunti favolistici, prevalenza
di alcune forme sintattiche), che è, insieme, trasfigurazione dei
suoi temi20. Ancora una volta, dunque, il lettore si confronta con prestiti
illustri e con la fatica della loro ricontestualizzazione. Tuttavia,
considerate nella loro totalità, le Epistole entomologiche sono anche – e
soprattutto – il poema del Dante purgatoriale, che ne abita i versi con
continuità, secondo una non casuale architettura citazionale, a testimonianza
sia di un’ispirazione omogenea, sia di un rapporto di Gozzano
con il Poeta che meriterebbe rinnovata attenzione in quanto potrebbe
consegnare all’intero corpus significati ulteriori, come forse già
anticipa la presenza dantesca nella stanza dell’autore nelle Farfalle (v.
188). Una prospettiva di questo tipo – spesso indicata dalla critica, in
molti casi tuttavia concentrata sulla sempre più precisa segnalazione
dei prestiti danteschi più che sulla loro interpretazione21 – mi pare
possa gettare nuova luce su un’opera che, sebbene incompiuta, segue
comunque un percorso non senza meta e, a ben guardare, strutturato
in modo tale da poter essere incorniciato di senso22.
Il carattere ironico, decostruttivo, straniante della citazione, da
Sanguineti in poi quasi sempre riconosciuto alla pratica poetica del
Gozzano, Tutte le poesie, cit., pp. 390-391 e di Bàrberi Squarotti in G. Gozzano,
Poesie, cit., pp. 19-20.
20 Per questo si leggano E. Sanguinetti, Tra Liberty e Crepuscolarismo, cit., pp.
42-45 e Michele Mari, Le «Farfalle» di Gozzano e la tradizione didascalica cinque-settecentesca,
in Guido Gozzano. I giorni, le opere, cit., pp. 149-167, che mette in guardia
dal sopravvalutare ne Le farfalle gli elementi di modernità. Sul rifacimento settecentesco
come maschera si legga Giorgio Bàrberi Squarotti, Le farfalle di Torino,
in Id., Poesia e ideologia borghese, Napoli, Liguori, 1976, pp. 152-169; sulla «messinscena
del didascalismo settecentesco» nelle Epistole e sul suo ruolo di schermo rispetto
a Dante si veda invece P. Fasano, Il bello stile negli esili versi, cit., p. 28.
21 Oltre alle già ricordate edizioni commentate che segnalano scrupolosamente
i prestiti danteschi, per una prospettiva ermeneutica più articolata si leggano
almeno Aldo Vallone, Aspetti della poesia italiana contemporanea, Pisa, Nistri-Lischi,
1960, pp. 172-177, che riconosce alla citazione dantesca lo statuto di «linfa
ristoratrice […] e primigenia che dava sapore alla lingua», linfa che «interviene nei
momenti di dura resa espressiva, quando la poesia non torna» (pp. 176 e 175) e
D.M. Pegorari, Cercando «il volume foglio a foglio», cit., in cui è offerta una puntuale
e argomentata analisi dello sfaccettato rapporto di Gozzano con il modello dantesco.
22 Il progetto, si ricordi, era in ultima analisi quello di un poema unico, non di
una raccolta.
[ 6 ]
la conversione della scrittura ne le farfalle di gozzano 363
Gozzano della Via del rifugio e dei Colloqui23, è spesso servito da lente
anche per l’interpretazione delle Epistole, le cui così evidenti citazioni
da Dante e da Petrarca sono state talvolta lette come gemme incastonate
nel discorso per ornamento e svuotate del significato autentico24.
Se però fosse vero che il poema è metafora di una metamorfosi del
poetare dell’autore, diventerebbe forse lecito ripensare se, contestualmente
alla sua stesura, non sia cambiata anche l’intenzione della comunque
intensa pratica citazionale25. Al di là dei numerosi prestiti dal
Purgatorio, infatti, ciò che è soprattutto purgatoriale – e che chiama a
rivedere il senso abitualmente attribuito alle tessere altrui, qui in particolare
dantesche – è l’intero corso dell’esperienza dei bruchi che, nella
progressiva, dolorosa purificazione fisica volta in versi nei primi
23 Per il significato e le interpretazioni della pratica citazionale nell’opera di
Gozzano rimando ai capitoli dedicati al poeta torinese nel documentatissimo V.
Boggione, Poesia come citazione, cit. In particolare, per il valore parodico della citazione
si vedano le riflessioni di Edoardo Sanguineti, Guido Gozzano. Indagini e
letture, Torino, Einaudi, 1966 e l’edizione delle Poesie curata dal medesimo (Torino,
Einaudi, 1973). Mettono in guardia da un’interpretazione in chiave quasi esclusivamente
ironico-parodica Henriette Martin, Guido Gozzano, Milano, Mursia,
1971 (ed. or. Paris, Presses Universitaires de France, 1968), p. 214 e L. Lugnani,
Gozzano, cit., pp. 133-137. Sempre per una direzione ermeneutica che si allontana
da quella di Sanguineti si vedano: L. Mondo, Natura e storia, cit., pp. 115-116 e Id.,
L’amico delle crisalidi, in «La Stampa», 25 gennaio 1981; Guido Gozzano, Poesie
scelte, a cura di Giansiro Ferrata, Milano, Mondadori, 1977, pp. 21-26; Franca
Carnasciali, Didascalismo e poesia nel poemetto gozzaniano sulle farfalle, «Revue des
études italiennes», xxiii (1977), n. 1, pp. 49-61. Sul valore delle citazioni si legga
ancora G. Getto, Poeti del Novecento e altre cose, cit., pp. 7-37.
24 Cfr. M. Mari, Le «Farfalle» di Gozzano, cit., p. 164.
25 A fronte di una posizione critica molto diffusa dopo le indagini di Sanguineti,
per la quale le citazioni dantesche e petrarchesche sarebbero decontestualizzate
e sviate rispetto al loro senso originario per essere caricate di ironia, non è chi non
veda nei versi di Dante e Petrarca cui ampiamente – e strategicamente – Gozzano
attinge, l’a priori della poesia, una sorta dunque di dover essere che resta immutabile,
forse quello cui tende la nuova («altra») voce. (G. Savoca e M. Tropea, Pascoli,
Gozzano e i crepuscolari, cit., p. 114; Angelo Jacomuzzi, Gozzano e la tradizione citata,
in Guido Gozzano. I giorni, le opere, cit., pp. 131-134: 134). E se Guglielminetti,
nell’introd. a Gozzano, Tutte le poesie, a cura di A. Rocca, nota che «l’inserimento
dei versi di Dante e Petrarca» nelle Farfalle è «meno ostentato, ma più profondo,
[…] su una linea di fruizione percorsa parallelamente nei Colloqui» (pp. XI-XLVI:
XL), Fasano non ha dubbi sul fatto che già in Pioggia d’agosto, il rapporto con Dante
è «più mimetico che parodico» (P. Fasano, Il bello stile negli esili versi, cit., p. 26)
e Boggione non esita ad affermare che nelle Epistole la funzione distruttiva della
citazione viene meno: essa allora, arricchendo di nuovo significato i modelli, servirà
a far brillare «nuovi miraggi» nel «deserto» che «si stende di fronte alla poesia»
(V. Boggione, Poesia come citazione, cit., p. 89).
[ 7 ]
364 monica bisi
due componimenti, diventano crisalidi destinate al «tempo del risveglio
alato» (Le farfalle, v. 100), in cui saranno farfalle secondo le modalità
rappresentate nelle monografie delle varie specie. All’interno di
questa parabola i bruchi devono prima discendere nel silenzio e nella
stasi per poi risalire più in alto rispetto al loro punto di partenza ed
assumere forma compiuta, secondo il modello paolino accolto da
Dante per l’architettura del proprio viaggio26. La tensione verso l’alto,
nella sua dialettica con l’inevitabile discesa disegnata dai versi della
prima parte delle Epistole, è filo rosso che percorre, in modo più o meno
evidente ma costante, anche tutte le monografie.
Il ritmo dell’esperienza unica dei bruchi, scandito ne Le farfalle da
immagini che dalla vita (del bruco) trascorrono nella dolorosa mortepurificazione
(la trasformazione in crisalide) in preparazione della vita
più autentica (la farfalla), sembra rispondere – forse non del tutto
inaspettatamente – anche alla struttura di un altro celebre modello,
che, se non altro in qualità di bersaglio polemico, imprime di sé in
modo pervasivo la cultura del XIX secolo: quello della dialettica hegeliana,
secondo la quale, nell’accadere dei fatti come nel modo di conoscerli
e di individuarne le ragioni ultime, ad una prima istanza A (tesi)
ne succede una opposta non-A (antitesi), che né la sostituisce né la
contraddice semplicemente, ma la supera conservandone alcune caratteristiche
(Aufhebung) e creando così con essa un rapporto sintetico
(A e non-A), in cui ognuna delle due istanze rinuncia, per così dire, a
parte di sé e parte di sé misura con l’istanza opposta per il guadagno
di un più alto grado di verità27. I due paradigmi dantesco ed hegeliano
appaiono accomunati sia dalla presenza di una fase negativa (l’attraversamento
dell’Inferno per Dante, il «travaglio del negativo» per Hegel)
sia dalla struttura ascensionale, che interessa il viaggio fisico e
intellettuale di Dante come il progredire della conoscenza e dell’essere
nel sistema hegeliano: caratteristiche che, come si anticipava, si possono
riconoscere anche nell’esperienza dei bruchi-crisalidi-farfalle e che
dunque aiutano a stringere il legame fra le Epistole e i due modelli qui
26 Cfr. John Freccero, Un pellegrinaggio a spirale in Id., Dante. La poetica della
conversione, a cura di Corrado Calenda, Bologna, il Mulino, 1989, pp. 111-142:
118 (ed. or. Dante: the poetics of conversion, Harvard University Press, 1986).
27 Tale, in una sintesi che è ben lontana dal restituirne la complessità, è la logica
che sostiene la dialettica hegeliana e che il filosofo tedesco indica quale legge
fondamentale dell’essere, della conoscenza e della storia. Essa si riconosce già delle
opere giovanili di Hegel e trova una particolarmente esplicita formalizzazione
nella celebre Prefazione alla Fenomenologia dello Spirito del 1807.
[ 8 ]
la conversione della scrittura ne le farfalle di gozzano 365
indicati. Ad avvicinare l’ispirazione di Gozzano alla prospettiva hegeliana,
inoltre, la sua insistenza sulle dinamiche del divenire, sul passaggio
– scandito dal tempo – dal non-essere all’essere, che trova il
proprio culmine nel crinale fra il «non essere più» e il «non essere ancora
» di cui parlano Le farfalle: tali contenuti presentano, infatti, interessanti
rimandi al ritmo della dialettica hegeliana, di cui una delle
figure più emblematiche è proprio la triade essere-non essere-divenire.
Nonostante non siano note testimonianze dello studio e della conoscenza
di Hegel da parte di Gozzano, l’impiego e l’interpretazione del
concetto di divenire nei versi delle Epistole non possono prescindere
dall’eredità del filosofo di Stoccarda, tanto più nella Torino dei primi
anni del XX secolo, così intrisa di quel Positivismo che del pensiero di
Hegel è una delle numerose derive e che, insieme allo Spiritualismo,
costituisce una delle prospettive filosofiche cronologicamente più vicine
al poeta. Accanto all’ostentata famigliarità con le filosofie orientali,
che apparirebbe allora anch’essa inficiata dall’obliquità ironica, e al
più volte dichiarato interesse per Schopenhauer e Nietzsche – tratti,
entrambi, che caratterizzano le prime due raccolte in versi, e non solo
– nelle Epistole sembrano dunque operare attivamente le categorie della
tradizione filosofica occidentale, in particolare quella che, nonostante
«Arturo e Federico», è ancora legata al problema della metafisica28
e si pone non solo alle spalle, ma quale ineliminabile riferimento
delle loro pagine ribelli.
Se quello adombrato almeno dai primi due componimenti del poema
è una sorta di Purgatorio dei bruchi, potrebbe esserlo, come si
anticipava, anche per il poeta e per la sua poesia in tensione verso
quella voce «altra» che solo la contemplazione della Natura – e non
più della storia – può condurre ad attingere. Una contemplazione che,
pur soffermandosi sul ritmo naturale che prevede rinascite cicliche,
non cancella il portato decisivo della struttura rettilinea e irreversibile
della temporalità storica: la Natura, in seno alla quale la parabola dei
28 La tradizione filosofica occidentale, a partire dalle sue origini, tenta di rendere
ragione del mondo fenomenico, e quindi del divenire inteso quale passaggio
dal non-essere all’essere e viceversa, e dunque, come tale, in prima istanza contraddittorio.
Tra le risposte più feconde in vista di un superamento della contraddizione,
quella di Aristotele, che descrive il divenire nei termini di un passaggio
non tanto dal non-essere all’essere, quanto da una modalità di essere ad un’altra:
dal non-essere-ancora (potenza) all’essere pienamente (atto), a sua volta punto di
partenza (potenza) per ulteriori sviluppi (si veda Aristotele, Metafisica, IX). Nella
prospettiva di Hegel, lo ricordiamo, il divenire costituisce la sintesi di essere e nonessere
e la legge universale di ogni realtà.
[ 9 ]
366 monica bisi
bruchi si compie, rivive ad ogni stagione il proprio ritorno all’origine,
ma nel ritmo necessario del conservarsi sempre rinnovato della specie
si insinua il rimpianto per il «non esser più», per quella caduta nel
non-essere che dai singoli esemplari dei bruchi allarga la propria ombra
sull’individuo della specie umana. In consonanza con quanto vorrebbe
una fedele sequela della scuola schopenhaueriana, le due logiche,
quella ciclica della Natura che interessa la specie, quella lineare
della storia, che coinvolge da vicino l’individuo, non sono tuttavia
poste da Gozzano in aperto contrasto29: se in seno alle specie si ripropongono
circolarmente storie individuali che si compiono e si concludono
nel tempo, l’aspetto doloroso della prossimità al non-essere che
tutte le caratterizza sembra risolversi proprio nella prospettiva delle
nuove, altre, altrettanto individuali possibilità di rigenerazione che la
Natura stessa ciclicamente offre. Nella proposta di Schopenhauer
l’uomo che si riconosca compreso in questo meccanismo autorinnovantesi
guadagna preziosi strumenti per smascherare l’inganno del
principium individuationis e superare così l’infelicità che da esso deriva;
nei testi delle Epistole la forte insistenza sull’identità fra vita e morte e
sulla consonanza fra Natura e uomo riecheggia, sì, con leggerezza, le
pagine del filosofo di Danzica, ma nella dialettica fra «non essere più»
e «non essere ancora» lascia trasparire in filigrana l’imprescindibile
riferimento alla tradizione metafisica che lo ha preceduto.
Alla luce di queste considerazioni su una materia che si profila, nelle
Epistole, più complessa rispetto a quella delle due più celebri raccolte,
cercheremo di individuare, se e dove sarà possibile, forme retoriche
corrispondenti a tale complessità: la scelta di seguire i bruchi nel loro
divenire mantenendo uno sguardo preferenziale sulla specie, in una
drastica – ma non definitiva – riduzione dello spazio concesso all’io30,
29 U n brano che, pur nella sua sintesi, mi pare emblematico a riguardo si legge
in Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, a cura di Ada
Vigliani, introd. di Gianni Vattimo, Milano, Mondadori, 1995, IV, § 54, p. 396:
«Che la generazione e la morte siano condizioni proprie della vita, essenziali a
questa manifestazione della volontà, risulta nuovamente provato dal fatto che l’una
e l’altra si presentano solo come le espressioni potenziate di ciò che costituisce
tutto il resto della vita. La vita infatti non è che un flusso continuo di materia nel
seno di una forma permanente; quale è appunto la transitorietà degli individui
rispetto alla permanenza della specie».
30 Per questo si vedano Fornaretto Vieri, Metamorfosi e nostalgia dell’altrove
nella poesia di Gozzano, «Studi italiani», iii (2006), n. 1, pp. 51-72, ma ancor prima
Nivia Lorenzini, «I colloqui» di Guido Gozzano, in Letteratura italiana. Le opere, a
cura di Alberto Asor Rosa, iv: Il Novecento, t. i, Torino, Einaudi, 1992, pp. 4-33 e
[ 10 ]
la conversione della scrittura ne le farfalle di gozzano 367
implica infatti la ricerca di soluzioni formali adeguate. Toccando di necessità
anche il piano della sua espressione, la prospettiva assunta da
Gozzano nelle Epistole, che proprio nella retrocessione, per così dire,
dell’io trova il punto di maggior tangenza rispetto alla filosofia del
Mondo come volontà e rappresentazione, condurrà – come vedremo – quasi
in modo naturale, alla predilezione per forme poetiche che sembrano
prendere le distanze da quelle intensamente antitetiche, antifrastiche,
chiuse e ritornanti su sé stesse della Via del rifugio e dei Colloqui.
2. «Un volto solo»
Dopo le celebri affermazioni di Montale la critica non ha mai voluto
revocare apertamente in dubbio che Gozzano sia il poeta del contrasto,
dell’antitesi31, che fa «cozzare l’aulico con il prosaico»32. Le osservazioni
fin qui addotte invitano, tuttavia, a spingersi più in là e
ipotizzare, pur sommariamente, che Gozzano non sia stato solo il poeta
del contrasto, ma anche colui che per il contrasto ha desiderato
una conciliazione, un compimento, una sorta di inconsapevole Aufhebung:
concetto il cui senso originario di «superamento delle opposizioni
» è certamente mediato, all’inizio del Novecento, dalle riletture
di Positivismo e Spiritualismo, non senza influssi bergsoniani, ma non
per questo è meno significativo. Nell’attesa del «risveglio alato» delle
crisalidi, infatti, al termine delle varie fasi delle metamorfosi dei bruchi,
nella «stanza modesta» del poeta, divenuta «reggia del non essere
più, / del non essere ancora» (Le farfalle, vv. 100, 210-212), l’immagine
della vita e quella della morte non sono più in antitesi, ma formano
«un volto solo» (v. 220) dopo un percorso che, lo ribadiamo, assomiglia
ad una discesa agli Inferi. Se sono i versi delle Farfalle quelli più
esplicitamente improntati alla sintesi, all’unità dei contrari, le monografie
delle varie specie, anche se in misura diversa fra loro, cantano il
divenire in termini più vicini all’evoluzionismo corretto da Bergson, e
Ferdinando Pappalardo, Lo “spetro ideale”. Saggi su Gozzano Saba Montale, Bari,
Palomar, 2006, pp. 7-100.
31 Ad esempio, fatti salvi i già citati commenti alle edizioni delle raccolte: Antonio
Stäuble, Sincerità e artificio in Gozzano, Ravenna, Longo, 1972; Bruno Porcelli,
Nomi della lirica di Gozzano e dintorni (con Ermione, Arsenio, Dafne, Arletta), «Il
Nome nel Testo. Rivista internazionale di onomastica letteraria» (2000-2001), nn.
2-3, pp. 145-162, poi in Id., In principio o in fine il nome: studi onomastici su Verga, Pirandello
e altro Novecento, Pisa, Giardini, 2005, pp. 151-160.
32 E. Montale, Gozzano dopo trent’anni, cit., p. 1274.
[ 11 ]
368 monica bisi
lo fanno in molti modi: insistendo sia sulle contraddizioni dell’essere,
sia, soprattutto, sul loro superamento nei progressivi adattamenti reciproci
fra enti naturali nel corso del tempo; indugiando sullo stadio
intermedio fra i contrari; tracciando un itinerario in cui l’avvicendamento
di diverse fasi non è mai solo una semplice alternanza in tempi
successivi, ma è anche il guadagno di un grado superiore di sviluppo
e di complessità.
Gli esempi sono vari e numerosi: ricordiamo l’accordo tra insetti e
fiori in Anthocaris Cardamines («Insetti e fiori: […] come / v’accordaste
nei tempi delle origini?», vv. 59-60) e in Macroglossa stellatarum («All’apparire
della macroglossa / il caprifoglio congegnò sé stesso /
all’indole dell’ospite imprevista», vv. 88-90); il tempo concesso al volo
dell’Antocari stessa, un tempo decisamente intermedio («è la quinta
stagione […] / inverno già non più / non primavera ancora») unito
all’appello conclusivo che segna l’avvenuto compiersi della stagione e
il passaggio alla successiva («Aprile! Marzo andò: tu puoi venire!…»,
Anthocaris Cardamines vv. 16-18 e 81). E, ancora, la celebrazione, in Macroglossa
stellatarum, della capacità «d’elaborare la materia sorda / in
un’essenza non mortale» (vv. 161-162), cioè uno «Spirito» (v. 164) che
accomuna quale anelito «tutto ciò che vive sulla Terra» (v. 163) e pare
guidare i progressivi guadagni che uomo e Natura possono ottenere,
il loro dinamico trascorrere dal non-essere-ancora al ciò che devono
essere.
Il tema del divenire come progressivo accordarsi di istanze spesso
in opposizione o, più semplicemente, in apparente successione fra loro,
si snoda a più livelli: dalle caratteristiche fisiche degli insetti, a
quelle dei paesaggi, dallo svolgersi delle ere geologiche, all’operare
della Natura. Gli insetti, infatti, da un lato non sono quasi mai esenti
dalla paradossale convivenza, nel loro corpo e nel loro agire, di elementi
contrari e, dall’altro, sono conformati in modo da tendere ad
unirsi all’altro da sé («dispare[…] / appare, spare», Parnassus Apollo, vv.
89-90; «cresce vive coi germi della morte», Pieris Brassicae, v. 33; «e dalla
gaia larva, a smalti chiari, / nasceva […] la più tetra / delle farfalle»,
Acherontia Atropos, vv. 7-9; «e vollero l’amplesso dell’amante / lontano»,
Macroglossa Stellatarum vv. 53-54). Anche i paesaggi presentano tratti
contraddittori e una certa tendenza a dileguare nell’altro da sé o ad
adattarvisi («diede l’ali alla neve ed al ghiacciaio» Parnassus Apollo, v.
51; «tiepido è il sole, ma la neve intatta» Anthocaris Cardamines, v. 44;
«quando / il crepuscolo già cede alla notte» Acherontia Atropos, vv. 84-
85). L’esplicito riferimento al succedersi delle ere geologiche contribuisce
a dare enfasi al tema del tempo che scorre e dei cambiamenti che
[ 12 ]
la conversione della scrittura ne le farfalle di gozzano 369
porta con sé («ma da quanti millenni […] / giunse il genietto alato?»,
Parnassus Apollo, vv. 53-54; «Le pagine di pietra dissepolte / attestano…
», Anthocaris Cardamines, vv. 61-62; «paesi della favola / sopravvissuti
al tempo delle origini», Ornitoptera Pronomus, vv. 77-78); mentre
la considerazione del paradossale operare della Natura, che non solo
poco oculatamente «tenta ritenta elimina corregge», ma per correggersi
dimostra grande determinazione nell’incrudelirsi («per non perder
pietà si fa spietata», Pieris Brassicae, vv. 51 e 56), mette a fuoco il carattere
dialettico dei tentativi perpetrati nel suo percorso di evoluzione.
Nella Natura, infatti, sono quasi sempre due le realtà che, confrontandosi,
provocano un progresso, o almeno una novità: i fiori e gli insetti,
ma anche i paesaggi e gli insetti, che nel trascorrere delle ere si adattano
reciprocamente non solo ai fini della sopravvivenza, ma ai fini di
un incremento di vita e di bellezza. Ad un livello più elevato ed esteso
intuiamo addirittura un rapporto dialettico fra due realtà più spiccatamente
opposte: la materia e lo spirito, attraverso il dichiarato tentativo
– dell’uomo come del «genio […] / dell’Universo» (Macroglossa Stellatarum,
vv. 102-103) – di «trarre dalla materia il puro spirito» (v. 117).
Nonostante il più evidente influsso di un certo Evoluzionismo e di
un certo Spiritualismo, allora, la pervasività della struttura dialettica
nella rappresentazione del divenire nelle Epistole di Gozzano può aiutare
a chiarire anche che il cardine, contenutistico e formale, del poema
non può essere identificato con la altrove più fortunata figura
dell’antitesi, ma – per correctio più che per opposizione – con quella
della sintesi, e per di più una sintesi dinamica che si realizza solo nel
movimento che consente di trascorrere dal non-essere-ancora all’essere
fino al non-essere-più e che cerca forme espressive adatte in cui
tradursi. Non a caso Gozzano è poeta delle soglie, dunque dei passaggi,
dello scorrere di forme le une nelle altre, delle molte forme circolari
che alimentano quella che è una solo apparente ripetizione dell’identico,
soprattutto in natura: i versi conclusivi de L’assenza «i fiori mi
paiono strani: / ci sono pur sempre le rose, / ci sono pur sempre i
gerani» (vv. 30-32) incrinano, già nei Colloqui, il facile, positivistico,
prevedibile ritmo dell’eterno ritorno di alcune celebri strofe de L’Analfabeta
(«Tutto ritorna in vita e vita in polve», v. 118). Una ripetizione
dell’identico che, seguendo in realtà lo schema della spirale e non
quello del cerchio, cresce progressivamente verso una meta «sconosciuta
e certa»33, come la meta della spirale della dialettica hegeliana è
33 G. Gozzano, Macroglossa stellatarum, v. 152. Che ci sia un mutamento, o alme-
[ 13 ]
370 monica bisi
la conoscenza filosofica del vero e come la meta della spirale disegnata
dal fluire della terza rima dantesca coincide con la visione di Dio,
Verità posta ben oltre la mera conoscenza filosofica.
Per sostenere questo tipo di interpretazione, che vorrebbe ritrovare
il filo rosso di una sorta di ‘filosofia delle Farfalle’, è giunto ora il momento
di prendere in esame più da vicino le forme dell’espressione
del poema e cercare se ci sono costanti retoriche che possano essere
considerate come caratteristiche peculiari e costitutive dell’ultima
prova poetica di Gozzano e, per questo, capaci di proiettare su di essa
un particolare significato. Per l’essenziale legame che stringe forma e
contenuto in qualsiasi opera che voglia definirsi letteraria34, la natura
delle figure retoriche e la loro disposizione, come anche le scelte sintattiche
e i loro esiti sul ritmo illuminano di senso i contenuti che rappresentano
e costituiscono importanti spie capaci di guidare il lettore
nelle profondità di un testo che, come di consueto nella tradizione
letteraria, potrebbe andare oltre le intenzioni dell’autore stesso.
3. «Chiudere in versi» parole sciolte: la retorica delle farfalle
Per brevità consideriamo, a titolo di esempio, solamente quella che
già nel progetto originario avrebbe dovuto costituire la prima parte
del poema e percorriamo, in ordine, Storia di cinquecento vanesse e Le
farfalle35.
Se prescindiamo da quelli più descrittivi dedicati agli esperimenti
no un tentativo di cambiare prospettiva nel passaggio dalle due più famose raccolte
al progetto delle Epistole pare confermato da una dichiarazione d’intenti – per quanto
d’intenti, appunto, e da leggere considerando la propensione a mentire di cui dà
prova Gozzano – contenuta nella già citata lettera alla Guglielminetti (17 settembre
1908): «e questo farò nel libro che v’ho detto […] lettere a voi un po’ arcaiche […];
ma modernissime nel contenuto, fatte di osservazioni filosofiche nuove» (G. Gozzano,
Poesie e prose, cit., p. 1315, corsivo mio). Un’interpretazione interessante della «passione
per la ripetizione» nei versi di Gozzano, invece, è offerta da Claudia Di Carne,
Strutture formali della ripetizione in Guido Gozzano, Atti del VII Convegno nazionale
dell’ADI, Macerata, 24-27 settembre 2003, a cura di Simona Costa, Marco
Dondero, Laura Melosi, Firenze, Polistampa, 2004, ii, pp. 841-850.
34 Pierantonio Frare, Forme del male. Parodia e antitesi nell’Inferno di Dante, in
Peccato, penitenza e santità nella Commedia, a cura di Marco Ballarini, Giuseppe
Frasso e Francesco Spera, con la collaborazione di Stefania Baragetti, Milano,
Biblioteca Ambrosiana-Roma, Bulzoni, 2016, pp. 81-98: 81.
35 Il testo di riferimento è quello stabilito da A. Rocca in G. Gozzano, Tutte le
poesie, cit.
[ 14 ]
la conversione della scrittura ne le farfalle di gozzano 371
dell’«abate bergamasco», in Storia di cinquecento vanesse quasi ogni
verso o coppia di versi contigui contiene un parallelismo, fonico o sintattico,
o una ripetizione: germe-giorni (v. 12); quali/quali (vv. 13-14);
mutare e trasmutare (v. 17); varia-varie (v. 19); non vi par egli/non vi
par egli (vv. 20-21); (per gioco!) / (per gioco!) (vv. 78-79); tormentotormento
(v. 85); a voi-a voi (v. 87); altro bene non ha/altra salute non
ha (vv. 91-93); cerchia disegnata/cerchia disegnata (vv. 94-96); antichi
tempi/altri tempi (vv. 106-107); asceta/asceta (vv. 107-108); disseta/
sitibonda (vv. 112-113); dico dissi (v. 114); parole/paro (vv. 114-115).
Ad essi si devono aggiungere le contrapposizioni: germe-perfetti (v.
12); nova-arcaico (v. 80); vostro-mio (v. 85); il chiasmo Dio-asceta/
asceta-Dio dei vv. 106-108 incorniciato dal parallelismo; e, ancora, disseta/
sitibonda (vv. 112-113). La struttura portante appare dunque in
prima battuta binaria nelle modalità del parallelismo e dell’antitesi,
come di consueto nella scrittura di Gozzano. Tuttavia è anche evidente
che la sintassi si inarca fin dai primi versi, rallentando il ritmo e disturbando
l’orecchiabilità attraverso una fitta sequenza di enjambements36.
La frequenza delle inarcature si intensifica, significativamente,
in concomitanza di due punti strategici: nel dilatarsi di quella che
sembra un’esplicita dichiarazione di poetica (vv. 75-89), dove il lettore
non può che durare la fatica di seguire l’ipotassi fino al verbo reggente,
e, in chiusura (vv. 114-132), nella ricostruzione dell’occasione contingente
che ha offerto al poeta l’idea dell’opera.
L’imporsi dell’avversativa al v. 75 «Ma voi sorella non temete agguati
» incrina, dal punto di vista dei contenuti, le aspettative del lettore,
mentre sul piano formale ritmo e sintassi impongono di rallentare:
così viene introdotta la centrale dichiarazione di poetica. Il «ma» arresta
la corsa dei versi e richiama l’attenzione su uno scarto: quello che,
con dichiarata ironia, misura la distanza rispetto al poema didascalico
del Settecento (modello esplicitato e presto tradito) per porre tutta
l’attenzione sul moderno tormento dell’esistenza. Dopo la prima, perentoria,
avversativa che getta sul poema la sua luce inquieta, ancora
per due volte il «ma» entra nella sintassi in seno alla correctio, per spostare
lo sguardo del lettore verso il centro, per mettere a fuoco l’obiettivo,
avvicinando e subito allontanando, prima, il presunto modello
settecentesco («non la galanteria settecentesca», v. 82), poi, una filoso-
36 Li troviamo ai vv. 13-14; 55-56; 61-62; 65-66; 67-68; 76-77; 77-78; 78-79; 79-80;
81-82; 88-89; 91-92; 93-94; 94-95; 96-97; 98-99; 102-103; 105-106; 106-107; 109-110;
112-113; 119-120; 121-122; 123-124; 124-125; 127-128; 128-129.
[ 15 ]
372 monica bisi
fia che proponga un’idea astratta di individuo («non vede l’esemplare
astratto,/ma la specie universa», vv. 104-105):
queste pagine v’offro, ove s’aduna 81
non la galanteria settecentesca
ma il superstite amore adolescente
per l’animato fiore senza stelo.
E ancora:
Solo rifugio dove il cuore spento
vibri fraterno e riconosca l’Uomo
ché più non vede l’esemplare astratto,
ma la specie universa eletta al regno 105
del mondo.
Come si anticipava, in entrambi i casi, anche se non allo stesso modo,
mi pare si possa riconoscere una specie della figura retorica che
Lausberg classifica come correctio, vale a dire la figura per cui due termini
antitetici non sono posti sul medesimo piano, ma il secondo è
utile per correggere il primo tramite chiarificazione semantica (e conseguente
ampliamento della prospettiva)37.
Con un percorso attraverso alcuni testi esemplari del nostro canone,
ho cercato altrove di dimostrare che la correctio può essere assunta
come figura che rappresenta, dal punto di vista retorico, quella che a
livello dei contenuti costituisce un’esperienza, in generale e non necessariamente
in senso religioso, di conversione; una figura in grado
non tanto di opporsi, a propria volta, al contrasto istituito dall’antitesi,
ma di condurlo ad una sorta di soluzione, di superamento su un piano
diverso rispetto a quello in cui il contrasto nasce. In questo modo la
correctio si rivela figura estremamente dinamica, utile a illuminare
prospettive inedite e a rilanciare il percorso del testo, così come, sul
piano dei contenuti, la conversione può rilanciare il movimento di
una storia38. L’antitesi, così largamente impiegata nella Via del rifugio e
37 La correctio «consiste nel rifiuto di una parola […] non appropriata […] alla
cosa, nell’interesse della parte dell’oratore, e anche nella sostituzione della parola
con un’altra parola». Si cala in diverse formule sintattiche, tra cui non x, sed y, che
facilmente riconosciamo nei versi di Gozzano. Si veda naturalmente Heinrich
Lausberg, Elementi di retorica, Bologna, il Mulino, 19692, pp. 206-209.
38 Mi permetto di rimandare a Monica Bisi, Poetica della metamorfosi e poetica
della conversione: scelte formali e modelli del divenire nella letteratura, Bern, Peter Lang,
2012, pp. 223-258 in particolare. Uno stretto rapporto fra correctio ed esperienza
[ 16 ]
la conversione della scrittura ne le farfalle di gozzano 373
nei Colloqui, esprime invece, nella maggior parte dei casi, una visione
del mondo inscritta nello schema dell’eterno ritorno dell’identico e
improntata, in generale, alla logica della correlazione simmetrica, per
cui ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria, e così,
almeno a livello di possibilità logica, all’infinito. Si tratta dunque di
una figura statica, che rischia di insterilire la scrittura come la rappresentazione
nella fissità di una posa39. Se provassimo a ipotizzare che
questo tipo di lettura, che mi è stata suggerita da alcuni testi di Dante
e che ho potuto verificare in significativi esempi tratti da Tasso e Manzoni,
valga anche per l’interpretazione delle opere di Gozzano, potremmo
riconoscere nei versi d’esordio de Le farfalle, con le loro correctiones
unite agli enjambements atti a scardinare la ripetitività dei parallelismi
e delle contrapposizioni, un movimento, sintattico e semantico
insieme, che non torna su sé stesso per ridirsi, né instaura sterili opposizioni
fra concetti avversi: un movimento, insomma, di crescita, volto
ad una trasformazione che non si limita ad essere quella metamorfosi
che rappresenta, ma si fa conversione. Se Dante e Manzoni, per citare
solo gli esempi più illustri, hanno trovato nella terza rima40, nell’enjambement
e nella correctio41 le forme espressive per rappresentare le loro
esperienze personali di conversione, quelle dei loro personaggi e
quelle della loro scrittura (il passaggio dalla Vita nova alla Commedia è
una conversione della scrittura, come lo è, con i dovuti distinguo, quello
manzoniano dalle tragedie al romanzo), anche l’operazione di Gozzano
potrebbe assumere i tratti di una conversione. Almeno della
della conversione come leve che aprono nuovi orizzonti alle forme del testo e ai
relativi contenuti emerge dall’analisi delle celebri sequenze delle conversioni di
Ludovico-fra Cristoforo e dell’Innominato nei Promessi sposi. In particolare, per la
parabola di fra Cristoforo si veda Pierantonio Frare, La scrittura dell’inquietudine.
Saggio su Alessandro Manzoni, Firenze, Olschki, 2006, pp. 173-200.
39 Sulla fissità quale possibile parola-chiave dei Colloqui e sul ruolo giocato in
essi dalla ripetizione all’interno di un sistema chiuso si legga l’importante N. Lorenzini,
I colloqui di Guido Gozzano, cit., pp. 149-175: 157-160 in particolare.
40 Per cui si legga J. Freccero, Il significato della terza rima, in Id., Dante. La poetica
della conversione, cit., pp. 335-350 (ma anche, sempre nel medesimo volume, Un
pellegrinaggio a spirale, pp. 111-142 e Inversione infernale e conversione cristiana: Inferno
XXXIV, pp. 245-250).
41 Per l’impiego e il significato di enjambement e correctio nella produzione di
Manzoni si rimanda nuovamente ai testi indicati alla nota 38 e, inoltre, a Pierantonio
Frare, «L’amiche angustie». Saggio su Ognissanti, in I «cantici» di Manzoni.
«Inni sacri», cori, poesie civili dopo la conversione. Atti del Convegno, Ginevra, 15-16
maggio 2013, a cura di Giovanni Bardazzi, con la collaborazione di Georgia Fioroni
e Francesca Latini, Lecce, Pensa MultiMedia, 2015, pp. 285-315.
[ 17 ]
374 monica bisi
scrittura, in prima battuta, ma che merita di essere valorizzata per il
forte legame che unisce forme dell’espressione e forme del contenuto
e che dalla scrittura può irradiarsi all’esperienza e viceversa.
Oltre all’avallo di alcuni studi critici ricordati in apertura, confortano
l’ipotesi di una conversione almeno della scrittura sia l’auspicio
formulato in Pioggia d’agosto – di forte impronta dantesca – sia la prima
citazione dantesca di tutto il poema: «per volar su nata» (Storia di
cinquecento vanesse, v. 15), che paiono una sorta di conferma riguardo
alla prospettiva con cui leggere le Epistole. L’emistichio, che inaugura
una serie di significativi richiami alle tre cantiche, è tratto da Pg XII, da
un punto del viaggio a partire dal quale il cammino di conversione si
fa più agevole e sicuro dopo che Dante si è visto cancellare dalla fronte
la P della superbia, il peccato più difficile da superare42. La prima
traccia dantesca nelle Epistole è dunque purgatoriale e relativa ad
un’accelerazione sulla via della conversione, anche se immediatamente
seguita dal rimando ai cerchi più bassi dell’Inferno, e risponde allo
squarcio addirittura paradisiaco di Pioggia d’agosto, legato al tema del
ritorno dall’esilio: storico quello di Dante; forse esistenziale oltre che
poetico quello di Gozzano. I richiami ad un movimento di conversione
sono dunque molteplici e posti quasi in scorcio uno dentro l’altro.
Allo scopo di suffragare la tesi della conversione della poesia intravista,
per così dire, a partire dall’esame di alcune forme retoriche, ci
sposteremo ora sul piano dei contenuti, in particolare sulle immagini
dantesche con la loro capacità di attrarre significati al testo. Numerose
sono infatti, anche solo nei versi di Storia di cinquecento vanesse e delle
Farfalle, le tracce disseminate dai riferimenti alla Commedia: quel che
più importa è che la loro disposizione, che le innesta in contesti nuovi
in cui reagisce il loro significato originario, sembra disegnare le tappe
di un movimento analogo a quello della metamorfosi dei bruchi, tanto
da consentire di attribuire a quest’ultima un valore che va oltre quello
della metamorfosi intesa in senso classico.
4. Dante e il Purgatorio
Per ritrovare una condensata sequenza di esplicite immagini dantesche
in Storia di cinquecento vanesse si dovrà leggere l’ultima strofa
42 Anche in Una risorta troviamo la presenza di Pg XII, 118-119 ai vv. 31-32:
«levata s’è da me / non so qual cosa grave…». Per una convincente interpretazione
del prestito dantesco si legga D.M. Pegorari, Cercando «il volume foglio a foglio»,
cit., pp. 78-79; 92-93.
[ 18 ]
la conversione della scrittura ne le farfalle di gozzano 375
(vv. 114-132), che riporta il lettore al culmine del percorso purgatoriale
rappresentato nella Commedia: all’incontro del poeta con Beatrice, ai
rimproveri che l’amata gli rivolge, alla confessione e dunque alla purificazione
definitiva. La situazione costruita da Gozzano appare, però,
fin da subito rovesciata rispetto a quella di Pg XXXI: il luogo del
dialogo è una «landa sconsolata», le «parole» scambiate sono quelle di
una sapienza terrena ed è l’interlocutrice – non il poeta – a «soffrire» il
«velen dell’argomento»:
Queste che dico dissi a voi parole
or è già molto camminando a paro 115
per una landa sconsolata e Voi
mal soffrendo il velen dell’argomento
con la mano inguantata il ciuffo a sommo
coglieste d’un’ortica e mi premeste
sulla gota la fronda folgorante, 120
tortuosamente. Non mi punse quella
che più forte s’accosta e men ci punge
e nel gesto passare vidi un cumulo
minuscolo di germi di Vanesse
sulla villosa nervatura e forse 125
dal vostro gesto, ancor agropungente,
nato è il poema, poi che sul mistero
del piccolo tesoro accumulato
già in quell’istante con parole sciolte
taluna esposi delle meraviglie 130
che più tardi nel mio silenzio attento
passo passo tentai chiudere in versi.
In Pg XXXI, 75, mentre ascolta il discorso di Beatrice, Dante ammette,
come è noto: «ben conobbi il velen de l’argomento», esperienza
che qui tocca invece l’amata interlocutrice, la quale, a differenza di
Dante, mal sopporta un argomento che denuncia la natura delle «false
imagini di bene» da lei ricercate (nel v. 89 riecheggia Pg XXX, 131:
«imagini di ben seguendo false»), per proporre un itinerario altro, forse,
come per Dante, esistenziale e poetico insieme. Rispetto al giardino
del Purgatorio, allora, sono diversi il contesto spaziale (cielo/terra;
giardino/landa sconsolata); la relazione fra i personaggi (è il poeta
che rimprovera l’amata); la reazione ai rimproveri; il contenuto del
veleno. Ma analoga è la funzione del veleno in rapporto al riconoscimento
della verità. Se di fronte agli argomenti di Beatrice Dante abbassa
il volto e piange, l’interlocutrice di Gozzano reagisce ai rimproveri
– che implicitamente riconosce come legittimi – con un contrav-
[ 19 ]
376 monica bisi
veleno, nel simbolico gesto con cui strofina l’ortica sulla guancia del
poeta. Gesto che, pur nel capovolgimento, pare confermare il Purgatorio
come luogo letterario in cui inscrivere almeno questo incipit del
poema: «il ciuffo a sommo […] / d’un’ortica» (vv. 118-119) mi pare
evidente ripresa, almeno lessicale se non propriamente semantica,
dell’ortica del pentimento che punge Dante al termine della reprimenda
dell’amata («Di penter si’ mi punse ivi l’ortica», Pg XXXI, 85) e lo
prepara all’immersione nel fiume Lete. L’area semantica del pungere si
intensifica nei versi conclusivi del prologo gozzaniano, quando torna
per tre volte: «non mi punse»; «men ci punge»; «agropungente» (vv.
121, 122, 126), richiami che fungono da raccordo rispetto al successivo
Le farfalle e, contemporaneamente, servono ad inscrivere nel contesto
purgatoriale anche la sete («disseta», «sitibonda») e l’«acqua viva» dei
precedenti vv. 111-113: il rinvio – qui indiretto, ma evidente negli abbozzi43
– è a quella «sete natural che mai non sazia» (Pg XXI, 1) che
travaglia Dante mentre lo punge («pungeami», v. 4) la fretta nella via
difficoltosa al seguito di Virgilio.
Guardando a Dante, dunque, e alle relazioni carsiche che a partire
da una sola citazione rendono ragione di altre, non necessariamente
contigue, la situazione descritta nei versi finali di Storia di cinquecento
vanesse appare capovolta rispetto a quella purgatoriale, sia a livello dei
ruoli giocati dai protagonisti, sia a livello della materia, che scende dal
cielo alla terra nelle parole dell’«asceta d’oggi senza Dio» (v. 90), sia,
infine, per il fatto che veleno e ortica, in Pg XXXI entrambi legati a
Dante, vengono distintamente destinati il primo ad Amalia, la seconda
a Guido, il quale però assicura che l’ortica non lo punge, contrariamente
a quella che in Dante assurge a metafora del pentimento. Sembrerebbe
dunque lecito leggere l’insieme delle tessere dantesche
nell’ottica del capovolgimento, della consueta ironia, del distacco parodico
dal modello44. Se però consideriamo nuovamente l’ortica, la cui
presenza impone il richiamo ai rimproveri di Beatrice e fa risalire il
lettore alla cima del Purgatorio, non possiamo fare a meno di notare
alcuni particolari che richiedono un’ulteriore riflessione. Ciò che non
tocca il poeta è il carattere vendicativo di un gesto chiuso all’invito di
43 Si veda naturalmente G. Gozzano, Tutte le poesie, cit., p. 450.
44 Guglielminetti parla, per questa occorrenza, di un Dante «coniugato in proprio
» che si fa qui «memoria ironica» (Marziano Guglielminetti, La musa subalpina.
Amalia e Guido, Pastonchi e Pitigrilli, Firenze, Olschki, 2007, p. 123. Il capitolo da
cui è tratta la citazione, Gozzano e la pratica della letteratura (pp. 49-188) ripropone, con
opportuni adattamenti, la monografia Introduzione a Gozzano, Bari, Laterza, 1993).
[ 20 ]
la conversione della scrittura ne le farfalle di gozzano 377
cambiare direzione poetica (e magari esistenziale): azione sterile, incapace
di provocare persino la conseguenza più ovvia45. Quello che è
invece importante è che l’efficacia del contravveleno è altra ed agisce
su un piano che va oltre quello fisico, interessando il senso interno,
l’immaginazione, la fantasia, nel senso aristotelico del termine: la scena,
infatti, si imprime nella memoria del poeta (il gesto è «ancor agropungente
») e pare destinata a rimanere attiva per tutta la stesura del
poema, sul quale proietta la propria natura e la propria consistenza,
perché «redimita di fronde agropungenti» è la Musa che ispira tutte le
Epistole. È dal gesto dell’amata – lo suggerisce Gozzano stesso sebbene
con la sfumatura ipotetica del «forse» (v. 125) – che nasce il poema46,
un gesto che, oltre a rimanere impresso in una memoria che poi lo
canterà, rinvia contemporaneamente ad un episodio cruciale di pentimento
che coinvolge il protagonista della Commedia e potrebbe essere
ricondotto, per analogia, ad una sorta di pentimento poetico dopo il
quale Gozzano inaugura un nuovo linguaggio: sebbene traguardato
da lontano, il modello dantesco sembra funzionare senza parodia, almeno
dal punto di vista dell’inventio.
Le spie lessicali finora considerate conducono a ipotizzare che già
45 Azione che diventa ancor più significativa se è lecito accostarla per esplicita
somiglianza ad un celebre luogo de l’Analfabeta, in cui l’autore fa dire al vecchio,
rivolto al poeta stesso: «Fissa il dolore e armati di lungi, / ché la malinconia, la
gran nemica, / si piega inerme, come fa l’ortica / che più forte l’acciuffi e men ti pungi
» (vv. 101-104, corsivi miei). L’equazione stabilita fra ortica e malinconia potrebbe
aiutare a chiarire anche la reazione del poeta rispetto al gesto dell’amata: ciò che
non lo punge non è solo l’ortica, ma il referente occulto che essa veicola, vale a
dire la malinconia: forse il rimpianto per il suo ‘vecchio’ modo di poetare, che allora
egli si lascerebbe qui davvero dichiaratamente alle spalle, o, più radicalmente,
la malinconia che fa parte dei contenuti delle due raccolte precedenti.
46 Il poeta e la poesia rifiutano qui la forma chiusa dell’azione-reazione e ‘salvano’
quanto di positivo c’è nella provocazione dell’amata, apparentemente sterile
e inscritta nella logica vendicativa, proiettandolo sul piano dell’inventio: il poeta, in
quanto tale, si sottrae ad un rapporto di opposizione rispetto alla donna, guadagnando
qualcosa di nuovo, valorizzando un aspetto, un suggerimento, un’intuizione
rivelatori contenuti nel suo gesto. Dal punto di vista logico il poeta cerca qui
di superare la struttura dell’antitesi, della mera contraddizione, e spostare il problema
su un piano altro: una soluzione analoga a quella che si è indicata quale
propria dell’esperienza della conversione. Anche se in questo caso l’analogia si
ferma, genericamente, al tentativo di proporre una prospettiva nuova che interrompa
la sterile ripetitività delle opposizioni, personali e retoriche, è doveroso notare
che, come la rappresentazione della conversione può rimettere in moto una
storia che rischia di arenarsi, così il superamento della logica vendicativa mette in
moto la vita di quello che vorrebbe diventare un poema.
[ 21 ]
378 monica bisi
in questa sede proemiale Gozzano voglia stabilire un rapporto con
Dante diverso rispetto a quello che segna le raccolte precedenti. Se è
acquisizione di almeno una parte della critica la tesi secondo cui le sue
citazioni letterarie non costituiscono meri ornamenti del dettato, in
questo caso è forse ancor più urgente decodificarne il significato: nel
passaggio – audacemente dantesco – fra la chiusura dei Colloqui e l’apertura
delle Epistole, infatti, sembra che anche l’ironia, insieme al verso,
al ritmo e alla sintassi, conosca una sorta di torsione, tanto che le
tessere dantesche non pare possano essere lette unicamente nella prospettiva
a tratti dissacrante che caratterizza molta della produzione
del primo Gozzano47. La cornice purgatoriale in cui sembra iscriversi
il proemio, una sintassi prevalentemente inarcata e lenta nel ritmo e il
ricorso alla correctio costituiscono, infatti, un sistema in cui forme del
contenuto e forme dell’espressione richiamano un ben preciso percorso
di conversione, ricalcandone, forse inconsapevolmente, anche la
poetica.
Ulteriori elementi appartenenti alla sfera dei contenuti sembrano
suffragare l’ipotesi che le intenzioni dell’autore, con il progetto delle
Epistole, siano quelle di muoversi su un terreno nuovo rispetto alla sua
produzione precedente: innanzitutto le anticipazioni di Una risorta,
nei cui versi Gozzano promette arditamente «un volume / su queste
prigioniere [le crisalidi]» (vv. 95-96) nel quale dirà di loro «cose non
dette ancora» (v. 100) e il già ricordato auspicio che chiude Pioggia
d’agosto. Si aggiunga, inoltre, l’enfasi posta sull’aggettivo «nova» in
Storia di cinquecento vanesse, sia nel punto centrale della dichiarazione
di poetica, in cui l’aggettivo è in apertura di verso, in enjambement e in
chiasmo rispetto ad «arcaico» («come s’offre / nova un’essenza in un
cristallo arcaico», vv. 79-80); sia, pochi versi dopo, nella smagata, implicita
dichiarazione di appartenenza del poeta alla schiera degli
«asceti d’oggi senza Dio» (v. 108) che sentono nel cuore «una grazia
nova illuminante» (v. 110). Questi meri dati che appaiono ad un primo
esame, ma che non bastano a convincere, tanto più nel caso di Gozzano
per il quale un’interpretazione letterale rischia di fuorviare, e i rilievi
che provengono dall’analisi retorica della prima parte di questo
lavoro si offrono vicendevole sostegno: una più accentuata predilezione
per l’enjambement, la presenza di correctio, l’impiego dell’endecasillabo
sciolto, che per sua natura libera il verso dalle forme chiuse spes-
47 Per un penetrante esame dell’evolversi del rapporto di Gozzano rispetto a
Dante rimando ancora a P. Fasano, Il bello stile negli esili versi, cit. e a D.M. Pegorari,
Cercando «il volume foglio a foglio», cit.
[ 22 ]
la conversione della scrittura ne le farfalle di gozzano 379
so preferite nelle raccolte giovanili, vanno di pari passo rispetto alla
scelta di contenuti più dinamici. Non solo è nuova l’essenza che l’autore
vuol porgere ai lettori in grazia del nuovo spirito, quello immanente,
guadagnato da chi afferma di aver distolto lo sguardo da Dio e
dalla ricerca della gloria mondana: a dispetto del dichiarato «cristallo
arcaico», è nuova anche la forma con cui viene espressa tale «essenza»48.
È forse questo il dato più significativo che rende credibili – addirittura
loro malgrado? – le esplicite dichiarazioni d’intenti di Gozzano. Le
«cose non dette ancora» sulle crisalidi non possono allora essere quelle
che, troppo facilmente smascherabile e dunque doppiamente depistante,
Gozzano attinge a Maeterlink o a Betti: esse vanno ricercate ad
un altro livello, quello, indicato a più riprese dalla critica ma, mi pare,
non affrontato dal punto di vista formale, della conversione della poesia,
dell’«altra voce» che Gozzano vuole per sé dopo i Colloqui, con
l’audacia – questa volta, sì, del tutto autoironica – di avvicinarla a
quella che Dante fa risuonare nella terza cantica della Commedia. Nel
passaggio dalle anticipazioni dell’ultimo capitolo della Vita nova a
quello che diventerà il «poema sacro», in un punto che segna senza
alcun dubbio un movimento di conversione della poesia, Dante infatti
promette: «io spero di dicer di lei [Beatrice] quello che mai non fue
detto d’alcuna», e nel Paradiso dice dell’«altra voce» con cui desidera
tornare nella sua Firenze49. Due riferimenti cruciali, la cui condivisione
da parte di Gozzano può non essere del tutto letterale, ma che necessita
comunque di essere problematizzata affinché non siano entrambi
semplicemente rubricati fra i rovesciamenti parodici.
Per Gozzano si tratta di una conversione forse solo all’inizio, forse
unicamente poetica. Tuttavia, che non sia solo una questione di mera
forma potrebbe suggerirlo una postura che caratterizza le Epistole, vale
a dire il fatto che la loro poesia rimane solo apparentemente circoscritta
nel terreno dell’immanenza. Da Storia di cinquecento vanesse
all’ultima monografia, infatti, la prospettiva immanente è attraversata,
con l’atto del volo, da una forte tensione verticale nello spazio, segno
forse di un desiderio di sporgersi verso l’ulteriore, dal «poeta disteso
sull’abisso» di Parnassus Apollo (v. 98) al «dono» dato all’uomo
48 Il rovesciamento ironico («nova un’essenza in un cristallo arcaico», v. 80) del
monito evangelico di Lc 5, 38: «Ma il vino nuovo va messo in otri nuovi» (si vedano
anche Mt 9, 17 e Mc 2, 22) si rivela allora solo apparente e, di conseguenza, più efficacemente
straniante, soprattutto in un contesto in cui il poeta si assimila ad un
«asceta» «senza Dio» (v. 90).
49 Cfr. Vita nova, XLIII e Pd XXV, 7-8.
[ 23 ]
380 monica bisi
– che si identifica con la sua «meta» – «d’elaborare la materia sorda /
in un’essenza non mortale» di Macroglossa Stellatarum (vv. 161-162)50.
D’altra parte, fin dai primi versi della Storia il poeta promette che canterà
di come la sua schiera di Vanesse giunge «dal germe ai più perfetti
giorni» (v. 1), schema che traccia il disegno di una crescita, di un
viaggio, di un divenire (che è anche quello del divenire di un verso nel
successivo tramite i numerosi enjambements), ma con una meta precisa,
che coincide con una pienezza: i giorni sono infatti «perfetti». Pur
trattandosi di un itinerario che gli insetti compiono interamente nella
dimensione terrena, il poeta insiste sulla verticalità, su uno slancio che
diventa volo e che, nella cornice di simboli che legano la farfalla all’anima,
si fa metafora del desiderio di una dimensione che all’anima
meglio corrisponda. Quello «di oggi» è «senza Dio», ma è pur sempre
un «asceta», capace di intravedere nella materia uno spirito che la anima
e soprattutto la ordina ad una meta, e segnando così quello che mi
pare un importante scarto rispetto alle raccolte precedenti. Il divenire
rappresentato nella prima parte delle Epistole non risponde più alle
leggi materialistiche proclamate tra i versi de La via del rifugio: segue
piuttosto un percorso spiraliforme che consiste nella ‘trasformazione’
di ogni ente in ciò che deve essere. Un percorso di conversione «senza
Dio», senza il Dio personale della tradizione cristiana, ma pur sempre
un passaggio dal non-essere più al non-essere-ancora fino all’essere
pienamente in atto, seppur per un tempo determinato.
Monica Bisi
Università Cattolica
del Sacro Cuore – Milano
50 A ben guardare, anche l’immagine dell’abisso che tanto ritorna nei versi di
Gozzano può essere intesa come spinta alla verticalità: basti ripensare al rovesciamento
di prospettiva cui invita La vertigine di Pascoli. Che la riflessione di Gozzano
nelle Farfalle non si esaurisca nel ristretto spazio della dimensione immanente è
confermato da F. Vieri, Metamorfosi e nostalgia, cit., p. 71. Per notare, infine, un significativo
scarto rispetto alla prospettiva delle raccolte precedenti si confrontino
le caratteristiche dello «Spirito immanente» alla natura di cui dicono le Epistoleconquelle
della cieca necessità che governa il divenire ne La via del rifugio (Nemesi in
particolare).
[ 24 ]
Agata Irene De Villi
Il volto mistico dell’erotica in Mario Soldati
Soffermandosi su Le lettere da Capri, il presente studio analizza la natura e le
forme che l’eros assume nella pagina soldatiana, leggendolo alla luce di quella
religiosità secentesca promossa dallo scrittore torinese a chiave euristica dei
fenomeni dell’esperienza, nella cui ottica il libertinismo si presenta come lo
specchio rovesciato dell’amore mistico, entrambi testimoni di una mancanza
originaria, di una perdita inaccettata e tuttavia irrisarcibile, che condanna l’individuo
a un’erranza permanente.

Examining Le lettere da Capri, this essay analyses the nature and forms of eros in
Soldati’s writing from the standpoint of that Seventeenth-century religiosity
fostered by the writer from Turin in an effort to understand heuristically the
phenomena of existence. Libertinism proves to be the flip side of mystic love,
both bearing witness to an original lack, to an inacceptable and irreversible loss
that constrains the individual to wander perpetually.
Incentrato sulla spasmodica ricerca di una voluttà suprema inacquisibile
e tuttavia sempre ossessivamente bramata, Le lettere da Capri
potrebbe essere visto come un romanzo-manifesto della parabola erotica1
che scandisce la narrativa soldatiana. Confrontandosi per la prima
volta con la forma canonica del romanzo, lo scrittore torinese prende le
distanze da qualsiasi obbligo di ingaggio civile e inscena la battaglia
privata dell’individuo alle prese con la propria condizione desiderante,
di fatto spiazzando i critici, allora assorbiti da una spesso trionfante
ideologia che aveva animato tanta letteratura di guerra e di resistenza,
ma al contempo intercettando nell’Italia conservatrice degli anni Cinquanta
un bisogno di rinnovamento del costume. La scelta di uno stile
nitido, comunicativo, apparentemente immediato – in realtà frutto di
Autore: Università di Bari; assegnista; agatadevill@gmail.com
1 Cfr. L. Parisi, L’ossessione erotica di Mario Soldati, «Giornale storico della letteratura
italiana», 2004, n. 4, pp. 573-590.
382 agata irene de villi
un paziente lavoro di rifinitura e contaminazione volto alla ricerca di
quell’«eco melodiosa»2 che a suo dire contraddistingue gli autori classici
–, insieme alla leggerezza tipica della pagina soldatiana, tutta intrisa
di ilarità, non hanno certo facilitato la comprensione della complessità
di una scrittura eclissata anche dal «camaleontismo etico»3 dell’autore,
la cui impudente ironia è stata vista come elemento narcotizzante
la veemenza dello sdegno4. Ne emersa di conseguenza l’immagine di
un narratore sottile ma non profondo, immune ai travagli spirituali in
quanto tutto fagocitato dai deliziosi tormenti della carne. In verità l’indulgenza
dello sguardo soldatiano obbedisce a una inesauribile curiosità5
che lo emancipa dal marmoreo rigore giansenistico, facendone un
moralista senza morale6, inguaribilmente attratto dai rovelli che assediano
i suoi personaggi come fosse un confessore non giudicante, un
amico dall’aria bonaria, salvo poi riservarsi la possibilità di dirigerne i
destini verso rotte paradisiache o infernali. La sua feconda leggerezza
nasce da uno spiccato amore per il mistero della vita, per il suo incoercibile
polimorfismo sempre pronto a travolgere qualsiasi argine tenti di
arrestarne il flusso, la complessità non riducibile a un’idea chiara e distinta.
Di qui la convinzione di una similitudine degli individui, siano
essi autori o lettori7, narratori o personaggi, diversi eppure uguali nella
precarietà ontologica del loro io, attante di una commedia camaleontica
e imprevedibile in cui l’alternarsi di maschere e ruoli non costituisce
un limite, semmai un traguardo, una vitalistica tentazione mossa da un
irrefrenabile desiderio di alterità, da una estrema apertura prospettica,
dall’insofferenza per ogni fissa dimora8. «La felicità vera consiste sem-
2 M. Soldati, Rami secchi, Milano, Rizzoli, 1989, p. 51. Cfr. in merito G. Corsinovi,
La scrittura di Mario Soldati, in G. Ioli (a cura di), Mario Soldati: lo specchio inclinato.
Atti del convegno internazionale, San Salvatore Monferrato, 8-9-10 maggio
1997, San Salvatore Monferrato, Edizioni della Biennale «Piemonte e Letteratura»,
1999, pp. 131-142.
3 E. Morreale, Mario Soldati. Le carriere di un libertino, Bologna, Cineteca di
Bologna, 2006, p. 51.
4 G. Davico Bonino, Con Mario Soldati, tra attrazione e repulsione, in Id. Tiro libero.
Giornale letterario 2009, Torino, Aragno, 2010, p. 53.
5 Cfr. G. Bárberi Squarotti, La curiosità morale, in G. Ioli (a cura di), Mario
Soldati: lo specchio inclinato, cit. pp. 41-57.
6 S. Verdino, I romanzi gesuitici di Soldati, ivi, p. 73.
7 Pasolini parla in proposito di una «fraternità» della scrittura, scevra da qualsiasi
forma di autoritarismo; P. P. Pasolini, Descrizioni di descrizioni, in Id. Scritti
sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude con un saggio di C. Segre,
Milano, Mondadori, 1999, p. 2175.
8 Parlando di Tellaro in un’intervista, Soldati confessa il suo sogno di una di-
[ 2 ]
il volto mistico dell’erotica in mario soldati 383
pre in un senso di ubiquità – scrive Soldati –, di libertà, anzi di liberazione:
liberazione dal tempo e dallo spazio che ci costringono»9. Non a
caso nelle Lettere da Capri, libro dinamico ma non lieve10, i traditi sono
anche traditori, le madri sono anche adultere, gli amici sono anche nemici,
le prostitute sono anche sante. Ambientato in uno spazio cosmopolita
snodantesi tra gli Stati Uniti, l’Italia e la Francia – in una contrapposizione
tipicamente jamesiana tra vecchio mondo aristocraticamente
raffinato e affascinante e un’America intrappolata in puritane convenzioni
sociali –, il romanzo mette in scena un gioco complesso di specchi,
in cui al tradimento di Harry – uomo di ottima cultura artistica
tutto diviso tra un sentimento d’affetto nei confronti della moglie Jane
e un desiderio ossessivo verso Dorothea, probabile prostituta dalle fattezze
felliniane11 chiaramente rimandante, ma solo esteticamente, a un
modello antipetrarchesco di femminilità – subentra quello della moglie,
la cui attrazione per l’amante Aldo le fa persino dimenticare suo
figlio, convertendo la purezza dalla figura materna in un personaggio
torbido in preda a un erotismo feticista e maniacale.
Inutile, più ci pensavo e più capivo che Jane e io eravamo fatalmente
solidali, eravamo uniti e confusi nel bene come nel male; e che, in un
modo o nell’altro, tutti gli esseri umani lo sono; i traditori traditi; e i
traditi traditori. Ciascuno, chiuso nel proprio egoismo, si crede un
giorno in diritto di abbassarsi, di godere una viltà che non danneggi il
prossimo; ma s’inganna: codesta viltà non è mai innocua, si propaga, si
moltiplica, rimbalza. Insomma, sembra che il peccato sia regolato dalla
stessa legge che regola la virtù; sia anche quello, non meno di questa,
una forma di amore12.
Nella sua «moralità mai del tutto innocente, e mai del tutto colmora
in movimento: «[…] viaggiare con i carrozzoni da zingari trasformati in biblioteca
circolante. La mia casa sarebbero quattro o cinque roulotte tutte scaffali»,
M. Soldati, La boutique Soldati, «Corriere d’informazione», 2-3 gennaio 1960.
9 Id., Lo specchio inclinato. Diario 1965-1971, Milano, Mondadori, 1975, p. 90.
10 B. Falcetto, Soldati, un «mimetico libero», in M. Soldati, Romanzi, Notizie
sui testi a cura di S. Ghidinelli, Milano, Mondadori, 2006, p. XLVI.
11 «Si direbbe che il tipo femminile fatto per Soldati tenda a fissarsi in queste
massicce matrone, che nell’abbondanza delle carni, nel soverchio delle stature, in
alcun che di primitivo e barbarico, fanno pensare a sirene, gigantesse ed altre deità
sottomarine del Caso Motta. Le quali, pur d’essere accolte nel mondo degli uomini,
si fossero adattate a battere i marciapiedi, o prestarsi, in alberghi e pensioni d’infimo
ordine, come cameriere e serventi (è proprio il caso di dirlo) “a tutto fare”», E.
Cecchi, Di giorno in giorno, Milano, Garzanti, 1954, p. 230.
12 M. Soldati, Le lettere da Capri, in Id., Romanzi, cit., pp. 199-200.
[ 3 ]
384 agata irene de villi
pevole»13, Soldati mette in guardia il lettore da una manicheistica distinzione
dei ruoli, sospingendolo nei territori del dubbio che vale
come sospensione di ogni facile e semplicistico giudizio. Lo stesso affetto
che Mario – il narratore regista – dimostra nei confronti del vecchio
amico Harry, commissionandogli un soggetto cinematografico
nel tentativo di aiutarlo ad uscire da un impasse economico ed esistenziale,
è ben presto complicato dalla brama di possedere Dorothea
ad ogni costo, fosse pure contravvenendo ai sacri doveri dell’amicizia,
senza disdegnare nemmeno gli inganni delle lusinghe14. Negli affreschi
soldatiani le ragioni dell’etica finiscono insomma sempre per cedere
di fronte agli spasmi della passione, mentre la scrittura «non arretra
davanti a nulla»15, sottoponendo i personaggi al martirio dell’inquisizione.
Volevo bene a Harry, lo stimavo: il mio progetto dunque non era molto
bello. Ma cosa c’entra, mi dicevo finalmente […], cosa c’entra un’avventura,
un breve piacere, con il rispetto e l’amicizia?[…] Perché dunque
per un così breve piacere barattare il lungo, se pur lieve, dolore del
rimorso? Perché incrinare la mia amicizia con Harry, finora integra?
Ma proprio per questo, ritorceva il diavolo. Quella donna, se non te ne
cavi la curiosità, sarà sempre tra voi due. Curiosità, non passione. Proprio
per salvare l’amicizia tu devi, in piccolissima parte e per brevissimo
tempo, tradirla16.
Tutto fondato su una dinamica di caduta e salvezza, Le lettere da
Capri si presenta come un romanzo di un «cattolicesimo paradossale»,
giacché Soldati, «che pure aspira a una patente di laicità, sa che non
c’è chiave più valida per la decifrazione della realtà di quella che ci
può essere offerta dal sistema cristiano del peccato, della penitenza,
della redenzione»17. Il cattolicesimo è per Sodati un modus videndi, le
cui radici sono rintracciabili nella formazione gesuitica dell’autore.
Sono rimasto amico dei Gesuiti, ho maturato una profonda stima per
loro, per il loro modo di vedere le cose, di pensare. Erano intelligenti,
studiosi, preparati, insegnavano bene latino e greco, insegnavano a di-
13 Come rileva S. S. Nigro nella sua raffinata introduzione a M. Soldati, L’amico
gesuita, a cura di S. S. Nigro, Palermo, Sellerio, 2008, p. 11.
14 M. Soldati, Le lettere da Capri, in Id., Romanzi, cit., pp. 26-27.
15 M. Onofri, Prefazione, in M. Soldati, Lettere da Capri, Torino, UTET, 2006, p.
38, poi in Id., Tre scrittori borghesi: Soldati, Moravia, Piovene, Roma, Gaffi, 2007, p. 31.
16 M. Soldati, Le lettere da Capri, cit., pp. 22-23.
17 L. Baldacci, Introduzione a Le lettere da Capri, Milano, Bompiani, 1996, p.
VIII, poi in Id., Novecento passato remoto, Milano, Rizzoli, 2000, p. 295.
[ 4 ]
il volto mistico dell’erotica in mario soldati 385
stinguere, questo è fondamentale. Da loro ho anche imparato il gusto
della libertà18.
Sensibile al distingue frequenter, il gesuitismo di Soldati genera
quella tipica apertura alla casistica, che spinge lo sguardo a inseguire
i détours della mente sino al paradosso, architettando intrecci complessi
e avvincenti in cui l’oscillazione tra bene e male, tra principio di realtà
e principio di piacere, tra curiosità e mistero, si radicalizza senza
giungere tuttavia ad alcuna soluzione, limitandosi alla messa in scena
di un giallo morale19 in cui lo scioglimento degli eventi è secondario
rispetto alla rivelazione di una sfumatura psicologica che possa portare
alla luce della coscienza gli autoinganni e le menzogne che corrompono
personaggi e narratori. Restio a qualsiasi netta distinzione tra
colpevoli e innocenti, Sodati, infatti, non transige sull’ipocrisia, forse
l’unico peccato davvero riconoscibile nel catalogo morale dell’autore
per il quale, come osservava già Ansaldo, «la dissimulazione del peccato
è peggiore del peccato stesso»20. L’habitus cattolico si unisce, dunque,
a uno spiccato gusto per l’avventura esistenziale, che Soldati eredita
da Stevenson, suo nume tutelare21, col quale condivide la gioiosa
apertura al caso, l’amore per il gioco inteso in senso ontologico, in
quanto specchio della vita stessa, il cui infondato divenire si riflette
anche nella narrazione, capace a suo modo di «rifare la vita nel suo
stesso sviluppo, senza forma e senza scopo, la vita morbida e incantevole,
dal volto di Medusa»22.
Entrare in un Casinò vuol dire uscire dalla vita di ogni giorno, dimenticare
tutto, tutto sperare: soglia magica che basta attraversare, e il cuore
batte a un ritmo diverso, si respira un’aria nuova: il potere, il piacere,
la libertà non sono più il lontano traguardo di quotidiane fatiche e
tormenti, non sono più l’avvenire in cui continuiamo caparbi a credere
18 D. Lajolo, Conversazione in una stanza chiusa con Mario Soldati, Milano, Frassinelli,
1983, p 14.
19 E. Morreale, Mario Soldati. Le carriere di un libertino, cit., p. 77.
20 G. Ansaldo, Un cristiano in tentazione, «Il Borghese», 1 febbraio 1951, poi in
«Riviera Ligure», 6, ottobre 1991-gennaio 1992, p. 71.
21 «Santo Stevenson, aiutami», annota nel diario, cercando l’ispirazione per un
racconto (M. Soldati, Un prato di papaveri. Diario 1947-1964, Milano, Mondadori,
1973, p. 151); e ancora, «Ci voleva, e ci vuole Stevenson, perché io perda la
testa»(Id., Rami secchi¸ Milano, Rizzoli, 1990, p. 62).
22 Sono queste le parole che Soldati utilizza per descrivere Il buon soldato di
Ford Madox Ford: a suo dire, «il capolavoro della più moderna letteratura mondiale
», un’efficace sintesi tra Stevenson e James; M. Soldati, Un prato di papaveri,
cit., p. 356.
[ 5 ]
386 agata irene de villi
sebbene non passi giorno senza che ne dubitiamo, non sono più un
sogno ma concreta realtà a cui manca, per non restare un sogno, solo
l’aiuto del caso.
Secondo questa interpretazione, il casinò si opporrebbe alla vita è tutto
ciò che la vita: non è. Ma, secondo un’altra interpretazione, più sottile,
il Casinò, al contrario racchiude e concentra in sé tutti gli aspetti della
vita, spogliandoli dalle loro apparenze, riducendoli alla loro nuda sostanza,
e riproponendoli allo stato puro del loro rapporto con noi23.
La stessa struttura multiversa della narrazione, articolata tra la forma
epistolare canonica e la sceneggiatura-confessione che Harry scrive
per il regista, mima a sua volta la complessità dell’intreccio, proponendo
un esempio originale di romanzo epistolare in cui alla perentorietà
del documento fa da controcanto la levità del gioco dalle ipotesi
multiple24, sapientemente gestito dallo sguardo equilibrato di un narratore
ottocentesco25, che segue curioso ed empatico le infernali vicende
dei propri alter-ego novecenteschi. È il caso di Harry e Jane, creature
mosse dalla forza propulsiva del desiderio che agisce su di essi come
fosse un daimon, condannandoli a un’erranza eccedente qualsiasi
misura e qualsiasi capacità di controllo. Data la centralità che il desiderio
ricopre nella pagina soldatiana, sarà opportuno indagarne la
natura e le forme che di volta in volta assume. Secondo Garboli il desiderio
è vissuto in opposizione ai valori familiari, al ruolo genitoriale
o coniugale. I personaggi paiono vittime di una «scissione, a livelli
schizoidi, tra l’istinto del piacere e i valori famigliari, tra erotismo e
affettività (il desiderio non tiene famiglia) […] vissuta in termini che
non trovano riscontro nella nostra tradizione»26.
Vidi Jane la prima volta a un party […]. Provai subito per lei una estrema
tenerezza, quasi una pietà. Mi pareva, così piccola, fragile, nervosa,
intelligente, sofferente, che avesse bisogno di protezione; e che mi
spingesse verso di lei, fin dal principio, un sentimento arido, malinconico,
onesto ed inesorabile, che ricordava il mio affetto per mia madre
e che aveva, assurdamente, il gusto amaro del dovere; non il dolcissimo
dell’amore, né l’inebriante del piacere27.
23 Id., L’attore, Milano, Mondadori, 1970, p. 97.
24 P. Frassica, Le “Lettere da Capri” e le varianti della discrezione, in G. Ioli (a
cura di), Mario Soldati: lo specchio inclinato, cit. p. 15
25 C. Garboli, Prefazione a M. Soldati, Opere, I, Racconti autobiografici, Milano,
Rizzoli, 1991, p. XIV.
26 Ivi, p. 904.
27 M. Soldati, Le lettere da Capri, cit., p. 33.
[ 6 ]
il volto mistico dell’erotica in mario soldati 387
Dorothea la desiderai subito con quel trasalimento, con quello smarrimento,
con quel timore, con quella disperazione, con quella coscienza
assurda della mia indegnità che segnalavano, alla parte di me ancora
capace di ragionare, una donna conforme ai miei sogni: se fossi italiano
forse avrei detto, una donna conforme ai miei gusti28.
Gli occhi di Dorothea erano forse quello che io desideravo che fossero.
Misteriosi, severi e corrucciati come io li amavo. In ogni modo, li amavo,
vi sognavo, mi ci perdevo dentro, dimenticavo tutto. Mi pareva che
avrei potuto continuare a fissarli senza stanchezza per un tempo lunghissimo.
Difatti lo facevo29.
Avvalendosi delle teorie freudiane, anche Luciano Parisi sottolinea
come in Harry la tensione affettiva e quella sessuale siano patologicamente
divergenti30, giacché egli idealizza la figura di Jane – rimandante
a quella materna, verso la quale si sente sessualmente impotente –, ricercando
il soddisfacimento della propria carica erotica con altre donne,
che finisce poi per disprezzare31. In una tale visione moglie e amante
rappresenterebbero i poli opposti di una dialettica insolubile, eppure
le due figure femminili, per quanto antitetiche, non paiono incarnare la
scissione tra sesso e sentimento, tra amor sacro e amor profano. Jane
certamente emblematizza l’amore borghese, il contratto sociale, in
qualche modo un espediente per sentirsi «normali»32, a cui Harry cede
con una «tetra determinazione»33, con la «cieca ostinazione
»34 del ‘sano
realismo’, come di fronte a un «avvenimento funesto e fatale»35, per
quanto quest’ultimo rappresenti poi una via d’accesso all’adulterio,
vissuto come una sorta di distrazione permanente capace di scongiurare
la noia quasi morbosa che incombe sulla relazione coniugale.
E m’illudevo, mentre la fissavo, di amarla anch’io; cioè di provare
anch’io, in quel momento, l’abbandono amoroso, la fusione, anzi la
28 Ivi, p. 36.
29 Ivi, p. 72.
30 Cfr. S. Freud, Contributions to the Psycology of Love. The standard Edition of
Complete Psychological Work, London, The Hogarth Press, 1957, XI, pp. 163-208.
31 Cfr. L. Parisi, L’ossessione erotica di Mario Soldati, cit.
32 «Siamo anche noi come tutti gli altri, come tutta la gente per bene. Normali.
Non abbiamo più dubbi. Che riposo! Era tanto semplice. Bastava un po’ di umiltà.
Ci crediamo umili. E, da quel momento, siamo rovinati.»; M. Soldati, Le lettere da
Capri, cit., p. 68
33 Ivi, p. 47
34 Ibidem.
35 Ivi, p. 46.
[ 7 ]
388 agata irene de villi
confusione del senso e del sentimento. In quel momento io dicevo a me
stesso: «Sto prendendo piacere del corpo di Jane; ma Jane è anche una
persona che rispetto, alla quale sono teneramente affezionato: dunque
io amo Jane in modo completo e totale, nell’anima e nel corpo».
Povero me! Non capivo che l’amore è soltanto ed appunto nell’impossibilità
di fare un ragionamento come quello, è soltanto ed appunto
nell’incapacità di distinguere tra anima e corpo36.
Se Jane incarna lo spazio familiare, concepito non come luogo creativo,
di azione e costruzione, ma come castrazione asfissiante da cui
evadere, Dora, tuttavia, non rappresenta un altrove esclusivamente
carnale, mero oggetto di un desiderio sensuale vivente di una breve
luce riflessa derivante dalla trasgressione. È pur vero che Harry finisce
per ripudiarla dopo averla posseduta, ma un tale biasimo pare avere
ragioni più profonde di quelle legate alla saturazione del possesso
carnale. Lo sguardo di Harry è in realtà duplice, lo sdegno che a tratti
prova nei confronti di Dora è soltanto l’ineludibile contraltare di uno
stato di adorazione perennemente frustrato, di un miracolo puntualmente
disatteso. Non a caso la figura di Dorothea è spesso coronata da
un’aura mistica che la eleva a un livello superiore, conferendole un
potere divino non dissimile da quello di cui è investito Aldo. Gli
amanti, siano esse donne o uomini, si presentano allo sguardo desiderante
come «idoli»37, domini, ai quali il vassallo si piega voluttuoso,
assaporando la gioia masochistica del «duro legno dell’inginocchiatoio,
o [de]l marmo dell’altare» che «trasforma la sofferenza del credente
che prega in una gioia ineffabile»38. La stessa Jane non è immune
alla tentazione del masochismo, allorché, in preda al desiderio, si
stringe la vita con una corda, per sopperire al bisogno di essere posseduta
dalle mani di Aldo.
Ormai, ogni notte, prima di coricarmi, mi stringo alla vita, sulla carne
nuda, con una grossa corda ruvida. Mi illudo che siano le tue mani a
stringermi. La corda mi fa molto male. Quasi non mi lascia respirare.
La mattina, quando me la tolgo, la mia pelle intorno alla vita è tutta
rossa, livida, rovinata. […]
Da qualche tempo vado ogni mattina, per una lunga passeggiata, da
sola, verso Punta Tragara. […] Cammino per un’ora, forse più. Poi mi
sdraio su una di quelle rocce porose e rugose, che sono sparse in quei
campi. E resto lì, immobile, con un cappello di paglia sugli occhi, fin-
36 Ivi, p. 72.
37 Passim.
38 Ivi, p. 50.
[ 8 ]
il volto mistico dell’erotica in mario soldati 389
ché la roccia mi fa male. E anche dopo che mi fa male, resisto. Resisto
più che posso senza muovermi. Il dolore fisico è l’unica cosa che mi
sollevi da questo terribile desiderio di te. […]
Quando poi proprio non ne posso più, mi alzo tutta indolenzita. C’è
una grande luce accecante, che anche lei mi fa male. Guardo questo
paesaggio duro arido ed eccitante, […]. Anche laggiù penso vi è una
vita. Vi sono lacrime e sofferenze e desideri torturanti come il mio.
Tutto il mondo, di colpo, mi sembra fatto di dolore39.
E tuttavia una tale pratica erotica non pare essere la traduzione di
un impulso puramente carnale40, il quale sembra configurarsi piuttosto
come la forma empirica, concreta, parziale, di un desiderio ontologico,
di una mancanza fondamentale. Al di là del sinistro godimento
della dialettica del peccato, di cui parlava Cecchi41, che farebbe del
cattolicesimo una mera perversione, i personaggi soldatiani si muovono
in preda a un costante e drammatico bisogno di trascendersi, di
mettersi nelle mani dell’altro, quasi a volersi sbarazzare della propria
ingiustificabile soggettività. «Ma non hai mai pensato che così ti mettevi
interamente nelle sue mani?» – chiede Harry alla moglie, allorché
questa gli racconta di quanto si fosse esposta nelle lettere scritte all’amante
– e prontamente lei risponde, «Sì, l’ho pensato. Ma non capisci?
Era proprio quello che volevo, mettermi nelle sue mani»42. Il gioco
masochistico, a cui entrambi i coniugi cedono, offre loro la possibilità,
o meglio l’illusione, di essere nient’altro che un oggetto, plasmato,
fondato, giustificato dalle mani dell’altro. Indicativa in proposito è
una delle lettere scritte da Jane ad Aldo, in cui il desiderio feticista
trasforma la mano dell’amante in una divinità alla quale la donna vorrebbe
affidare un ruolo guida, innalzandola a garante del senso dei
propri atti, come a volervi trovare rifugio. Il valore simbolico che la
mano di Aldo assume è peraltro sottolineato dalla scelta tipografica
dell’autore, che utilizza non a caso il carattere maiuscolo.
La tua Mano (la sinistra, la mano del padrone) è sempre davanti a me.
Quando verrai voglio adorarla come il simbolo vivo del tuo potere su
di me. Voglio baciarla tutta per ore intere. Voglio che tu me la metta sul
viso, così. È tanto grande che me lo copre tutto. È tanto forte che potrebbe
ammazzarmi senza sforzo. È tanto dolce che può fare da sola la
39 Ivi, pp. 273-274.
40 Di diverso parere è M. Onofri, Prefazione, in M. Soldati, Lettere da Capri,
cit., pp. IX-XXIII.
41 E. Cecchi, Letteratura italiana del Novecento, Milano, Mondadori, 1972, p. 993.
42 M. Soldati, Le lettere da Capri, cit., p. 206.
[ 9 ]
390 agata irene de villi
mia felicità. Voglio che tu ti sdrai sul letto e, senza curarti altrimenti di
me, posi sul mio volto la mano, e la lasci lì posata finché io pure mi
addormenterò. E sarà la notte più bella della mia vita.
Molte volte mi sono chiesta perché adoro così la tua Mano.
Non ho trovato nulla. È un mistero. Ho pensato soltanto questo: che
anche i cani adorano le mani dei loro padroni43.
Quasi schiacciati dal peso della propria libertà, vissuta nei termini
di una condanna – la condanna di dare un senso alla propria vita –, i
soggetti desideranti tratteggiati da Soldati smaniano nel tentativo di
delegare all’altro la cura della propria esistenza, impegnando tutto il
proprio essere a farsi cosa, assumendo su di sé il sentimento di colpa
e di vergogna conseguente alla propria consenziente alienazione, una
vergogna amplificata dallo status sociale generalmente inferiore degli
uomini eletti a rango di domini, a cui si associa, tuttavia, una irresistibile
attrazione innescata proprio dall’alterità, dall’incontro di due esseri
totalmente differenti e differenziati44. Anche Harry dal canto suo
desidera sottomettersi a Dorothea: «Servirla come uno schiavo. Dormire
ai piedi del suo letto come un cane. Sopportare con gioia da lei
qualsiasi umiliazione, angheria o crudeltà. Vivere adorandola come
una divinità. Vicino a lei, fino alla morte, farmi nulla»45. Ma il masochismo,
questa sorta di moderna saturnalia, è inevitabilmente destinato
al fallimento. Il loro sforzo di annichilirsi in quanto soggetto, facendosi
riassorbire dall’altro, è difatti sempre accompagnato dalla coscienza
della ineluttabile sconfitta. Malgrado gli inginocchiatoi, le
corde, e i mille supplizi escogitati, i personaggi affetti da desiderio
quanto più tenteranno di ripararsi nella propria oggettività, tanto più
saranno sommersi dalla propria ineludibile soggettività.
43 Ivi, pp. 267-268.
44 «Se, per assurdo, si volesse definire l’amplesso perfetto e cioè dare l’idea di
un concetto astratto, probabilmente si finirebbe coll’ammettere che è perfetto soltanto
il congiungersi di due persone che sentono e sappiano, tutto sommato che
sono pari. // Ora, il particolare, irresistibile piacere che Eugenio cercava tra le
braccia o piuttosto sotto le gambe di Olga, era il contrario, anzi il doppio contrario
di quella idea di perfezione. Non è raro, infatti, che un uomo, accoppiandosi con
una donna, si senta, proprio perché non lo sa, come un bambino con la madre, o
come uno schiavo con la sua padrona. E non è raro, nella stessa misura, che si
senta, invece, come il padre con una bambina, o come il padrone con una schiava.
Altrettanto si può dire di una donna […]. E, naturalmente, accade a volte che ne
risulti non la parità ma una complementarità vicina alla parità.» M. Soldati, El
paseo de Gracia, Milano, Mondadori, 2009, pp. 64-65.
45 Ivi, p. 138.
[ 10 ]
il volto mistico dell’erotica in mario soldati 391
Quando fummo sul letto, nudi e abbracciati, provai, anche questa volta,
un enorme stupore, e insieme quasi paura, per la felicità che mi era
concessa e che era, nonostante il mio assiduo ripensarla e ridesiderarla,
più forte e più intera di ogni immaginazione. Aderire alla sua pelle,
stringere il suo corpo, scaldarmi al suo calore, restare a un tratto, e per
un tempo senza misura, immobili e avvinti come severamente fossimo
riusciti a mescolare le nostre membra e a perdere il senso dell’individualità
fisica […].
Oscuramente, sentivo di fare qualcosa di proibito; […]; ed ora ero come
sorpreso, spaventato e felice, anche di questo coraggio.
E pensavo, anche questa volta, che la mia felicità non avrebbe più avuto
fine. Per tutta la vita, mi dicevo, per la vita e per la morte. E quasi
avrei voluto che Dora parlasse e mi facesse, in quel momento, le richieste
più assurde, più esose: […]. Tutto le avrei dato, tutto avrei fatto per
lei in quel momento. E non pensai, neanche per un istante, a offrirle io
per il primo il denaro o il matrimonio: perché il mio sacrificio, quantunque
enorme, mi avrebbe dato un vero piacere soltanto se fosse stato
ineluttabile, e cioè richiesto, imposto da lei, e non arbitrario, voluto da
me. Una vera divinità, mi dicevo, è terribilmente esigente.
Ma essa, anche quella notte come sempre, non parlava, o diceva soltanto
quelle parole che io le avevo insegnato o insinuato.
E nell’attimo che la miracolosa follia, benché io, spasmodicamente attentissimo,
spiassi per scoprire un segreto meccanismo che non la facesse
finire, finì, in quell’attimo tutto fu come le altre volte e come sempre.
[…] Non era stato, anche questa volta, che un inganno, un trucco, una
banale esaltazione. […]Ma ero, di colpo, come sempre, triste, avvilito,
furioso contro me stesso, e odiavo Dorothea, il suo grande corpo molle
bruno e caldo sotto di me. Mi faceva ribrezzo per le stesse qualità che
fino aun attimo prima avevo adorato46.
Se il piacere fisiologico determina il soddisfacimento del desiderio
sensuale, tuttavia, esso non conduce a uno stato di totale pienezza e
appagamento. Come un Faust dell’amore Harry anela raggiungere
una condizione di beatitudine assoluta, di spossessamento e perdita
di sé, il cui mancato conseguimento non può che generare un senso di
disgusto, un impeto di rabbia e frustrazione associato ancora una volta
a un sentimento masochistico, a un bisogno di ‘patire’ l’altro, di
darsi cioè in custodia a un padrone quale surrogato di un dio ormai
perduto. Il soggetto desiderante si smarrisce allora in una iaculatoria
di aspirazioni, lanciando al cielo la sua rabbia per poi lasciarla ricadere
nel vuoto dell’attesa. Harry infatti non fugge, non si rassegna al
mancato prodigio e decide di trascorrere la notte accanto a Dora
46 Ivi, pp. 50-52.
[ 11 ]
392 agata irene de villi
«nell’assurda speranza che replicando, il miracolo, che non era successo
prima, potesse succedere dopo»47. Ma l’amore che Harry chiede a
Dora non ha in verità caratteri umani ed è per questo che al risveglio
il sole tra le fessure delle persiane, «i gridi del bottigliaro», i rumori
della città, che il giorno precedente risuonavano ancora della «speranza
dell’amore», dopo l’amplesso dicono «tutto l’opposto: la delusione,
l’amarezza, l’impossibilità dell’amore»48.
[…] io, fisso a quella striscia di sole nella penombra della stanza […],
restavo quello che ero, sbattuto, gettato, come da onde alterne, verso
una schiavitù e verso una libertà, che mi riuscivano, a turno, ambedue
d’irresistibile fascino e di tedio insopportabile, e che non avrei mai potuto,
per quanto non cessassi mai di sperarlo e mi ci adoprassi con ogni
studio sforzo ostinazione sofferenza, una nell’altra unire49.
È chiaro come il desiderio di Harry abbia qualcosa di assoluto, di
mistico, è un «patir mancamento e voto»50, è lo stigma di una perdita,
di una mancanza ontologica che nessun orgasmo potrà mai colmare,
che nessun corpo potrà mai saziare, giacché non esiste realtà che possa
eguagliare l’idea platonicamente perfetta a cui il soggetto aspira. Bisogna
guardarsi bene «dal toccare l’idolo – ammonisce Flaubert – per
paura che la sua patina dorata ci rimanga attaccata alle mani»51. Lo
stato di inappagamento a cui il personaggio è perennemente condannato
non è riconducibile al tarlo del peccato52, il quale nel cattolicesimo
paradossale che struttura la visione soldatiana agisce piuttosto
come propulsore del godimento, inattingibile senza un’adeguata trasgressione.
È la ricerca di un piacere trascendente a fagocitare le spire
sensibili del desiderio. Harry aderisce a un ideale di donna e ad essa
consacra le sue pene e la sua voluttà. Nella tensione delle sue membra,
dei suoi muscoli, delle sue mucose, sperimenta l’appartenenza e la
distanza a un altro trascendente, che sempre sfugge ma che ha lasciato
il suo segno nei tormenti del corpo e dell’immaginazione.
Com’è possibile che l’immaginazione di un piacere sia più forte di
questo piacere stesso?
47 Ivi, p. 53.
48 Ibidem.
49 Ibidem.
50 G. Leopardi, Pensieri, LXVIII.
51 G. Flaubert, Madame Bovary, Milano, Rizzoli, 1949, p. 169.
52 È questa la tesi sostenuta da S. Verdino, I romanzi gesuitici di Soldati, in G.
Ioli (a cura di), Lo specchio inclinato, cit., p. 63.
[ 12 ]
il volto mistico dell’erotica in mario soldati 393
Coloro che hanno provato ciò che ho provato io, sanno che non soltanto
è possibile, ma logico e normale.
Qualunque realtà, anche il piacere sessuale più vivo è sempre inframezzato
di particolari spiacevoli, irto di contraddizioni, intriso di luci
di voci di sensazioni estranee, che non si fondono con quel piacere,
anche se ne sono sopraffatte, e che la memoria purificatrice abolisce.
Perfino l’ultimo orgasmo gioca in favore dell’onanismo: non libera,
non esaurisce, e prolunga perciò all’infinito il desiderio. Prevediamo di
riuscire, la prossima volta, a immaginare, a materializzare l’oggetto
amato meglio della precedente: e, meta e riserva estreme di tutta questa
serie di immaginazioni, ci resta la realtà, nella quale possiamo ancora
sperare53.
A muovere l’interminabile peregrinazione erotica del protagonista
è il fantasma dell’Unico. Nel rincorrere le sue conquiste questo moderno
Don Giovanni sa perfettamente che esse lo ricondurranno di
fronte a una perdita o meglio alla mancanza della donna inaccessibile
e in questa malattia dell’assenza il desiderio di Harry si configura come
il doppio rovesciato del desiderio mistico. Quella di Soldati è una
religiosità secentesca ibridata di misticismo e libertinismo. D’altronde
proprio quando la mistica, raggiunto il suo apice, declina, compare
nell’Europa moderna un’erotica, anch’essa espressione della nostalgia
conseguente al «progressivo cancellarsi di Dio come Unico oggetto
d’amore»54. Si assiste a un cambiamento di prospettiva che vede la
scena religiosa trasformarsi in una scena amorosa. Nella sua Fabula
mistica Michel de Certau, studioso della spiritualità gesuita, sottolinea
come «la mistica del XVI e XVII secolo prolifer[i] intorno a una perdita.
Ne è una figura storica. Rende leggibile un’assenza che moltiplica
le produzioni del desiderio»55. «Si è malati di assenza perché si è malati
dell’unico. L’Uno non c’è più. “L’hanno portato via”»56. Il personaggio
desiderante che Soldati scolpisce sembra rievocare il pellegrino
loyoliano o il nomadismo di Labadie il monaco. Anch’egli è un
soggetto errante, un Wandersmann, votato alla perenne ricerca di un
altro luogo o di un’altra donna che possa sostituire quella precedente,
l’uno «intollerabile» l’altro «provvidenziale»57, giacché «i progetti im-
53 M. Soldati, Le lettere da Capri, cit., pp. 133-134.
54 M. de Certeau, Fabula mistica. La spiritualità religiosa tra il XVI e il XVII, Bologna,
Il Mulino, 1987, p. 40.
55 Ivi, p. 50.
56 Ivi, p. 37.
57 Ivi, p. 370.
[ 13 ]
394 agata irene de villi
possibili, che paiono sommamente desiderabili, perdono urgenza, se
non incanto, appena diventano possibili»58. In preda a un trasporto
mistico i personaggi soldatiani avvertono l’esigenza di cambiare, di
accettare sempre nuove sfide. «[O]gni volta che varco la frontiera –
scrive Soldati – il cuore mi batte in gola. È lo stesso entusiasmo col
quale abbraccio una bella donna […]. È il piacere dell’evasione, della
contraddizione. Il piacere profondo e vitale di cambiare, di espandersi
oltre una famiglia, una classe, un paese, una razza.»59. Come Labadie,
Harry è un demone del transito, un uomo alla ricerca di un piacere
impossibile. Eppure nella sua Wanderung novecentescamente contratta,
nella sua erranza introflessa in martirio, egli aderisce, in verità,
a una solitudine radicale, non insegue un oggetto del desiderio ma il
desiderio stesso, vuol fare esperienza dell’assenza: «Mi mancava ormai
il desiderio, al quale ero nato od abituato; ero vuoto, sgomento,
piccino […]. Ridotto a essere esattamente me stesso. Un punto. Una
nullità»60, e ancora, «[…] forse era soltanto una mia inconscia astuzia
per tenere vivo in me il desiderio?»61 «non volevo perdere il mio desiderio
di Dorothea; e allo stesso tempo tentavo di liberarmene sia attraverso
la varietà e la sazietà delle donne che frequentavo, sia cercandone,
tra tante, qualcuna che mi andasse un po’ più a genio delle altre e
che desse il cambio, almeno per qualche tempo, alla mia profonda
ossessione»62. Il libertino Harry è sempre ingannato da una donna in
cui ha creduto di ritrovare un Altro trascendente. È il desiderio, infatti,
a trasformare Dora in una dea: «La sua divinità, insomma, non era
costante. Non era sua. Sembrava che gliela imprestasse il mio
desiderio»63. Egli vorrebbe che Dora lo tradisse, vorrebbe sentirsi rifiutato,
è attratto per così dire dalla mancanza dell’altro, più che dalla
presenza, anela la conquista ma assai più il distacco, poiché l’assenza,
il privilegio dell’essere martiri, lo rimette in contatto con un dolore
fondamentale, con una perdita necessaria, nella quale ritrova se stesso,
il suo essere una mancanza che si esprime come desiderio. Lungi
dal fuggire la mancanza, Harry non cessa mai di provocarla, la sfida
con impazienza, attendendo che la menzogna della presenza si riveli.
58 M. Soldati, Le lettere da Capri, cit., p. 143.
59 M. Soldati, Un viaggio a Lourdes, in Id., I racconti (1927-1947), Milano, Mondadori,
1961, p. 177.
60 Id., Le lettere da Capri, cit., p. 97.
61 Ivi, p. 98.
62 Ivi, p. 144.
63 Ivi, p. 38.
[ 14 ]
il volto mistico dell’erotica in mario soldati 395
Il soggetto tratteggiato da Soldati non rifugge l’angoscia rivelatrice
del nulla, piuttosto la ricerca quale esperienza di una suprema autenticità
della vita nel suo essere puro divenire, incommensurabile spazio
senza fondamento. L’eros è la strada per sentirsi in presenza del Niente,
per «vincere – scrive Soldati con un’eco esistenzialista – in un amplesso
disperato l’assurdo che ci ferisce»64. Lo stesso rapporto che
Harry instaura col denaro è speculare a quello erotico. «Se il denaro –
come osserva Morreale – è Dio moderno, quale miglior metodo, per
raggiungerlo, che perderlo, patirne l’assenza?»65.
Per molti mesi non ho desiderato, ciò non vuol dire che non abbia avuto,
una donna. Desideravo di desiderare, ecco. Volevo stordirmi, stancarmi.
E ci riuscivo soltanto in parte. Riprendevo una vecchia abitudine.
Uscivo di notte, a piedi, andavo su e giù per i boulevards battuti
dalle prostitute, […]. Tutte avevano comunque conservato una grande
illusione, sia, che individualmente, sperassero, sia che ormai disperassero
realizzarla: il potere del denaro. Neanche su questo argomento,
mi curavo di contraddirle. Del resto come avrei osato? con che coraggio
spiegato loro che il denaro, in qualunque modo lo si possieda od
ottenga, è sempre ed esattamente pagato con la perdita di qualche cosa
di vivo, se non altro con la perdita del dolore? Il denaro! Il denaro per
cui esse sacrificavano la vita, anch’io tornavo, lentamente con il lento
allontanarsi della morte di Jane, a desiderarlo. Ma tornavo a desiderarlo
solamente per il bisogno di perderlo anzi di esserne derubato66.
Sostituita la mistica con l’erotica, la parola divina con la donna, il
corpo amato, il soggetto restaura la presenza attraverso l’assenza, ed
ecco che nell’identificazione fra l’Autre e l’Absent si produce in Soldati
una sorta di teologia negativa. Nell’amplesso, reiterato ossessivamente
nella speranza di una suprema voluttà, Harry fa esperienza non di
Dio ma del Nulla, assaporando la vertigine dell’infinito, l’oltranza
senza limiti, lo spaesamento derivante dalla caduta di ogni determinazione,
ed è proprio questa mancanza di misura e di centro ad avviarlo
all’eccedenza, all’esuberanza. La scrittura di Soldati narra in
verità un’assenza, immettendosi in un cronotopo di mezzo tra la perdita
della grazia e la sua ricerca, racconta la storia di una perdita e dei
suoi ritorni in forma di desiderio. L’Altro è per così dire attingibile
soltanto per negazione attraverso itinerari che sono tutt’altro che confutazione
della sua assenza. Come osserva Michel de Certeau, «È mi-
64 Ivi, p. 162.
65 E. Morreale, Mario Soldati. Le carriere di un libertino, cit., p. 103.
66 M. Soldati, Le lettere da Capri, cit., pp. 256-257.
[ 15 ]
396 agata irene de villi
stico colui o colei che non può fermare il cammino e, con la certezza di
ciò che gli/le manca, di ogni luogo e oggetto sa che non è questo, che
qui non si può risiedere né contentarsi di quello. Il desiderio crea un
eccesso. Eccede, passa e perde i luoghi. Fa andare più lontano, altrove.
Non abita da nessuna parte […] è abitato»67. Harry, infatti, non domina
il tempo ma si espone ad esso, al suo carattere eventuale, affidandosi
all’occasione del presente. In questo senso il tempo dell’avventuriero
Harry collima col tempo dei mistici, in quanto radicale esaltazione
dell’hic et nunc, dell’evento che, interrompendo la catena necessitante
delle connessioni causali, ricongiunge l’anima a Dio o al Nulla.
Nell’eternità dell’istante, nel tempo sospeso dell’eros, le forme della
continuità – le istituzioni, le norme – perdono di significato. Gli eventi
che il protagonista sperimenta, sospinto dal desiderio, contraddicono
continuamente il tempo storiografico e lineare percepibile solo allo
sguardo retrospettivo del narratore che lo istituisce nella sua parola.
Passato e futuro sono come riassorbiti nell’ebbrezza dell’attimo in cui
il soggetto vive totalmente in bilico tra il più cospicuo guadagno e la
più completa distruzione, tra la massima attività e una radicale passività.
Era uno stato d’animo certamente pagano, ma anche certamente religioso.
Contribuiva a questa détente il senso della sua brevità e provvisorietà:
[…].
Può essere, dunque, che fossimo felici insieme, anche perché sapevamo
che tra poco ci attendeva un’altra separazione; ma che cos’è, appunto,
il paganesimo se non la coscienza religiosa del carpe diem? vivere
e godere pienamente, umilmente, ogni giorno della nostra vita come
se fosse l’ultimo?68
Il pellegrinaggio erotico è mosso da un perenne gesto di conquista,
dalla volontà di cogliere al volo l’occasione, ma al contempo esso presuppone
un’apertura nomadica alla vita, una capacità di offrirsi agli
eventi senza eccessive difese, abbandonandosi a «un viaggio magico,
di dolcissime scoperte senza fine, in cui volevo perdermi sparire non
esistere»69. Proprio in quanto congiungimento di azione ma anche di
una necessaria esposizione alla casualità, all’imprevedibilità delle co-
67 M. de Certeau, Fabula mistica. La spiritualità religiosa tra il XVI e il XVII, cit.,
pp. 404-405.
68 M. Soldati, Le lettere da Capri, cit., p. 149.
69 Id., La sposa americana, in Id., Romanzi, cit., p. 1228.
[ 16 ]
il volto mistico dell’erotica in mario soldati 397
se, il rapporto d’amore è il luogo emblematico dell’avventura, un’avventura
culminante nello spossessamento dell’amplesso, ove tutto
fluisce, generando quel gaudio della perdita senza ricettacolo.
[…] che senso aveva la vita? Nessuno, mi dicevo. Ero stato così felice
che adesso non desideravo più nulla. Un tranquillo stupore, una ferma
disperazione, una delusione per sempre, come se finalmente toccassi
con mano la verità ultima dell’esistenza.
Ma se ero deluso, mi dico oggi, significa che prima mi ero illuso. Non
può essere vero che la gioia che avevo provato poco prima fosse priva
di pensiero! La gioia che poco prima avevo provato assomigliava, sebbene
infinitamente più intensa, alla gioia di uno sforzo muscolare, e
sportivo, nuotare, remare, sciare, e assomigliava nello stesso tempo
alla gioia della creazione artistica, conteneva cioè una strana certezza,
istintiva e confusa ma anche solida, incrollabile, di arrivare così, crescendo
come cresceva, a penetrare un mistero, a svelarlo, a capire che
non avevo mai capito niente: saprò, mi dicevo intanto, saprò, saprò,
saprò: ancora un po’, ancora un po’, e al di là del massimo di questa
gioia saprò. Ma al di là, poi, avevo capito che non c’è niente. O piuttosto:
avevo capito che al di là di quella gioia c’è il niente70.
Quasi assaporando una dimensione cosmica, il soggetto sperimenta
attraverso l’eros la pura perdita di sé, non la presa ma la resa. È come
se la vita per manifestarsi richiedesse un atto di desertificazione e
svuotamento. L’amplesso ne rivela il mistero, è per così dire la soglia
sul Nulla, lo strumento per fare il vuoto, la porta che dischiude il silenzio
abissale nel quale si smarrisce il principium individuationis, in
cui cessa ogni limitazione o distinzione, ogni arroganza, dove tace la
legge del profitto, e con essa le disparità che pure hanno dato l’avvio
agli incontri, come se gli amanti annullassero il proprio io nell’anonima
vicenda amorosa del mondo desiderosi «di confonder[s]i a tutti gli
altri, quasi che il senso più profondo della libertà consista appunto nel
dimenticarci di esser noi stessi, ognuno diverso dall’altro»71. Votato
alla deterritorializzazione, incalzato da una perenne insoddisfazione,
Harry anela continuamente la fuga, l’evasione, l’oltranza dall’ordine
sociale e dall’umana misura. Emblematiche in tal senso risultano le
battute finali con le quali si chiude il romanzo, tutte incentrate ancora
una volta su un disperato bisogno di fuga:
Mi chiedo se riuscirò a fuggire un’altra volta.
70 Ivi, p. 1229.
71 Id., Ah! il Mundial: storia dell’inaspettabile, Milano, Rizzoli, 1986, p. 152.
[ 17 ]
398 agata irene de villi
Ma quando?
Quando mi chiamerai?72
Mosso da una mancanza originaria, il personaggio desiderante
tratteggiato da Soldati ricerca attraverso l’esperienza erotica l’esilio
dal mondo, la separazione che possa ricongiungerlo al piacere supremo,
al non-luogo da cui è stato esiliato. Se da un lato egli sperimenta
mille amplessi, possiede mille donne, se è, come Poros, padrone delle
cose e capace di goderne, al contempo il suo erotismo è figlio di Penia,
la povertà – una moderna povertà dell’esperienza e del senso –, che lo
costringe a una perenne inquietudine, a un’erranza senza fine: «che
cosa desidera il nostro cuore? dove spera di andare, di fuggire, di perdersi?
L’affetto di un amico, il cielo verde sulle Alpi a sera, è come se
ci ricordassero un bene che abbiamo dimenticato e che torniamo a
sperare»73.
Agata Irene De Villi
Università di Bari
72 Id., Le lettere da Capri, cit., p. 297.
73 Id., Le due città, con introduzione di M. Raffaeli, nota al testo di S. Ghidinelli,
Milano, Mondadori, 2006, p. 131.
[ 18 ]
Paola Villani
Il secondo mestiere di Ungaretti*
C’è un profilo di Ungaretti ormai riconosciuto, che corre parallelo
a quello del grande poeta. È l’autore di una multiforme attività di
scrittura, condotta nel segno della comunicazione, che viaggia accanto
ai versi intrecciandosi alle opere maggiori. Un profilo molteplice e
sfuggente, che sembra convergere intorno al giornalismo, o ai suoi
terreni più prossimi. Come propose negli anni Ottanta Luciano Rebay,
può quasi dirsi che Ungaretti nasce giornalista, nel solco di una parabola
già ‘canonica’ in quel primo Novecento, quando ormai le due
sfere (letteratura e giornalismo) erano venute avvicinandosi, anche
nel segno di una professionalizzazione della pubblicistica, in una
sempre maggiore determinazione di ambiti, campi e linguaggi. E così
il portrait dello scrittore che rubava tempo all’arte per dedicarsi alla
pagina quotidiana o periodica divenne sempre più frequente, fin quasi
a segnare gran parte della storia letteraria dell’Italia del Novecento.
Si tratta di un ambito di studi ai quali si sta prestando grande attenzione
negli ultimi decenni, in un diverso approccio alla pagina
quotidiana o periodica, che viene ormai letta nel confronto-dialogo
con le opere maggiori, quasi a tessere un ampio avantesto, o paratesto,
nella ormai riconosciuta consunzione dei confini tra generi e scritture,
codici e linguaggi.
È una prospettiva che si rivela quanto mai feconda per un poeta
come Ungaretti, il quale al giornalismo si è dedicato non senza riserve
ma con grandi energie, specie nel periodo immediatamente postbellico,
in quegli anni che si costituiscono propriamente in una stagione
all’interno della singolarissima biografia di questo gigante del Nove-
Note
Autore: UNISOB, Napoli; professore ordinario di Letteratura italiana moderna
e contemporanea; paola.villani@unisob.na.it
* Fabio Pierangeli, Ombre e presenze. Ungaretti e il secondo mestiere (1919-1937),
premessa di Emerico Giachery, Napoli, Paolo Loffredo Editore, 2016, pp. 220 (Centro
Italiano di Ricerca su Letteratura e Giornalismo – CIRLeG, n.s., La Terza pagina,
1).
400 paola villani
cento, presente nella letteratura come anche nella storia, volontario in
prima linea nel primo conflitto mondiale, vicino al fascismo e insieme
– per costituzione si direbbe – eterno dissidente. È l’Ungaretti presente
e sfuggente intellettuale dell’Italia degli anni Venti il quale, anche attraverso
la sua attività sulla stampa, veniva riconosciuto come mediatore
culturale tra Francia e Italia. Il poeta delle avanguardie letterarie
di inizio secolo era destinato a divenire poeta “laureato”, quasi vate
nazionale, sul modello di Carducci. L’Ungaretti pubblico, il volontario
di guerra, il reporter delle trattative di pace, il poeta delle riviste fasciste,
l’impiegato di Mussolini: sono profili spesso dimenticati, o deliberatamente
messi in ombra. Eppure questa carriera pubblica non è esteriore
né estranea alla poesia, piuttosto accompagna e scandisce le opere
maggiori e la sua presenza al suo tempo.
Questo profilo, meno conosciuto, attraversa migliaia di pagine
sparse, articoli, relazioni, lezioni; tasselli tutti di un unico mosaico di
‘uomo della parola’ che il grande pubblico e la critica hanno avuto
modo di conoscere con i due «Meridiani»: Saggi e interventi, raccolto in
vita l’autore nel 1974 (a cura di M. Diacono e L. Rebay, Mondadori,
1974), e il postumo Viaggi e lezioni, (a cura di P. Montefoschi e L. Piccioni,
Mondadori, 2000), ai quali si aggiunge la raccolta curata da Carlo
Ossola, Filosofia fantastica (UTET, 1997).
Queste pagine, che si aggiungono e completano l’Ungaretti puro
poeta (o poeta puro) restituito dal fortunato ‘Meridiano’ Vita d’un uomo,
vedono oggi un utile completamento nella lettura trasversale che
Fabio Pierangeli compie dell’Ungaretti giornalista in questo suo recente
volume come pubblicazione del Centro Italiano di Ricerca su
Letteratura e Giornalismo (CIRLeG) animato e diretto da Raffaele Giglio,
con il quale si apre la nuova serie della collana “La terza pagina”.
Attraverso la vastissima galleria di scritti giornalistici, letture universitarie
e altri interventi, Pierangeli restituisce l’Ungaretti giornalista,
l’autore che precede e s’intreccia con il poeta, in migliaia di scritti
che rivelano il saggista, il docente universitario, il critico d’arte, l’apprezzato
conferenziere e prefatore, lo scrittore di viaggio, l’inviato
speciale, il giornalista impegnato non solo nelle pagine letterarie ma
nelle pagine di costume, attualità, politica. Una professione gravosa,
vissuta – come per gran parte dei letterati – come impegno che lo sottrae
alla creazione artistica, nel consueto conflittuale rapporto tra pagina
quotidiana o periodica e pagina letteraria che molti grandi artisti
della scrittura hanno attraversato, elaborato e meditato. Un lavoro
particolarmente intenso quando Ungaretti parte per il Brasile e intraprende
un nuovo secondo mestiere, che resta secondo rispetto alla poe-
[ 2 ]
il secondo mestiere di ungaretti 401
sia, ma che il poeta – in una trasmissione televisiva del 1961 condotta
da Ettore Della Giovanna – ha definito con fermezza «nobile professione
»: l’insegnamento universitario. Pierangeli dunque decide di attraversare
quella che si configura come prima stagione del giornalismo,
cui sarebbe seguita la seconda, avviata nel 1942 con il rientro in
Italia.
Grazie allo spoglio sistematico di quotidiani, lo studioso restituisce
un profilo di Ungaretti che forse sfuggiva all’Autore stesso, nel destino
di oblio che colpisce la pagina quotidiana nella sua lotta – spesso impari
– contro il tempo; come ha ammesso il poeta stesso in una eloquente
pagina autobiografica che davvero si propone come riflessione sullo
studio del secondo mestiere degli scrittori. Si legge infatti nel primo
degli Svaghi di Un grido e paesaggi: «L’altra mattina, le mie dita si sorpresero
a sfogliare il registro dove conservo i ritagli dei miei vecchi articoli
alla Gazzetta del Popolo, e mi attirò una descrizione della Primavera. Stagione
bellissima, bella, ma crudele nel manifestarsi. Mi misi a rilavorare
a quel passo, tornai a meditare su quel tema» (ora in Vita d’un uomo.
Tutte le poesie, a cura di L. Piccioni, Milano, Mondadori, 1970, p. 265).
La pagina pubblicistica – affatto autonoma, libera dal volume e
forse anche dal suo autore – si appalesa al poeta come pagina nuova.
Il poeta si confronta con essa e ne riceve uno stimolo ad una nuova
creazione. È un uso straniante, a tratti onirico, della prosa lirica, che
percorre altre pagine dell’Autore.
Pierangeli dunque legge le pagine di Ungaretti apparse sul «Popolo
d’Italia» di Mussolini, ma anche sul «Mattino», «Il Resto del Carlino
». Una magmatica produzione che si assembla nel segno della varietà
ma «di assoluto valore autonomo», come osserva lo studioso
nell’iniziare il percorso (p. 14). Ed è proprio nella rivendicazione
dell’autonomia della pagina giornalistica che si sostanzia il viaggio
nel testo ungarettiano condotto da Pierangeli studioso in questo suo
ultimo libro. Valore autonomo ma non destoricizzato, per pagine che
devono confrontarsi con le grandi urgenze della quotidianità, del
mercato editoriale, delle delicatissime fasi della vita storico-politica
dell’Italia post-bellica e poi fascista. Istanze, queste, alle quali Ungaretti
era tutt’altro che sordo.
Il volume è diviso in tre capitoli. Il primo capitolo, «Sono un giornalista,
sputami addosso», approfondisce la riflessione stessa dell’Autore
su quel secondo mestiere. Un mestiere che vive come gravoso, come
testimonia il carteggio con l’amico Papini, una pagina intima condotta
non senza un sapiente filtro di letterarietà, tutto teso all’auto-portrait
di giornalista malgré lui.
[ 3 ]
402 paola villani
Ma il distacco da quel mestiere, negli anni della guerra e in quelli
immediatamente successivi, è testimoniato dalla brevità delle collaborazioni.
Il sospetto sul giornalismo lo accompagna, come scrive appunto
a Papini, non lesinando consigli. Il modello di un giornalismo
vischioso, nel quale è facile «ingarbugliarsi» Ungaretti lo individua in
Scarfoglio, con il suo «Corriere di Napoli» prima e «il Mattino» poi.
Ungaretti intanto continua a praticare quel mestiere. Appena dopo la
guerra, dopo una breve collaborazione al giornale delle truppe, «Sempre
Avanti», da Parigi continua a chiedere aiuto per trovare un impiego.
Scrive a Papini esprimendo il desiderio di entrare nella redazione
di un giornale serio, dove potrebbe occuparsi di tutto, «di cronache
mondane, d’arte, di politica» (Lettere a Giovanni Papini, a cura di M. A.
Terzoli, Milano, Mondadori, 1988, p. 240). Sarà però solo Mussolini a
offrirgli l’incarico di corrispondente dal Congresso di Parigi, per il
«Popolo», dove resterà mentre però sogna di fondare una rivista innovativa.
La collaborazione al «Popolo» inizia l’11 febbraio 1919, nel segno
di un sentimento patrio, misto di sincero ardore da ex soldato
della grande guerra, ma anche non senza l’intento di legittimarsi e
affermarsi agli occhi della redazione del giornale: «Ho ancora addosso
i panni di soldato italiano; l’ultima parte di guerra fino alla vittoria,
l’ho fatta sul fronte francese; e non mi sembra senza significato che
Mussolini mi dà di occuparmi, per ‘Il Popolo d’Italia’, dei nostri problemi
al Congresso della pace» (Italia, Francia, Iugoslavia, in «Il Popolo
d’Italia», 11 febbraio 1919). Ed è forse per affrancarsi e affermare la sua
nuova dimensione che scrive a Papini nel febbraio del 1919: «Sono
giornalista; sputami addosso; un giornalista con mille lire il mese; gridalo;
ho dato il culo per mille lire il mese; sono un uomo su misura; su
di me si possono sedere tutti; cullo gli uomini sulle ginocchia: “Cosa
mi dai stasera?” / Sono un giornalista. Non importa; sono il solo uomo
non provinciale d’Italia; quel poco di mio che ho dato al mio paese,
è roba che nessun altro avrebbe saputo dare, né saprà imitare senza
cascare nel ridicolo; ci vuole troppa esperienza al mondo; ci vuole genio,
Papini, e tu sai che roba sia, tu solo» (Lettere a Papini, cit., p. 263).
Pierangeli rinviene a ragione in questo epistolario con Papini (e in
parte anche alcune lettere a Prezzolini e Soffici), i nodi fondanti la riflessione
sul giornalismo come anche la rivelazione dell’Ungaretti intimo,
teso alla costruzione della sua immagine di letterato e uomo del
suo tempo in quei fluidi e dispersivi – sul piano ideologico – anni
postbellici. Nell’intima corrispondenza all’amico, quando il filtro della
letterarietà subisce la naturale consunzione operata dalla vera amicizia,
si rivela l’Ungaretti più vero.
[ 4 ]
il secondo mestiere di ungaretti 403
Come era prevedibile, la collaborazione con il giornale di Mussolini
si rivela burrascosa, destinata a interrompersi bruscamente. Nel
1921 Ungaretti si è ormai trasferito a Roma e la sua carriera di giornalista
lo conduce a collaborazioni con «Nuovo Paese» di Carlo Bazzi,
«Lo spettatore italiano» di Bottai, «L’Idea Nazionale», il foglio più vicino
al fascismo; fino poi alla collaborazione con «il Mattino» di Napoli
e «Il Tevere» di Roma. La gran parte degli interventi sul «Mattino» e
sul «Tevere» sono raccolti nel volume Saggi e interventi (cit.), e in Filosofia
fantastica (cit.). Attraverso questa intensa attività, Pierangeli ricostruisce
la fitta rete delle relazioni, incontri, tributi e incidenze, la sua
discussa posizione rispetto al fascismo e naturalmente la progressiva
affermazione dell’Ungaretti poeta, dall’Allegria al Sentimento del tempo.
Legge quindi questa produzione sullo sfondo delle grandi opere come
dei carteggi privati, in una complessa filigrana che vien composta a
restituire una singolare, inedita autobiografia, del poeta e dell’uomo,
teso anche da preoccupazioni tutt’altro che artistiche ma pratiche ed
economiche specie dopo la nascita dei primi due figli, Ninon nel 1925
e Antonietto nel 1930. Il capitolo comprende anche un approfondimento
sulla nota polemica Ungaretti-Bontempelli, ricostruita attraverso
gli articoli di giornale ma anche i carteggi, e sul rapporto con
Telesio Interlandi, per il quale collabora a lungo, specie quando Interlandi
fonda la rivista «Quadrivio» nel 1932. Nel secondo capitolo, infatti,
Verba volant (scriptamanent?), Pierangeli legge la attività del settimanale,
le collaborazioni, le polemiche giornalistiche, e naturalmente
la presenza di Ungaretti, nella sua duplice veste di firma autorevole
ma anche oggetto di recensioni e profili, quando non espliciti attacchi,
che rendono davvero la vita del periodico un caleidoscopio utile a inquadrare
l’attività di Ungaretti negli anni Trenta, oltre che la presenza
al suo tempo.
Alla sua fondazione infatti «Quadrivio» attira firme prestigiose
della letteratura e della cultura italiana entre-deux-guerres: «In un collage
artistico – scrive Pierangeli – che, condivise le generiche istanze
culturali mussoliniane, evidenziati i facili slogan, immessa la dovuta
retorica, si rende capace di rappresentare anche voci autonome, sia
pur solo nel campo artistico» (pp. 89-90). Sarà solo in un secondo tempo
che la rivista vivrà «una progressiva deriva sugli elementi peggiori
della propaganda di Interlandi, l’ostracismo verso la Francia, l’avvicinamento
alla Germania per la campagna razzista» (p. 90). In questa
deriva Ungaretti si sentirà, e sarà in effetti, sempre più isolato, specie
per i suoi ravvicinati rapporti con la Francia.
Il terzo capitolo torna invece alla collaborazione di Ungaretti con
[ 5 ]
404 paola villani
«La Gazzetta del Popolo», alla quale il poeta inizia a collaborare nel
dicembre del 1929. Era l’inizio di una fitta collaborazione, che segna
forse la stagione più feconda del giornalismo ungarettiano, con celebri
articoli come Critica alla sbarra (nel numero del 31 dicembre 1929) Borghesia
(30 gennaio 1930), fino ai reportage come ‘inviato speciale’. Al
centro del capitolo è il dialogo-scontro con Berto Ricci, il matematico e
poeta, il giornalista del «Bargello», dello «Strapaese» e «Stracittà», il
protagonista del fascismo sociale destinato a cadere in Libia nel 1941.
Ricci «Lo scrittore italiano» come recita la recensione al volume di Ricci
apparsa sulla «Gazzetta del popolo» proprio a firma di Ungaretti.
Il percorso storico-critico di Pierangeli offre tre tasselli del complesso
affresco ungarettiano, una lettura del giornalista sullo sfondo
delle opere maggiori e degli scritti privati, quasi a tessere in una forte
intertestualità che aiuta a far luce anche sui capolavori poetici. È l’uomo
che emerge a tutto tondo, una ricerca che trova giustificazione nella
stessa Weltanschauung ungarettiana, nella coincidenza (tutt’altro
che pacifica) tra vita e poesia, a illuminare dunque quella vita di un
uomo alla quale il poeta ha consacrato la sua immagine. Spiega Emerico
Giachery nell’introdurre lo studio: «Questo libro conferma e documenta,
con l’estesa esplorazione di fonti non di rado poco conosciute
e poco utilizzate, l’esemplarità e la centralità di un poeta, ‘frutto d’innumerevoli
contrasti / d’innesti’ […] che ha voluto e saputo meritare
di essere ricordato anche come appassionato e qualificato testimone
del proprio tempo» (p. 7). Testimone vivo e dissidente, spesso oggetto
di satira quando non di diretti strali, in un confronto-scontro con il
paesaggio letterario di quei caldi decenni tra le due guerre. Il giornalista
che mai smette i panni di poeta, mai cessa di credere nella morte
dell’arte; e mai si adegua alla progressiva avanzata di un mercato editoriale
che veniva sempre più coagulandosi in quella che Adorno
avrebbe stigmatizzato come «industria culturale», come ha modo di
scrivere in un denso articolo apparso sul «Mattino» del 26-27 gennaio
1927, Del più e del meno. Bluff o arte?: «Togliete all’uomo il desiderio
d’eterno, toglietegli la lotta contro la morte, toglietegli l’illusione, mutategli
il destino, e finisce quel poco di magia che gli resta; l’arte è
sparita […]. Perché l’opera d’arte è realmente uno specchio magico: è
all’ombra della notte dei tempi, e aureola di futuro la civiltà che vi si
mirò, della quale è il riflesso meno provvisorio».
Paola Villani
Università “Suor Orsola Benincasa” – Napoli
[ 6 ]
Mario Aversano, Dante, Iacopone da
Todi e il canto XXXIII del Paradiso, Manocalzati
(Avellino), Edizioni Il papavero,
2015, pp. 190.
Libro dichiaratamente innovativo,
questo di Mario Aversano sul canto
XXXIII del Paradiso, e, bisogna riconoscerlo,
tale da poter esser annoverato
tra i pochissimi necessari e ineludibili
in fatto di commenti al poema
dantesco: frutto d’una ricerca
iniziata ch’è ormai mezzo secolo, e
che appare costantemente animata –
anche in ordine ad altri autori assunti
(Francesco d’Assisi, Iacopone da
Todi, Foscolo, Leopardi, Montale,
Rebora, Di Giacomo, ecc.) – da un’esigenza
di “filologia etica”. Etica nel
senso che è pensata con l’obiettivo di
verificare l’attendibilità di quanto ci
propone l’italianistica tradizionale, e
che all’uopo consiglia di procedere
ad opportuni emendamenti, specie
per gli aspetti valoriali che vengono
toccati e che perciò chiamano in causa
l’educazione e la formazione dei
giovani.
Dalle indagini su Dante, condotte
con un metodo a cui l’autore mantiene
da tempo l’epigrafe di semiosi obbligata
– atteggiandola ad oltranza e
in forma strenuamente contraria alle
‘aperture’ e ai soggettivismi della cosiddetta
semiosi illimitata – viene a
giorno una determinazione estrema
ed inattesa. L’autore insinua un avvertimento
così netto come difficoltoso,
almeno al primo gusto, e perciò
non immediatamente ricevibile: che
gli interpreti dell’ultimo canto della
Commedia (innumerevoli e, come è
noto, spesso prestigiosi) non lo abbiano
bene interpretato nei passaggi
cruciali, e per l’intera sua compagine.
Ma alla prova delle carte testimoniali
che Aversano ha raccolto – segnatamente
quelle biblico-patrologiche
– risulta effettivamente che l’apparato
esplicativo offerto dai Commenti
antichi e nuovi richiederebbe
una revisione, a cominciare dai contenuti
generali e dall’individuazione
del ‘racconto’ dell’ultima ascesa, cioè
degli eventi che il poeta “mette in
versi”. Più in particolare Aversano
restituisce o propone ex novo: 1) il reale
significato di vocaboli e stilemichiave;
2) il numero dei ‘personaggi’
che scendono in campo (che è maggiore
di quello solitamente creduto)
e la loro precisa identità; 3) le azioni
che essi compiono; 4) le conseguenze
che ne scattano; 5) il retroterra storico-
politico implicato; 6) la presenza
di accesi e urgenti dibattiti teologici;
Recensioni
406 recensioni
7) i modelli tangibilmente cooperativi
(tra i maggiori dovrebbe essere
annoverato Iacopone da Todi); 8) il
rapporto con gli altri canti del Poema;
9) ed altro ancora, non esclusa
l’ectodica: converrebbe rivedere anche
qualche lezione del testo attualmente
più seguito, quello del Petrocchi.
Un esempio: il petrocchiano parlar
mostra, di v. 56, dovrebbe cedere a
parlar nostro, com’era in precedenti
editori, per una ragione innanzitutto
intratestuale. La preferenza, nel sintagma,
dell’aggettivo dimostrativo
(nostro) rispetto al verbo (mostra) si
spiegherebbe col precedente del parlar
nostro che si riscontra nella canzone
Amor che ne la mente mi ragiona,
esposta nel Convivio; ma poi ciò comporta
una serie di conseguenze teologiche
non evinte, di cui la più decisiva
è quella del prevalere della ‘ineffabilità’
sulla ‘parzialità’; prevalenza
giustificata per ossequio alla tradizione
che va da san Paolo, 2 Cor. XII,
4 (et audivit arcana verba, quae non licet
homini loqui) a Iacopone da Todi,
XXXIX, 121-122: onne lengua è ’n defetto/
che de lui ha parlato.
La trattazione si articola in nove
capitoli, distribuiti in tre sezioni. La
prima investe i canti XXXI e XXXII,
che costituiscono il prologo all’impresa
finale di Dante pellegrino.
Vengono alla luce alcune novità: l) i
legami con Iacopone da Todi, il poeta
teologo che, a conti fatti (oltre settanta
concordanze) risulta il più
ascoltato per la strutturazione e per
il linguaggio del canto; 2) le ragioni
speciali della chiamata di san Bernardo
a sostituire Beatrice nel ruolo
di guida verso Dio; 3) il programma
viatorio e la preparazione (dispositio)
conciliata dallo Spirito santo. Proposte
e acquisizioni maggiori: a) la consanguineità
di Bernardo con Dante,
al segno della comune appartenenza
alla stirpe di Beniamin (dei “ben nati”),
da cui si proclama discendente
lo stesso san Paolo; b) la presenza
tecnica della teologia della Conversione,
con l’accreditarsi finale della
compunctio cordis – cavata specialmente
dalle esposizioni di Gregorio,
di Bernardo e dei Vittorini, e presente
già nella lauda L’omo fu creato vertuoso
di Iacopone da Todi – a riporto
conclusivo della “compunzione di
paura”, tempestivamente indotta nel
primo canto dell’Inferno, a v. 15 (che
m’avea di paura il cor compunto); c) la
militanza contro alcune eresie precedenti
e coeve.
La seconda sezione è intestata alla
preghiera alla Vergine madre, e ne
spiega i termini della salutatio, il saluto
e la lode (cap. I), e della petitio, la
richiesta di grazie (cap. II). Innovazioni
critiche: a) rilevazione della disputa
dottrinale che da san Bernardo
si protrae fino al Muratori, a sant’Alfonso
de’ Liguori ed oltre, a riguardo
della “unicità” di Maria per ottenere
grazie; b) il nesso intratestuale tra il
regina che puoi/ ciò che tu vuoli (vv. 34-
35) e le intimazioni che Caronte, Minosse
e Pluto ricevono da Virgilio
(vuolsi cosi colà …) nell’Inferno; 4) la
conseguente ipotesi che tutto quanto
il mortale “vede” di Dio, attraverso
dodici epifanie, avvenga per grazia
propiziata da Maria.
La terza sezione accoglie cinque
comparti, intitolati rispettivamente
alla funzione promotrice dello Spirito
santo (cap. I), alla visione del Figlio
(cap. II), alla congiunzione col
Padre (cap. III), all’epifania della Trinità
(cap. IV), al disvelamento del
mistero dell’Incarnazione (cap. V).
Vengono registrati altri vuoti e frainrecensioni
407
tendimenti corrivi nel dantismo tradizionale,
dei quali il più flagrante è
nel suo glossare i molti sintagmi indicativi
delle visioni – ultima salute,
sommo piacer, etterno lume, alta luce,
somma luce, valore infinito, luce etterna,
vivo lume, alto lume – sempre allo
stesso modo, con dei generici e ripetitivi
‘Dio’, ‘luce divina’. La verità è
che queste coppie di aggettivo con
sostantivo indicano apparizioni specifiche,
l’una diversa dall’altra e sussistenti
di per sé, ipostasi che l’itinerarium
in Deum prevede in due momenti
di incontro: l’uno con la Seconda
Persona, la tradizionale alta Luce
che da sé è vera, tratta da Giovanni e
già presente in san Francesco e in Iacopone;
l’altro, consecutivo, con la
Prima (il Valore infinito). La prova di
tale distinzione si cava specialmente
dal fatto che il poeta sottolinea con
molta chiarezza la differenza tra gli
effetti legati a ciascuna delle due ‘viste’:
si transita dal “poter non peccare”
dei vv. 76-81 – dove è recuperato
l’iniziale tema dello “smarrimento”
(Inf. I, 3), e cioè il posse non peccare,
che permane anche successivamente
all’incontro col Figlio, per residui di
mortalità – al “non poter peccare” dei
vv. 100-102, il non posse peccare, che si
consegue al momento della “giunzione”
col Padre. Dalla: imperfezione
della “possibilità” alla perfezione
della “impossibilità”, che si raggiunge
al culmine della carità: dottrina di
cui si argomenta nella teologia morale
dei Padri della Chiesa.
Sorpresa finale: la rota ch’igualmente
è mossa, nel penultimo endecasillabo
del poema, rimanda alle quattro
rotae della profezia di Ezechiele, che
nella totalità delle esposizioni patrologiche
sono interpretate come prefigurazioni
dei quattro Evangelisti.
Questo comporta che Dante, paragonandosi
a una ruota mossa dallo Spirito
come quelle di Ezechiele, viene
ipso facto a dichiararsi quinto evangelista,
e dunque profeta e scriba di
Dio. Col che si rende necessaria una
rettifica al racconto, generalizzato,
secondo cui nel finale della Commedia
il pellegrino si staccherebbe dal
cielo per tornare sulla terra: quando
invece si tratta della finale investitura
sacra che lo autorizza a scrivere in
pro del mondo che mal vive (Purg.
XXXII, 103).
Laelio Graffige
Giovanni Pontano, Il dialogo di Antonio
e il canto di Sertorio, a cura di F.
Tateo, Napoli, La Scuola di Pitagora
editrice, 2015 (Umanesimo e Rinascimento,
9), pp. 298.
Giovanni Pontano, Il dialogo di Caronte,
a cura di F. Tateo, Napoli, La
Scuola di Pitagora editrice, 2016
(Umanesimo e Rinascimento, 10), pp.
186.
Francesco Tateo ci ha donato, nel
corso della sua proficua ed attivissima
carriera di studioso, molti dei più
importanti contributi intorno alla nostra
letteratura umanistica, in particolare
di ambito meridionale e Pontano
è certamente tra tutti l’auctor
con il quale la scrittura del critico si
misura ogni volta con volitiva alacrità
e risultati illuminanti. Nel 2015 e
nel 2016, per i tipi de La scuola di Pitagora,
nell’ambito della Collana
Umanesimo e Rinascimento, diretta da
Gerardo Fortunato e promossa dalla
Società di Studi Politici, sorta in seno
all’Istituto Italiano per gli Studi filosofici,
Tateo ci ha offerto l’edizione
408 recensioni
critica di due dialoghi pontaniani:
Antonius e Charon. L’organizzazione
dei due volumi è analoga: ad una Introduzione,
in entrambi i casi molto
ampia, arricchita da esaustivi riferimenti
bibliografici, segue la Nota al
testo; il dialogo, con il testo latino a
fronte, è corredato di note filologicocritiche
a piè di pagina; entrambe le
edizioni sono chiuse dall’Indice dei
nomi.
L’Antonius, seguito dal Sertorius, in
elegante traduzione con testo latino
a fronte, è preceduto da un’Introduzione
che comincia con un viaggio
nella Napoli aragonese, in cui Antonio
Panormita fonda l’Accademia
che da lui si chiamerà Porticus Antonniana
e poi, ispirandosi al suo ri-fondatore,
Pontaniana. Tateo costruisce,
attraverso la lettura del dialogo a lui
intitolato, un profilo del Panormita,
che ne evidenzia la predisposizione
al dialogo, la natura elegantemente
faceta della conversazione, il suo
ruolo di animatore, promotore culturale
ed umanista acuto presso la corte
di Alfonso il Magnanimo e poi, per
un decennio, presso quella di Ferrante.
Apertosi con questa memoria del
Panormita, il dialogo si chiude con
una presentazione autoironica del
Pontano e della sua nuova Accademia.
Il continuum tra i due personaggi
che informano del proprio modus
agendi un’intera età appare nella ricostruzione
di Tateo perfettamente circolare
e chiarisce con grande evidenza
i caratteri peculiari dell’umanesimo
napoletano in età aragonese:
«Questo ideale umano e culturale di
rinnovamento, pervaso da una vena
comica, può ricondursi all’insegnamento
di Antonio Panormita, che nel
dialogo ora a lui intitolato viene considerato
come un maestro dalla tempra
socratica, dotato di una fondamentale
vocazione critica, pronto a
riversare la sua sapienza soprattutto
nella conversazione, e, pur senza rinunciare
talora ai toni accesi della
polemica e talora dell’invettiva, a
contenerla nei limiti della moderazione
e perfino dello scherzo» (p. 12).
Tra gli insegnamenti dell’Antonius
spicca l’affermazione che il superamento
dell’osceno si ottiene mediante
«il leggero sorriso del racconto», in
un’ottica che attribuisce medesima
legittimità al comico e al severo nel
dialogo umanistico, inferenza feconda
per la trattatistica pontaniana successiva,
basti l’esempio del De sermone.
L’interesse del dialogo risiede
anche nel suo configurarsi come luogo
autobiografico, in cui il Panormita
non è che lo specchio del Pontano,
che, indicando nel protagonista del
dialogo un esempio di humanitas, sta
in realtà costruendo per sé questa
immagine. L’analisi di questo dialogo
pontaniano, del suo stile, dei contenuti
e delle sue fonti induce Tateo
ad affermare che «I dialoghi, insomma,
sono lo specchio della formazione
dell’autore, accompagnano l’evoluzione
dei suoi interessi e delle sue
esperienze, in questo senso della sua
biografia intellettuale, più che essere
una scelta di genere in una fase o in
un percorso definito della sua carriera
di scrittore. Di qui la loro disparità,
che nell’Antonius trova al suo interno
il massimo di espressione nella
struttura composita e nel fatto di costituire
la testimonianza di una svolta,
di cui la rifondazione dell’Accademia
è il segno più evidente» (p.
16). Tra i dialoghi pontaniani, come
Tateo non manca di sottolineare,
l’Antonius è forse il più frammentario.
Quest’accusa di frammentarietà
recensioni 409
nasce dalla sua struttura: una prima
parte incentrata sul Panormita è seguita
da due macchiette, quella di un
passante che poi si rivela un augure e
quella di un vecchio innamorato. Al
centro del dialogo s’inserisce il motivo
autobiografico e poi un «poeta
personatus» racconta in versi al popolo,
per strada, la guerra di Sertorio.
La varietà linguistica, che trasforma,
per certi versi, alcuni luoghi
del dialogo, in una sorta di pastiche,
contribuisce a connotare l’Antonius
come uno degli spazi in cui è meglio
esemplificato quel ciceronianismo
critico che renderà la posizione stilistica
di Pontano ben più articolata di
quella dei suoi contemporanei. Inoltre
questa policromia linguistica e
stilistica ha anche una ragione contenutistica:
la querelle messa in scena
nel dialogo tra «catalani» e «graecissantes
», alimentata dall’oscenità del
volgo, esprime quella malinconia intellettuale
generata dall’amara consapevolezza
che il secessus degli intellettuali
dal popolo si è definitivamente
consumato. Tateo scrive, in
maniera assai convincente: «In effetti
la rappresentazione dell’Accademia,
quale appare nell’Antonius, nasce da
questa particolare disillusione e dalla
coscienza aristocratica di realizzare
la vita letteraria e culturale lì dove
ormai solo può realizzarsi, non più
nelle strade, all’aperto, nel vivo contatto
con gli uomini, come era avvenuto
nell’ideale stagione inaugurata
da Antonio Panormita, ma nel privato
ritiro dove si raccolgono i migliori
» (p. 18). Gli ultimi settecento versi
del dialogo sono un epillio, raccontato,
come si è detto, da un «Poeta personatus
»; ad essi Tateo dà il titolo di
Sertorius, perché appunto riguardano
la storia del ribelle che, dando un
colpo all’impero romano, aveva sognato
di conquistare la Spagna. I versi
si snodano a costruire un epillio,
dalla forma virgiliana e dall’intonazione
eroicomica. L’effetto comico è
sapientemente costruito dal «poeta
personatus», che, nella selva di nomi
barbari, introduce personaggi con i
nomi dei suoi amici dell’Accademia,
che per Pontano deve, evidentemente,
imparare a guardare ai tempi che
cambiano con atteggiamento più sereno
ed interlocutorio. Il senso dell’epillio
è per Tateo evidente: «Al di là
del gioco dei nomi e della trovata per
cui le sorti della guerra sono affidate
all’antenato Pontius, controfigura
dell’autore,
e alla sua rudimentale
arma da fuoco (vv. 547-663), non possiamo
fare a meno di pensare ad un
travestimento della narrativa epica
medievale e popolare nelle forme di
un poema classico-umanistico ispirato
all’impresa sfortunata di Sertorio»
(p. 32).
Insieme all’Antonius, nel 1491,
compare anche il Charon, presumibilmente
scritto però prima del 1471,
data della morte del Panormita che
nel dialogo – fa osservare Tateo – è
ancora vivente. L’edizione che ne cura
Tateo, per i tipi de La scuola di Pitagora,
nella medesima collana in cui
un anno prima era uscito l’Antonius,
si apre con un’esaustiva Introduzione
che aiuta, anzitutto, a definire il
ruolo dei dialoghi nella policroma
produzione pontaniana. Scrive, infatti,
Tateo, che la prosa pontaniana è
percorsa da due tendenze parallele:
«l’una verso l’analisi dell’etica, la riflessione
sul comportamento civile e
sociale, la divulgazione astrologica,
l’altra verso il piacere della parola
come forma di comunicazione familiare,
di riflessione colta, di osserva410
recensioni
zione divertita e rappresentazione
caricaturale del mondo umano» (p.
9).
Ed aggiunge: «Si potrebbe dire che
tutta questa riflessione confluisca in
forma originale e squisitamente letteraria
nei dialoghi, che nel loro complesso
potrebbero rappresentare l’evoluzione
stessa dello scrittore, uno
specchio degli interessi prevalenti
che maturavano progressivamente e
che si manifestavano contemporaneamente
anche nella lirica, nell’epigramma,
nella bucolica, nel poema, e
nella chiosa filologica ai testi classici
» (p. 10).
Del Charon Tateo evidenzia e discute
le fonti, disegnando i confini
dell’ispirazione del dialogo lucianeo
tradotto dall’Alberti proprio laddove
incontrano le suggestioni della Commedia
dantesca, che quei personaggi
e le loro idee sul genere umano aveva
portato alla ribalta già prima della
scoperta umanistica di Luciano. In
un registro doppio, colto e popolaresco,
che contribuisce a conferire al
dialogo un andamento scenico, teatrale,
non estraneo ai successivi dialoghi
pontaniani, appaiono sulla scena
personaggi umani ed esseri mitologici,
che discutono della vita, di
otium e negotium, di antichi e moderni,
di saggezza e politica. La prima
scena presenta Minosse ed Eaco che,
in un insperato momento di calma
(sono poche le anime che devono essere
giudicate, perché sulla terra c’è
incredibilmente pace), discutono degli
uomini e della loro sorte e di vecchiaia
e saggezza, in un’ottica ciceroniana.
Il dissenso tra i due fa parte
del gioco del dialogo umanistico, ma
la prospettiva è chiaramente filociceroniana
e conduce il dialogo alla conclusione
della degenerazione inevitabile
del genere umano, preda
dell’infelicità a causa della propria
stoltezza. La figura di Caronte, il
nocchiero filosofo, approdato, secondo
Minosse, troppo tardi alla filosofia,
sin dalle prime battute pronunciate
nel dialogo, s’interroga sull’inanità
della speranza di felicità, che,
nonostante l’evidenza di una degenerazione
disastrosa, continua a nutrire
l’animo umano. Il tema dell’infelicità
dell’uomo è un motivo che
percorre tutto il dialogo ed investe
ovviamente la contemporaneità. Lo
sguardo disingannato di Caronte,
per quanto rozzo ed aspro resti questo
suo “tardivo” filosofeggiare, ricorda,
per certi aspetti, quello dell’umanista
che vede la degenerazione
dei costumi presenti e non può che
nutrire nell’animo il desiderio nostalgico
di un ritorno ad un passato
che, tuttavia, sa già concluso. Tateo
scrive: «Il discorso sulla ‘inutile’ speranza
degli uomini, sui loro limiti,
cui vanamente essi cercano di sfuggire
con la presunzione di divinare il
futuro, è il segno più palese di questa
visione del mondo umano, combattuto
fra la sapienza e la stoltezza: la
sapienza non è ingenuità o fiducia
nell’ordine divino del creato, ma è
coscienza, è cultura, è superamento
della incontinenza bestiale, dell’uso
volgare dell’intelligenza, della rudimentale
ed imbarbarita scienza dei
grammatici, della ottusa credenza
popolare, per la quale non c’è in queste
pagine alcuna commiserazione»
(p. 21).
Caronte, nel registro comico in cui
Pontano lo colloca, si configura, insomma,
come l’ordito di quell’irrisolto
dibattito sui confini di sapienza
e stoltezza e sulla capacità del saggio,
dell’umanista, sembra suggerire
recensioni 411
Tateo, di non lasciarsi imprigionare
dalla prima, fino a degenerare, rovinosamente,
nella seconda.
Daniela De Liso
Giampiero Di Marco, In mezzo al
guado. Pasquale De Luca (1856-1929),
Napoli, Paolo Loffredo Iniziative
Editoriali, 2016, pp. 214.
Gli anni del secondo Ottocento videro
Napoli impegnata nella rinascita
del suo profilo culturale e – in particolare
– letterario. La città si trovò a
fronteggiare un doppio versante di
crisi: da un lato, quella che un tempo
era stata la capitale del Regno borbonico
si era trasformata in una semplice
città, ereditando tutti i problemi
che tale passaggio comportava; dall’altro,
lo Stato unitario tanto pubblicizzato
si era rivelato deludente nella
realtà fattuale. Gli intellettuali napoletani
reagirono a questa situazione
di difficoltà affidando la loro voce
alle pagine di giornali e riviste di piccole
e grandi dimensioni. In questo
gruppo di artisti, che includeva nomi
come Salvatore Di Giacomo, Matilde
Serao, Federigo Verdinois e Ferdinando
Russo, v’era anche Pasquale
De Luca, il cui profilo biobibliografico
è ricostruito da Giampiero Di
Marco in un volume interamente dedicato
alla figura dello scrittore nativo
di Sessa Aurunca.
Di Marco scandisce la vita di De
Luca anno per anno, esaminando
tutte le sue pubblicazioni. Questa
microripartizione è inserita in tre più
ampie macroripartizioni che isolano
gli anni della Formazione (1865-1896),
della Maturità (1896-1910) e della
Maniera (1910-1929).
L’avventura letteraria di De Luca
iniziò a Napoli, con le prime prove di
scrittura lirica e narrativa sulle testate
locali. Giunse in breve alla collaborazione
con le riviste di tutta Italia e
unì al lavoro di scrittore quello di
giornalista, facendo coincidere la sua
con una delle più usuali figure del
periodo, quella dello scrittore-giornalista.
È questo il periodo della più
ampia produzione, con la pubblicazione
di un considerevole numero di
romanzi e raccolte di racconti.
La seconda fase della produzione
di De Luca si aprì con il trasferimento
a Milano nel 1896: nella città lombarda
gli fu affidata la direzione di
«Natura ed Arte», direzione che lascerà
nel 1909. Alla già consolidata
produzione narrativa, lirica e drammatica,
De Luca affiancò la scrittura
di testi di canzoni e il ruolo di librettista
di opere liriche. La chiusura di
questo secondo periodo, tuttavia,
coincise con la fine della sua parabola
ascendente.
L’ultimo periodo, quello che Di
Marco definisce “di maniera”, vide
De Luca impegnato ad allargare
sempre più il suo pubblico, con un
conseguente abbassamento del livello
degli scritti. Assunse per sedici anni
la direzione della rivista «Varietas
», della quale fu anche proprietario
e per la quale il figlio illustrò molte
copertine. Il fallimento della rivista
nel 1928 fu un colpo durissimo
per lo scrittore.
Il volume è chiuso da un’ampia sezione
bibliografica nella quale sono
riportati, oltre ai vari pseudonimi
utilizzati da De Luca nel corso della
sua attività, tutti gli scritti in ordine
cronologico, con indicazione del contenuto
e della testata giornalistica in
cui i testi furono accolti.
412 recensioni
È un lavoro che mancava alla bibliografia
della letteratura italiana
tra Otto e Novecento, perché restituisce
agli studiosi una figura molto
citata, ma poco studiata per la difficoltà
del reperimento del materiale
apparso sulle numerose testate giornalistiche.
Questa ricerca, caratterizzata
dal riscontro di ogni articolo
apparso sui periodici, conferma anche
la validità della produzione letteraria
affidata alle colonne dei giornali
e, spesso, mai più raccolta in volume,
come dalla capillare e cronologica
descrizione del Di Marco si evince
per Pasquale De Luca.
Fara Autiero
Eduardo De Filippo e il teatro del mondo,
a cura di Nicola De Blasi e Pasquale
Sabbatino, Milano, Franco-
Angeli, 2015, pp. 318.
Pubblicato in seguito al convegno
internazionale Eduardo De Filippo e il
teatro del mondo, nato per commemorare
De Filippo a trent’anni dalla sua
scomparsa (ottobre 1984-ottobre 2014)
e incentrato sul problema della trasposizione
delle opere eduardiane in
altre lingue, questo volume si pone
come base necessaria per chiunque
voglia cimentarsi nel complesso sistema
del teatro di Eduardo e delle
sue traduzioni.
Molti, quindi, sono i contributi incentrati
sul problema della resa dei
testi in lingua non originale, a partire
dalla riflessione di Renato Quaglia
sul dissestato solco tracciato tra l’atto
di “tradurre” e quello di “tradire”.
Mariano Rigillo presenta la sua esperienza
di regista di una versione araba
della Filumena Marturano messa in
scena al Cairo; Armando Rotondi ridisegna
la “geografia” di Eduardo,
soffermandosi su traduzioni e adattamenti
presentati nell’Europa dell’Est,
in Giappone e nell’America del
Sud. Jocelyne Vincent approfondisce,
invece, le versioni inglesi della
Filumena Marturano e l’accoglienza
da parte della critica, mentre Georgios
Katsantonis esamina la ricezione
della drammaturgia eduardiana
in Grecia.
Eterogenei, come del resto lo è l’intero
universo di Eduardo, i contributi
non incentrati sul problema della
traduzione. Tra essi, Joseph Farrell
sottolinea le disparità e le analogie
tra il teatro di De Filippo e quello di
Dario Fo; Gino Ruozzi estrapola una
filosofia “in pillole” da alcuni personaggi
eduardiani; Maurizio de Giovanni,
a partire dall’incontro del suo
commissario Ricciardi con il teatro di
Eduardo, presenta una riflessione sui
valori degli anni Trenta del Novecento
e del dopoguerra; Gianni Cicali
indaga le modifiche apportate da
Eduardo al testo settecentesco de La
monaca fauza di Pietro Trinchera; Giulia
Tellini si concentra sulla figura di
Filumena Marturano come moderna
Medea, evidenziandone i tratti caratteristici
nel passaggio dal manoscritto
dell’opera alla versione a stampa;
Edoardo Sant’Elia esamina Natale in
casa Cupiello, Napoli milionaria! e Questi
fantasmi! in base ad alcuni motivi
tipici delle riflessioni di Stanislavskij,
Brecht e Artaud; Francesco Saponaro
si concentra sulle figure di Scarpetta
e Pirandello e sull’influenza che ebbero
nelle opere di Eduardo; Francesco
De Cristofaro rintraccia i temi del
dono “velenoso”, dell’eredità e della
critica alla borghesia nella produzione
eduardiana; Teresa Megale esamirecensioni
413
na l’utilizzo della maschera di Pulcinella
da parte di De Filippo; Antonio
Saccone presenta le critiche di Domenico
Rea e Raffaele La Capria alla
Napoli messa in scena da Eduardo;
Vincenzo Caputo prende in esame
alcune lettere inviate dal drammaturgo
a Paolo Ricci.
Nel complesso, tutte queste voci si
impegnano a tracciare con estrema
attenzione la fisionomia di un Eduardo
sempre attuale, la cui produzione
è divenuta ormai un classico del nostro
tempo, un teatro che parla al lettore
di oggi con la stessa violenza e la
stessa acutezza che aveva nel secolo
passato.
Fara Autiero
Il teatro fra scrittura e pratica della scena.
Per Franco Carmelo Greco, a cura di
P. Sabbatino e G. Scognamiglio,
Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane,
2015, pp. 284.
Il testo, come indica il sottotitolo,
nasce dalla volontà di omaggiare
Franco Carmelo Greco, docente di
Letteratura teatrale italiana e Storia
del teatro moderno e contemporaneo
presso l’Università degli Studi di Napoli
“Federico II” e raccoglie, oltre
agli Atti del Convegno del 2008 da
cui il libro trae il nome, anche il resoconto
di successivi seminari in memoria
di Greco.
Il volume presenta una duplice ripartizione
in Contributi e Testimonianze,
ma non è complicato per il lettore
suddividere la sezione dei Contributi
in due parti ben separate. Un gruppo
di testi, infatti, si concentra sulla figura
di Greco, analizzandone il pensiero
artistico e civile (Pasquale Sabbatino),
le modalità d’indagine teatrale
(Monica Brindicci), l’immagine
di ricercatore (Francesco Cotticelli),
la produzione poetica inedita (Tonia
Fiorino), le sue idee sul teatro del
’900 (Matteo Palumbo), ricostruendo,
infine, l’intera bibliografia dei suoi
scritti (Fausta Maria Greco).
Un secondo gruppo ideale è rappresentato
da tutti quei lavori “ispirati”
da Greco, testi che senza la sua
preliminare attività probabilmente
non sarebbero mai venuti alla luce.
Abbiamo, quindi, l’esame della pubblicistica
teatrale napoletana ottocentesca
di Fabrizio Coscia; l’analisi
dei criteri filologici utilizzati da Greco
nei suoi volumi sul teatro settecentesco
e ottocentesco di Nicola De
Blasi; la riflessione sui circenses e il
circo moderno di Luigi Allegri; quella
sul teatro della santità, ossia le manifestazioni
rappresentative, iconografiche
e musicali collegate al culto
dei santi di Marcella Campanelli; lo
studio sul teatro dei burattini all’interno
della letteratura inglese (in
particolarmente su Chauser, Shakespeare,
Jonson e Dickens) di Stefano
Manferlotti. E, ancora, l’analisi dell’evoluzione
del personaggio di Pulcinella
e il suo utilizzo nel teatro contemporaneo
di Antonia Lezza; lo
studio sull’officina di Cammarano
per la scrittura della Lucia da Lammermoor
di Paologiovanni Maione; l’esame
del topos della monacazione forzata
nella narrativa, poesia e nel teatro
del XVIII secolo di Giuseppina
Scognamiglio.
Potrebbe fare gruppo a sé lo splendido
contributo di Paolo Puppa, nato
dal desiderio di riparare all’inadempimento
di un copione su Eleonora
Pimentel Fonseca che Greco gli aveva
affidato anni addietro. A questo
414 recensioni
volume Puppa affida un testo inedito,
Lezioni di Storia, sorta di agitato e
disarmante reality-talk tra personaggi
storici e letterari.
Chiudono il testo le Testimonianze
di Giorgio Fulco, amico e collega,
Francesco Piccolo, allievo, e Virginia
Iorio, moglie di Greco. Il profilo da
essi presentato riflette l’immagine
dello studioso, dell’amico fraterno,
del collega leale, del maestro, del
compagno di vita, del ricercatore,
tutti volti che, grazie all’impegno attivo
dell’Uomo e del Professore, resteranno
saldi nel tempo.
Fara Autiero
Poesia religiosa nel Novecento, a cura di
Maria Luisa Doglio e Carlo Delcorno,
Bologna, Società Editrice Il
Mulino, 2016, pp. 282.
Anche questo volume pubblicato
nella collana di studi della Fondazione
Michele Pellegrino – Studi fonti
documenti di storia e letteratura religiosa
– si qualifica non tanto come
una miscellanea di saggi, ma come
una monografia a più voci, magistralmente
orchestrata da Maria Luisa
Doglio e Carlo Delcorno. Il volume
raccoglie otto saggi di letteratura
religiosa, accomunati da un solido
scavo filologico e critico che porta alla
luce autori e testi fra i più significativi
del Novecento. «Le opere prese
in esame – scrive Doglio nella Premessa
– toccano più o meno direttamente
temi, problemi e nodi centrali
nel dibattito di credenti e non credenti
» (p. IX).
Ad aprire il libro è Giorgio Forni
che con il contributo Pascoli e il Vangelo
della natura offre «le linee generali
del discorso sulla poesia religiosa
nel Novecento» (p. XI) come nota
giustamente Delcorno nella sua ben
congeniata Introduzione. Forni, in
particolare, si avvicina all’incompiuto
Piccolo Vangelo pascoliano: opera
in cui può scorgersi, «pur nei suoi
esiti modesti e frammentari», il «banco
di prova di una parola poetica»
che aspira «a portare dinanzi a un
Dio assente le voci della natura, le
sostanze del mondo e gli abissi del
cosmo in una sorta di rito corale che
interroga il mistero umile, quotidiano
dell’esistere» (p. 34). Considerando
l’idea costitutiva del progetto di
Pascoli, commenta l’autore, è possibile
ricostruire «una costellazione tematica
d’ambito spirituale che avrà
una sua rilevanza nella poesia del
Novecento fino a Pier Paolo Pasolini
e Giorgio Caproni» (p. 30).
Nel successivo saggio Giovanni
Baffetti segue la riflessione sulle allegorie
dantesche che accompagna
Clemente Rebora negli anni precedenti
la conversione, «vissuta e interpretata
come un processo di morte e
di rinascita spirituale, nel solco della
dialettica paolina che oppone
l’“uomo vecchio” all’“uomo nuovo”
risorto in Cristo» (p. 48) (Allegorie della
conversione: Rebora e Dante). Nella
documentazione esaminata dallo
studioso si delinea un disegno coerente
di miti e figure della poesia
dantesca, di allegorie che colgono
l’esperienza individuale del poeta
«conferendole un valore universale».
Per Rebora, nei lunghi anni di silenzio
dopo la tappa decisiva della conversione,
si realizza il passaggio «alla
nuova poetica di un simbolismo
che non è più quello di Baudelaire o
di Mallarmé, bensì quello antichissimo
della tradizione cristiana, volto a
recensioni 415
riconoscere nelle multiformi apparenze
del mondo creato l’impronta, il
sigillo inconfondibile del Creatore»
(p. 50). Secondo quanto osserva ancora
Delcorno, «quasi di necessità»
Dante è la guida di questo nuovo
modo di intendere la scrittura poetica.
«Solo che ora l’Amore al quale
Rebora fa riferimento – afferma Baffetti
– non è più il dettatore stilnovistico
del dialogo purgatoriale tra
Dante e Bonagiunta, ma l’“amor che
move il sole e l’altre stelle”, Dio primo
motore e primo amore dell’universo,
di cui il poeta si fa scriba devoto
» (p. 51).
Con una analisi raffinata, puntuale
ed opportunamente articolata, Guido
Laurenti – nel terzo saggio qui
raccolto – si accosta a sua volta al
complesso universo poetico di Turoldo,
«frate servita di origini friulane e
poeta, scrittore e assiduo comunicatore
della Parola» (p. 54) (Poesia e profezia
in David Maria Turoldo). L’autore
individua i tratti tanto del profeta
quanto del teologo nell’identità del
poeta, designato «a contemplare il
mondo in modo immediato», a scorgere
la «rivelazione dell’essere agli
occhi dell’uomo» pur con la costante
apprensione di interporre ingiustificate
categorie della razionalità (Delcorno,
p. XIV). Dalle pagine di Laurenti,
dense di lucidissime argomentazioni
critiche e filologiche, affiora
non solo il panorama di riferimento
teologico di Turoldo, ma anche la sua
articolata riflessione antropologica;
e, parimenti, emerge il senso dei richiami
e delle presenze bibliche, che
assumono «la fisionomia di una parola
viva e attiva, attuale ed efficace
[…] senza per questo perdere la vitalità
religiosa connessa al panorama
culturale e di fede nel quale hanno
avuto origine» (p. 83). Emblematico,
infine, il richiamo alla riflessione sul
silenzio: «forse il tratto che più colpisce
» delle tante direzioni della poesia
di David Maria Turoldo. «La poetica
della “silenziosità” – per rievocare
una parola testuale di Turoldo – e la
retorica del silenzio, che ne è l’ossimorica
traduzione in parole» – conclude
molto opportunamente Guido
Laurenti – rappresentano «un nodo
centrale della sua scrittura in versi: la
“silenziosità” e il “silenzio”, lontani
dal qualificarsi come forme di rinuncia,
assurgono a modalità comunicative
del mistero dell’essere» (p. 93).
Roberto Risso dedica il suo saggio
al linguaggio poetico del volume Parole
di Antonia Pozzi: «diario in versi
di un’anima sensibile e sofferente,
tesa fra ansie metafisiche e volontà
etica di offerta e realizzazione» (p.
95) («Dov’era Dio?». Fra Speranza e offerta:
il sentimento religioso in Parole di
Antonia Pozzi). Lo studioso, soffermandosi
sulla poesia della Pozzi, ne
constata il legame «stretto e costante
fra parola, preghiera e offerta»: in
particolare questa poesia «si avvicina
a temi e aspetti religiosi attraverso
l’uso delle parole – verba – in funzione
evocativa, di preghiera, analisi,
denuncia, riflessione, richiesta e protesta
» (pp. 104, 105). Il sentire religioso
della poetessa, la “verità” del suo
sguardo, si possono riconoscere in
«una trama di realtà sovrasensibili»,
in «un sistema di simboli in gran parte
desunti dal contesto biblico» (Delcorno,
p. XVIII). Su tutto – spiega
comunque Risso – si distingue
l’«intenso e problematico» rapporto
di Antonia Pozzi con la poesia, «distillato
del proprio sapere e della
propria necessità di espressione prima
e di comunione e offerta poi, im416
recensioni
possibile sintesi di vissuto e mondo
interiore» (p. 121).
Con una lettura per molti punti vista
inedita, Francesco Ferretti esplora
il contenuto dell’ultimo libro di Giorgio
Caproni, Il Conte di Kevenhüller, e
più precisamente Altre cadenze, l’ultima
sequenza che «va letta come un
libro nel libro» (p. 137) (Dio e altro.
«Altre cadenze» e «Il Conte di Kevenhüller
» di Giorgio Caproni). Punto di
avvio del saggio di Ferretti è il problema
connesso alla «ricerca teologica
» che anima i versi di Caproni («intesa
come un ironico e, al tempo stesso,
amaro, doloroso o addirittura
rabbioso interrogarsi sulla presenza
di Dio assente», p. 125). Lo studioso
segue dunque lo svolgersi della ricerca
religiosa del poeta, sin dove
questa raggiunge e «sperimenta le
sue forme più originali e paradossali
» (secondo una ulteriore osservazione
di Delcorno, p. XVII); in ogni
caso, nel ricorrere dei momenti teologici,
«il tema di Dio non è solo e si
mescola e si confonde con quello della
parola e della ricerca di senso» (p.
142). Accanto alla complessa analisi
dell’argomento teologico, l’autore
non manca poi di soffermarsi sulla
forma musicale del libro: «Altre cadenze
è una sequenza drasticamente
eterogenea, ma di un’eterogeneità
studiata e per nulla subita. A tenere
insieme pezzi così difformi è l’imitazione
virtuosistica di una forma musicale,
la quale si esprime in quello
che Caproni definisce il sistema della
variazione continua» (p. 145).
Claudio Gigante propone ai lettori
una chiara interpretazione delle poesie
di Mario Pomilio (più conosciuto
come romanziere), raccolte in un volume
edito postumo dal figlio («Dolci
emblemi / D’impensabili veri». L’esperienza
religiosa nella poesia di Mario Pomilio).
In particolare il saggio di Gigante
si concentra sulla raccolta Emblemi
– contemporanea a una svolta
fondamentale dello scrittore, ovvero
alla sua «riscoperta di appartenenza
cristiana» – nella quale si ritrovano i
«segni di un cristianesimo angosciosamente
problematico, mai banale,
mai consolatorio» (p. 176). Nei suoi
versi Mario Pomilio osserva costantemente
«il mistero della vita altrui»:
un mistero di certo intrecciato col tema
«della conoscibilità del divino
attraverso le immagini della realtà
quotidiana» (p. 185). E con pari forza
– chiosa sempre Gigante – il poeta
sembra interrogarsi «sul senso del
vivere, sul dialogo silenzioso che
unisce i viventi a uomini di cui restano
solo labili tracce» (p. 183).
La poesia religiosa di Margherita
Guidacci – «dolente e difficile, vissuta
in una dimensione segreta e però
sostenuta, innervata, dal riferimento
alla liturgia e all’arte sacra» (Delcorno,
p. XXI) – trova sicuri riferimenti
interpretativi nello scritto di Silvia
Serventi (La legge del dono di Margherita
Guidacci). In questo saggio l’autrice
si avvicina, con fine attenzione,
all’opera poetica della Guidacci – curata
da Maura Del Serra – ponendo
in luce «il complesso simbolismo che
accorda il ciclo delle stagioni con la
liturgia e con le tappe di una maturazione
spirituale» (Delcorno, p. XXI).
Per Margherita Guidacci, scrive Silvia
Serventi, «la poesia è una forma
di conoscenza ed è strettamente legata
alla vita, essendo una risposta alle
domande che essa pone» (p. 200).
Questo legame tra la scrittura poetica
e la vita, d’altronde, si ritrova nella
raccolta di carattere più spiccatamente
religioso della poetessa: l’Alrecensioni
417
tare di Isenheim. «Come il pittore ha
saputo rappresentare in modo grandioso
la Resurrezione – afferma nella
conclusione Silvia Serventi – poiché
aveva penetrato a fondo il mistero
della Crocifissione, così Margherita
Guidacci riesce, nell’ultima fase della
sua produzione poetica, a esprimere
la pienezza della gioia poiché
ha attraversato l’oscurità del mistero
della morte» (p. 226).
Il volume si chiude con l’attento e
profondo saggio di Clara Leri, dedicato
alla poesia di Cristina Campo
(Bibbia e liturgia nella poesia di Cristina
Campo). Lo studio indaga il nesso
poesia-liturgia, mostrando come non
sia soltanto la Bibbia a costituire il
repertorio delle immagini utilizzate
dalla scrittrice. Non a caso, la studiosa
nota come la Campo sia affascinata
dal «gregoriano, con la grande forza
dei suoi silenzi e delle sue potenti
riprese» (p. 229). Alla Bibblia e alla
liturgia si aggiunge poi – nota sempre
Leri – «l’arabesco della favola»
attraverso cui «Cristina ritiene cruciale
interrogarsi sulla professione di
incredulità nell’onnipotenza del visibile
» (p. 229). Va anche segnalato come
lo studio rilevi, con estrema attenzione,
il contatto tra la poesia della
Campo e il «divino realismo» proprio
del linguaggio dantesco (Delcorno,
p. XXIV).
A uno sguardo di insieme, i testi
esaminati in questo volume sono
davvero «tra i più significativi della
poesia religiosa nel Novecento» e
«sarebbe fuori luogo lamentare assenze
in un volume espressamente
strutturato su una ristretta scelta di
campioni», come sottolinea correttamente
Delcorno (p. XXV).
Questa monografia a più voci è
dunque un significativo tassello di un
complesso e articolato mosaico, che
attende ancora di essere completato
con studi su autori, opere e contesti
culturali di produzione letteraria.
Franco Quaccia
Il libro al centro. Percorsi fra le discipline
del libro in onore di Marco Santoro.
Studi promossi da R.M. Borraccini,
A. Petrucciani, C. Reale, P. Zito, a cura
di C. Reale, Napoli, Liguori Editore,
2014, pp. 540 con ill.
Siamo chiamati ormai da tempo a
vivere in un’epoca dominata dai
grandi mezzi di comunicazione di
massa e soprattutto dai social che
sembrano diffondere quotidianamente
nuove forme di linguaggio e
di pensiero, e decretare, senza alcuna
possibilità di “appello”, la fine del
librocentrismo ovvero di una cultura
che non può fare a meno della carta e
della scrittura, di idee e pensieri che
privilegiano la qualità sulla quantità,
la lentezza e l’approfondimento sulla
velocità e la superficialità, la formazione
sull’informazione.
Potrebbe pertanto apparire come
una sorta di “provocazione” o di nostalgica
iniziativa la pubblicazione di
un volume cartaceo di oltre cinquecento
pagine intitolato Il libro al centro
e per giunta impreziosito da
un’immagine di copertina che riporta
la tarsia di un coro ligneo raffigurante
un codice medievale. E invece
basta sfogliare le prime pagine per
rendersi conto che si tratta di un’opera
che aiuta il lettore ad immergersi
in un mondo che conserva ancora il
suo fascino e che continua a vivere e
a dare i suoi frutti nonostante i miti e
i riti di una malintesa modernità. E
418 recensioni
che nello stesso tempo dimostra di
poter raccogliere le sfide di un presente
in continua evoluzione e di un
futuro carico non solo di pesanti incognite
ma anche di grandi attese e
speranze.
Si tratta di una corposa miscellanea
di studi fortemente voluta da un
gruppo di colleghi e amici di Marco
Santoro in occasione del suo sessantacinquesimo
compleanno e del suo
prepensionamento: dunque, un tangibile,
concreto segno di stima, ammirazione
e amicizia per un docente
universitario e per uno studioso che
sin dagli anni giovanili ha messo il
libro al centro della sua esperienza
umana e intellettuale. E i numerosi
saggi rispecchiano le articolate declinazioni
di quell’impegno sospeso fra
storia del libro e bibliografia, fra archivistica
e biblioteconomia, fra pubblicazione
di riviste specialistiche e
direzione di istituti e progetti di ricerca,
fra docenza universitaria e
promozione culturale, fra organizzazione
di convegni di studio e ideazione
di un sito di grande interesse
ed utilità per chi si occupa di lingua e
letteratura italiana come Italinemo.
In realtà, il volume è suddiviso in
sei grandi sezioni che prendono in
esame i più importanti “nodi” tematici
e problematici che hanno caratterizzato
l’operosità scientifica di Santoro:
a partire, per es., dalla prima
parte dedicata al rapporto tra biblioteche
e intellettuali, fra raccolte librarie
più o meno pubbliche e studiosi
italiani e stranieri nonché agli orientamenti
più recenti di discipline come
la biblioteconomia e la bibliografia,
mai come in questi tempi alla ricerca
di nuovi statuti per il presente e
soprattutto per un futuro che si annuncia
digitale e che perciò richiederà
linguaggi e “canoni” da un lato
sempre più sofisticati e complessi
dall’altro ancora più uniformi e standardizzati.
La parte centrale del volume è invece
costituita da una lunga, interessante
serie di saggi che si occupano
di libri di testo scolastici tra Ottocento,
Novecento e nuovo millennio, di
cataloghi editoriali, di cartolai e stampatori
più o meno noti e fortunati al
servizio di committenti laici e religiosi,
di enti pubblici e privati cittadini.
Non mancano a questo proposito
riflessioni su fenomeni di nicchia
come le edizioni private e la stampa
d’arte, su generi editoriali “minori”
(pronostici, ricettari, testi agiografico-
devozionali, guide odeporiche e
itinerari) oppure ancora su aspetti
più propriamente bibliologici come
le legature con i relativi fregi di cui si
ricordano non solo la funzione protettiva
ma anche la dimensione semiotica
e ideologica.
Quanto mai ampia e stimolante
l’ultima sezione della miscellanea
che rinvia ad uno degli aspetti più
innovativi e fecondi dell’impegno
scientifico di Marco Santoro ovvero il
rapporto fra testo e paratesto, fra parola
e immagine e l’importanza non
solo strettamente tipografica ma anche
storica, culturale e politica della
dedica nella produzione editoriale e
nel commercio librario della società
di Antico Regime.
Infine, a proposito di paratesto e
dedica, il volume è introdotto da una
premessa e da un profilo biografico
del “dedicatario” firmati dalla curatrice,
Carmela Reale, e completato
dalla bibliografia degli studi di Santoro
(1973-2013) nonché da un utile,
nutrito indice dei nomi “scritto” in
gran parte da quei sedentari uomini
recensioni 419
di biblioteca che, come ricordò Luigi
Russo nel ’44 in occasione della riapertura
dell’Università di Pisa, spesso
“hanno avuto ragione sul fatuo e
gracchiante o belante ottimismo degli
uomini della piazza”.
Un’opera, insomma, così articolata
e densa, così ricca di erudizione e gusto
per la ricerca che mette a sua volta
il lettore “al centro” di una fitta
trama di studi, di diversi, molteplici
percorsi di approfondimento: un lettore
che ha così l’opportunità di scegliere
quello più vicino ai propri interessi,
fra antichi e moderni, fra
scritture analogiche e digitali, fra biblioteche
di conservazione e archivi
istituzionali, fra cataloghi cartacei e
OPAC, fra open access, metadati descrittivi
e semantici. Insomma, un
vero e proprio omaggio non solo al
Maestro e allo studioso, ma anche alla
singolarità, se non proprio alla
unicità, di oggetti (libri, riviste, giornali)
e di luoghi (biblioteche, archivi,
stamperie, case editrici ecc.) che, attraverso
continue, profonde metamorfosi,
sono stati capaci di cambiare
la storia dell’umanità. Mettendola,
è proprio il caso di dire, al centro
della natura e del mondo.
Pietro Sisto
Narrare l’Alto Adige. 25 anni di racconti
intorno alla provincia meno italiana
d’Italia. Un’antologia, a cura di Toni
Colleselli, Meran-Merano, Edizioni
alpha beta Verlag, 2015 («Traven-
Books», 80), pp. 676.
Un’antologia curata da Toni Colleselli
fissa lo sguardo sull’immagine
dell’Alto Adige nella letteratura contemporanea,
presentando un florilegio
di memorie, reportage, racconti e
brani di romanzo tratti da opere edite
in lingua italiana tra il 1990 e il
2014. Gli autori inseriti, non tutti altoatesini
di nascita o di adozione né
tutti di madrelingua italiana o tedesca,
giungono a una cinquantina.
Ciascun autore, con una sola eccezione,
viene antologizzato sulla base
di un unico volume a stampa: su di
esso si forniscono notizie varie, ivi
compresa la riproduzione fotografica
della copertina, oltreché informazioni
utili sul brano o i brani trascritti
ed essenziali dati biobibliografici.
Aperta da un’introduzione in cui si
abbozza un quadro della società,
della politica e dell’economia del territorio
altoatesino (paradossalmente
avvertito da quelli provenienti dal
sud come luogo di massicci alpestri,
da quelli dal nord come paesaggio
mediterraneo), chiusa da una postfazione
di Paolo Mazzucato, l’antologia
Narrare l’Alto Adige si bipartisce
in una prima parte intitolata Memoria
& Realtà, contenente testi (auto)
biografici e reportage, e in una seconda
recante il titolo Storia & Finzione,
la quale «pur raccontando spesso
(non sempre) avvenimenti realmente
accaduti, elabora questi avvalendosi
di una “libertà” letteraria che
oltrepassa il singolo dato di fatto» (p.
20).
Memoria & Realtà prende l’avvio da
Unvergessen (it. Dimenticare mai) di
Franz Thaler: si racconta della latitanza
dello scrivente durante l’occupazione
del Sudtirolo nella Seconda
Guerra Mondiale e del pericolo degli
informatori dei nazisti. Successivamente
Giorgio Vonmetz Schiano offre
un ritratto dell’imbranato Bubi
Jaworsky, ultimo dei Wolkenstein, il
quale, come ogni sudtirolese, enun420
recensioni
ciava le parolacce in italiano. Italo
Ghirigato si sofferma su una zona
bolzanina del boom economico percorsa
da prostitute e da contadini sopra
trattori trainanti mele. La figura
di Claudio Magris, germanista, vincitore
nel 2009 del prestigioso Friedenspreis
des Deutschen Buchhandels,
non necessita qui di presentazioni:
più che nel romanzo Alla cieca,
osannato dalla critica, Magris mette
in mostra le proprie doti di prosatore
lirico in Microcosmi, il più bel libro
italiano degli anni Novanta. In Antholz,
caratteristicamente intriso di
richiami alla storia contemporanea,
egli dipinge a pennellate fini la Stube
di un albergo in Anterselva di Mezzo:
«il Tirolo – scrive Magris – vanta
una verginità etnica custodita dalle
montagne, endogamia e maso chiuso,
perla germanica serrata nello scrigno,
ma è anche valico e transito,
ponte fra mondo latino e mondo tedesco
» (p. 63).
Joseph Zoderer, oggi il narratore
sudtirolese meglio conosciuto in Europa,
autore dei romanzi Das Glück
beim Händewaschen e Die Walsche (per
quest’ultimo, cfr. ora l’ed. Haymon,
2016, con appendice di Irene Zanol e
Sigurd Paul Scheichl), racconta il suo
vissuto di bambino di quattro anni,
costretto, in quanto membro di una
famiglia di “optanti”, a scambiare il
cielo alpino di Merano con quello
più mitteleuropeo e urbano di Graz,
dal quale presto sarebbero piovute
bombe scaricate dagli inglesi e dai
sovietici. Con dati alla mano, Riccardo
Dello Sbarba documenta la
Rückverdeutschung della val Venosta,
all’interno della quale il gruppo italiano
si avvia all’integrazione tedesca.
Il “bietnico” Paul Renner invece
dichiara «di avere una testa alquanto
tirolese (precisa, logica, caparbia, anche
cocciuta), ma uno stomaco italiano
(ovvero un’interiorità attenta, calorosa,
amante delle cose belle e buone,
che preferisce la qualità alla
quantità)» (p. 135). La studiosa di
tradizioni popolari Brunamaria Dal
Lago Veneri ragguaglia su come Pasolini
girava l’episodio di Ser Ciappelletto
a Bolzano e dintorni. Ancora,
Hans Karl Peterlini rievoca una
giovinezza degli anni Settanta tra
Schützen e radio private, ponderando
sulla scrittura di Norbert C. Kaser,
una delle voci più spietate e innovative
del territorio, passato agli
annali di storia locale per aver auspicato
la macellazione delle vacche sacre,
protagonista dell’antologia di
svolta Neue Literatur aus Südtirol
(1970, a cura di Gerhard Mumelter).
La seconda e più corposa parte
dell’antologia in oggetto, Storia &
Finzione, prende le mosse da Anita
Pichler. Della scrittrice, venuta alla
ribalta con Die Zaunreiterin, si fornisce
un brano tratto da Wie die Monate
das Jahr (it. Come i mesi l’anno) relativo
alla disegnatrice Myriam e all’oggetto
della sua arte, il Minnesänger
Oswald von Wolkenstein. Fabio
Marcotto, in un racconto comico che
pare quasi arieggiare l’arte di Dino
Risi, non soltanto nell’intitolazione
ma anche nelle tonalità, inscena una
corsa frenetica tra le curve della val
d’Isarco, un braccio di ferro stradale
tra una Passat di Colonia guidata da
vacanzieri “Piefke” e una Fiesta con
a bordo alcuni insegnanti ansiosi di
giungere in orario al posto di lavoro
a Bressanone, pena la stizza del preside
e dei suoi occhi azzurri. Di Alessandro
Banda, l’autore italofono più
conosciuto della provincia, si legge
una satira, La guerra dei nomi, in cui il
recensioni 421
dibattito scoppiato intorno al toponimo
Meridiano e alla forma alternativa
e apocopata Meridian si fa specchio
delle tensioni interetniche della
seconda città altoatesina: Meran(o).
Ancora, Tim Parks, scrittore inglese
trapiantato nell’Italia settentrionale,
riferisce la fuga del giornalista televisivo
Harold Cleaver da Londra al
paese di Lutago nella valle Aurina,
fuga che approda a un albergo sordido
e vuoto.
Il più giovane Andrea Montali, nato
a Bolzano nel 1983, come altri suoi
coetanei dimostra di aver frequentato
le pagine di Pier Vittorio Tondelli
(Altri libertini, Rimini) e di Enrico
Brizzi (Jack Frusciante è uscito dal
gruppo); in un notevole impasto linguistico
restituisce qualcosa della
movida del capoluogo. Di squisita
fattura il racconto di un investigatore
privato di Bolzano alle prese con cani
«d’una bruttezza oltraggiosa» (p.
383) e con i di loro padroni, furibondi:
del resto l’autore, Umberto Gandini,
ha acquisito altrettanto merito
in veste di traduttore di Luis Trenker,
Claus Gatterer, Joseph Zoderer, Sabine
Gruber e altri ancora. Un brano
estratto dal best seller di Francesca
Melandri Eva dorme (Mondadori,
2010) – romanzo, si noti, accolto con
favore anche dai sudtirolesi tedescofoni,
sotto il titolo di Eva schläft – narra,
dalla prospettiva di una ragazzina
di nome Gerda, il raduno del novembre
1957 a Castel Firmiano in cui
Silvius Magnago, presidente della
Südtiroler Volkspartei, lanciava il
grido di ribellione: Los von Trient! Fra
le autrici contemporanee di maggiore
sensibilità umana si annovera Helene
Flöss: è suo il Kindersommer in
Nachrichten aus Südtirol. Deutschsprachige
Literatur in Italien (a cura di Alfred
Gruber, 1990), un’indagine psicologica
in grado di vivisezionare i
rapporti di costrizione familiari e sociali.
Qui si trascrive un segmento
del libro sull’anoressia Dürre Jahre (it.
Anni secchi) di cui sono protagonista
Dali e un’esistenza d’inferno a Merano.
Addentrandosi in un terreno non
dissimile, Anne Marie Pircher scava
nella psiche malata di una figlia di
albergatori.
Altrove Michele Ruele, trentino,
ricrea con buona tecnica narrativa la
permanenza meranese di Franz Kafka
nel 1920, inizialmente trascorsa
presso il mitico Hotel Emma. Di Eredità
di Lilli Gruber, giornalista televisiva
di successo, il capitolo riprodotto
si indugia sull’adesione ai valori
del nazionalsocialismo da parte di
una diciottenne del Sudtirolo, Hella,
nel pieno degli anni Trenta – intorno
alla Gruber e, più in generale, alla
narrativa contemporanea sollecitata
dall’ambiente altoatesino, istruttiva
la consultazione di Arnaldo Di Benedetto,
Il «Süditrol Problem» in alcuni
autori italiani, «Il cristallo», ottobre
2015. Il Diario del maestro di Cordés del
meranese Paolo Bill Valente si situa
ancora tra le sopraffazioni del Ventennio
fascista: il protagonista Mario
si scopre ricettivo nei confronti della
cultura allogena, tracciando peraltro
una definizione ineccepibile di quel
termine-nodo Heimat intraducibile
nelle altre principali lingue europee:
«il proprio nido, la cerchia delle conoscenze
e dei parenti, la casa, i prati,
le bestie, le buone tradizioni» (p.
550 – sulla tematica, in ambito narrativo
pantirolese, Gerhard Riedmann,
Heimat. Fiktion – Utopie – Realität.
Erzählprosa in Tirol von 1890 bis heute,
1991). Ernest van der Kwast invece
(Bombay 1981) descrive, quasi con
422 recensioni
occhi da botanico, la coltivazione del
meleto. Sabine Gruber, nel romanzo
Stillbach oder die Sehnsucht (it. Stillbach
o della nostalgia), riflette sull’esperienza
di giovani sudtirolesi trasferitesi
a Roma per esigenze di lavoro.
Sepp Mall infine, uno degli attori
di un recente e assai riuscito Literaturtag
presso la Waltherhaus di Bolzano
(11 febbraio 2017), dà forma
narrativa alle violenze e alle animosità
italo-tedesche che segnarono gli
anni Sessanta in Wundränder, tradotto
in lingua italiana come Ai margini
della ferita.
Dal riassunto di alcuni dei testi inclusi
in Narrare l’Alto Adige dovrebbe
emergere con evidenza l’abbondanza
di storie, argomenti e meditazioni
sulla condizione umana che si stipano
in oltre seicento pagine, quasi tutte
godibilissime. Sfilano davanti agli
occhi del lettore i gruppi etnici: i tedescofoni
della maggioranza, gli italofoni,
costituenti circa un quarto
della popolazione, e, in sordina se
non del tutto assenti, la piccola minoranza
dei ladini, un 4% su un mezzo
milione di abitanti. Si avvicendano
i paesaggi naturali: le montagne,
le foreste, i passi, gli alpeggi, le valli,
i prati e i corsi d’acqua (Isarco, Adige,
Rienza); i grandi centri e le località
minori: Bolzano, Merano, Bressanone,
Silandro, Chiusa e Lutago; le
opere architettoniche e ingegneristiche:
piazza Walther, i Portici, il tribunale,
il monumento alla Vittoria del
capoluogo, l’ippodromo di Merano,
l’autostrada del Brennero; i personaggi
di spicco: la mummia Ötzi, il
martire delle lotte antinapoleoniche
Andreas Hofer, l’impavido canonico
Michael Gamper, Silvius Magnago e,
tra i viventi, l’alpinista Reinhold
Messner; le attività economiche: l’agricoltura
e quel turismo di massa
che ha elevato molti abitanti a un cospicuo
benessere economico; gli svaghi
delle ore libere: le confidenze della
Stube, la passione smisurata della
bicicletta e gli ipercommercializzati
mercatini di Natale; l’enogastronomia:
lo speck, il canederlo, lo strudel,
il vin brûlé, il succo di sambuco oltreché
la “mosa” ossia il venerabile
Muas; il costume tradizionale: il
Dirndl, la Lederhose e il grembiule blu;
i giornali e le riviste: «Dolomiten»,
«Alto Adige» e «Arunda»; le lingue:
dal gergo italo-bolzanino ai dialetti
germanici – per questi ultimi, Insre
Sproch. Deutsche Dialekte in Südtirol, a
cura di Hannes Scheutz, 2016. In una
terra che esibisce come poche altre le
ferite della storia europea contemporanea,
rivestono un ruolo di primo
piano le vicende del Novecento – la
strategia di italianizzazione promossa
dal fascismo di cui è simbolo il
biancore accecante dell’anzidetto
monumento alla Vittoria e che si traduceva
nell’immigrazione di contadini
veneti e meridionali per occupare
posti di lavoro negli stabilimenti
chimici e metallurgici; il trauma delle
Opzioni del 1939; le brutalità e le
rappresaglie della Seconda Guerra
Mondiale; gli ordigni esplosivi dei
Bombenjahre – mi avvalgo del titolo
di uno straordinario progetto teatrale
delle Vereinigte Bühnen Bozen
(2016) – allorché il Sudtirolo dei dinamitardi
veniva da molti bollato
“Sud-Tritolo” (per un panorama,
Rolf Steininger, Südtirol. Vom Ersten
Weltkrieg bis zur Gegenwart, 2014):
tutti elementi all’origine dell’antagonismo
interetnico sondato con esemplare
senso di equilibrio dagli scrittori
antologizzati. Per il tramite di
una perspicace selezione di testi,
recensioni 423
tutt’altro che monotoni e, per giunta,
liberi dai più triti luoghi comuni e
dalle idealizzazioni alpestri alla Heidi,
il curatore dell’antologia, Toni
Colleselli, decanta l’identità della
provincia meno italiana d’Italia, consentendo
di accedere a una realtà
complessa in cui tradizione e innovazione
si incontrano e si fondono: Laptop
und Lederhose, direbbero i tanti
bavaresi sedotti da questa terra. A
una visione limitata e sbrigativa largamente
diffusa da Verona in giù,
secondo la quale il territorio altoatesino
si ridurrebbe a un’oasi di vacanze
sciistiche e di agevolazioni fiscali,
qui si sostituisce un’ottica globale la
cui validità si fonda sulla specifica
acutezza d’intuizione della quale si
rende garante lo scavo letterario.
Dall’antologia risulta evidente come
l’argomento del Tirolo meridionale
innesca l’estro creativo. Sembra
indifferente il genere prescelto o la
scuola di scrittura: vuoi che sia autobiografia,
reportage, racconto o romanzo;
vuoi che lo scrivente usufruisca
di uno stile narrativo tradizionalista,
della prosa deliberatamente
grigia di certi autori venuti al mondo
a metà secolo, del postmoderno abbracciato
dalle nuove leve, esso si
lascia incanalare in testi letterari di
spiccato valore estetico. Non soltanto
l’Alto Adige ha dato i natali a taluni
degli scrittori più dotati del Novecento,
formando una progenie di
narratori da fare invidia a molte altre
province europee più popolose e fornite
di istituzioni scientifiche superiori,
ma esso stesso in quanto materia,
musa ispiratrice, ha favorito la
realizzazione di opere di rara forza
espressiva, fecondando gli strumenti
del raccontare. La causa di ciò sarà
da identificarsi nello stesso carattere
poliedrico di un luogo dove autoctoni,
residenti, forestieri e turisti usano
sedersi sulle panche della medesima
trattoria, dove cime e ghiacciai si alternano
a vigneti e palme, dove a cittadine
festaiole del fondovalle fanno
da contraltare minuscole comunità
isolate nelle solitudini di alta quota.
Si tratta in ogni senso di una terra di
confine, anche di lotte e di contrasti,
nella quale le cicatrici della modernità
si stagliano intimamente percepibili;
una frontiera di convivenza in
cui il plurilinguismo appartiene alla
vita di tutti i giorni, talché si mescolano
il sudtirolese della maggior parte
dei locali, l’Hochdeutsch dei media,
degli istituti di formazione e dei politici
tedescofoni (nonché della marea
di visitatori in arrivo dal nord del
Brennero), l’italiano dell’isola linguistica
bolzanina e delle località urbane
e, ancora, principalmente nella
val Gardena e nella val Badia, la lingua
retoromanza del ladino: uno
spazio che contemporaneamente disorienta
e impone domande storicosociali
di ardua risoluzione a chi lo
elegge a motivo della propria scrittura.
Proprio da tale disorientamento e
dalla conseguente sfida intellettuale
scaturisce il fascino pressoché unico
esercitato sul narratore dalla provincia
autonoma: il Südtirol-Alto Adige
si configura come un pungolo, un
dilemma all’interno del quale cova il
fuoco della letteratura autentica.
John Butcher
Dino Claudio, Incontri nella nebbia,
Torino, Genesi Editrice, 2016.
Per chiarire subito l’impegno dello
scrittore Dino Claudio in questa sua
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ultima prova narrativa occorre far riferimento
ad un brano della stessa.
L’episodio è collocato al giorno 21 di
dicembre; il protagonista si ritrova in
treno diretto a Roma. L’editore lo ha
convocato per affidargli la copertina
e alcune illustrazioni del volume di
un autore tedesco che, cosa veramente
strana, ha imparato l’italiano e
scrive nella nostra lingua (cap. I, p.
14).
“Buon giorno commendatore, mi scusi
se ho osato disturbarla a casa il giorno
di Natale. Ho fretta di partire e penso che
anche a lei prema pubblicare il libro al
più presto”.
“Quanti bozzetti ha preparato?”:
“Ho creduto che per un tale romanzo
non si può preparare che non si vede”.
Il commendatore ride: “Che intende
dire? Non lo ha qui?”.
“Non esattamente; vede, data l’assoluta
originalità del romanzo, il mistero
profondo che racchiude, ho pensato che la
copertina debba essere altrettanto originale
e misteriosa. […] Ho pensato che il
romanzo debba uscire in copertina a colore
unico, possibilmente senza il nome
dell’autore, senza il titolo e senza indicazione
della casa editrice. […] Un simile
libro, scritto per dimostrare come il fatto
estetico sia fino in fondo un fatto di sangue,
deve essere un mistero anche nel
suo modo di presentarsi al pubblico”.
(cap. VIII, p. 142 segg.).
Alla conclusione della narrazione,
la scelta deliberata da parte del protagonista,
un disegnatore e illustratore
di libri, di non eseguire il compito
affidatogli, movente in incipit della
trama, racchiude il senso metaletterario
dello scritto di Dino Claudio,
nonostante, nel gioco di rispecchiamento
tra narratore e autore, l’immagine
figurativa sulla copertina dell’edizione
sembri di segno opposto. Dal
delicato impianto narrativo, riflesso
di vite umane opache, sbandate, aggrovigliate
intorno ad esperienze e
vicissitudini varie, ma prive di approdo
– popolano il racconto personaggi
usuali alle narrazioni di Claudio,
echi del romanzo antico classico,
come matrone megere, serve, indovini,
declamatori, prostitute, amori virginali
– emerge limpidissima la traccia
sulla quale l’autore ha condotto la
sua ricerca esistenziale ed ha sapientemente
concepito l’opera. Questa,
sottraendosi alla possibilità di essere
ascritta ad un genere letterario specifico,
contiene pagine dense di riflessioni
critico-estetiche sulla creazione
letteraria e artistica, elaborate con
una prosa dotta, espressiva, di gusto
poetico nelle avvincenti pagine centrali.
Risulta, al termine della lettura,
che la trama narrativa sbiadisce e
persistono forti, unite alla radice, l’emozione,
per nulla estemporanea ma
duratura, e la riflessione profonda,
frutto di ricerca antica, a recare i segni
della maturità umana ed artistica
dell’autore. Il gioco della narrazione,
condotto sul filo di incontri sempre
diversi, ma ugualmente poco significanti
per il protagonista/autore, sviluppa
via via sempre più incalzante
il tema saggistico portante: il mistero
dell’atto poietico, unica salvezza al
dolore dell’insignificanza dell’esistenza
umana, consumata nel delirio
di soggettivistiche affermazioni di
sé, e unico viatico alla pace, raggiunta
nel ricongiungimento all’Assoluto,
attraverso la comunione intima
con la Natura.
È così che le creature generate sulla
carta da Dino Claudio prendono
vita propria, non diversamente dai
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personaggi usciti dalla mente di Pirandello
e da lui incontrati nei campi
vasti del limbo, come racconta l’anima
del drammaturgo interrogata da
una sensitiva in una seduta spiritica
cui partecipa il protagonista, rimasto
poi deluso per non aver soddisfatto
il suo anelito alla verità (p. 103).
La nebbia si fa medium della vivificazione
della dura pietra, così come
delle effimere parole, nel momento
magico estatico in cui si compenetrano
l’uomo e la natura, la materia e lo
spirito: abbattuti i confini spaziali e
immersi in una dimensione atemporale,
gli uomini si aggirano come ombre,
alleggerite dalla naturale gravità
ponderale del corpo e libere nell’anima;
la nebbia stessa si anima «è una
voce ineffabile come una musica primordiale,
l’armonia del cuore che si
ritrova, e sente la vita non esaurita
nel proprio limite umano, che un
anelito tutto la pervade verso un Assoluto
chiuso nel suo altissimo mistero,
che governa i segreti di ogni
mutamento e i giorni contati del terrestre
pianeta» (p. 76). La nebbia sinestesica
percezione di un suono
dolce, puro e ingenuo, siderale, al
pari del canto dei pastori evocativo
dell’infanzia perduta, della Notte
santa dell’umanità, nenia soave (p.
122) – risalente dagli anfratti della
montagna alpina, grembo accogliente
e crudele dell’uomo (si veda L’alba
dei vinti dell’autore) – «è lunga e affabulante
illusione in cui ognuno si ritrova
nella sua magica sostanza,
quando scomparsi gli elementi del
mondo quotidiano nell’alone del sogno,
emerge dal nostro fondo l’arcano
“perché dell’esistenza” destinato
a rimanere per sempre un grido seguito
da silenzi lunghissimi e profondi,
che danno il senso e la misura
dell’umano» (p. 76 segg.). La nebbia
è la condizione paradossale dell’anima
che, cieca nel «limbo equoreo a
cui più o meno inconsciamente tutti
aneliamo» (p. 54), smarrita in «un
vuoto ed estatico oblio» (p. 78), vede
chiaro il senso delle cose.
La poesia è la vera protagonista
della fabula della vita. Il suo segreto
scorre nel sangue dell’umanità, ma
solo gli ispirati, capaci di congiungere
se stessi all’universo, capaci di superare
l’io personale, soggettivo e
perciò stesso limitato, che incatena
ad un senso infelice di estraneità al
mondo, sono in grado di disvelarne
il significato e di godere di un sentire
universale, in pace. Commovente
l’immagine naturale, sacrale, dei due
alberi «con le radici reciprocamente
aggrovigliate, nei cui tronchi e rami
corre la medesima linfa», metafora
originale della comunione di carne e
spirito tra il romanziere Hansen e il
suo “doppio” Stefano Urbani, rispettivamente
autori di romanzi che entrambi
scopriranno fatalmente e inspiegabilmente
identici sia nel titolo
che nel contenuto: il sangue, offerto
volontariamente dall’Urbani al soldato
sconosciuto, moribondo presso
un convento di cappuccini dove i
personaggi trovano rifugio dopo l’8
settembre 1943, trasfonde dall’uno
all’altro la sostanza umana, l’humanitas,
contenuta nella terra, in cui si
trovano in germe tutte le opere. Nel
donare la sua linfa vitale, il soldato
generoso finisce i suoi giorni, ma sopravvive
nel corpo dell’altro: «una
potenza occulta li aveva legati per la
vita e per la morte» (p. 69).
La stessa potenza occulta avvince
il lettore all’opera di Dino Claudio.
L’anelito religioso all’Assoluto, filo
rosso lungo tutta la produzione
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dell’autore, depurato da ogni residuo
dottrinale in quest’opera, sembra
trovare approdo, prima di una
nuova partenza. L’oscuro apparire di
realtà molteplici si risolve in chiara
rivelazione dell’Unità, la presunzione
personalistica dell’arte è presto
superata dall’umiltà del riconoscimento
della sua universalità, posta
alle radici dell’animo umano. La poesia
è la chiave di volta, il canto che
condanna Orfeo a cantare: «Sempre
la poesia fu legata a una pena. Avessi
l’Amore deporrei la cetra. Pluto lo sa
e si procura la musica facendomi soffrire
nella speranza sempre delusa di
restituirmi un giorno ciò che cerco da
secoli. […] Finché dura il dolore del
mondo in questi segnati dal Fato [i
poeti], non vi lascerà il conforto della
poesia, e il poeta sarà il vostro amico
sicuro, sicuro sicuro…» (p. 106).
Il canto di Dino Claudio si leva in
alto, soffiato dall’anima e nascostamente
sostenuto da una solida téchne
artistica di matrice classica, e ci conforta.
Emmanuele Colonna
LIBRI RICEVUTI
Allegoria e teatro tra Cinque e Settecento: da principio compositivo a strumento
esegetico, a cura di Elisabetta Selmi e Enrico Zucchi, Bologna, I
libri di Emil, 2017, pp. 362.
Bruni Francesco, Tra popolo e patrizi. L’italiano nel presente e nella storia,
a cura di Rosa Casapullo, Sandra Covino, Nicola De Blasi, Rita
Librandi, Francesco Montuori, con la collaborazione di Rosa Piro,
Firenze, Franco Cesati, 2017, pp. 906.
Edmondo De Amicis a Imperia. I. Catalogo dell’archivio, a cura di Diego
Divano, Firenze, SEF, 2015; II. Catalogo della biblioteca, a cura di Diego Divano,
Firenze, SEF, 2015, pp. 82 + 218.
Francesco De Sanctis. 1817-2017, a cura di Enza Biagini, Paolo orvieto,
Sandro Piazzesi, «Rivista di Letteratura Italiana», XXXV (2017), 1,
pp. 382.
Freiles Silvia, La «parola illimitata» di Bartolo Cattafi, Roma, Aracne,
2016, pp. 242.
Giannone Antonio Lucio, Sentieri nascosti. Studi sulla letteratura italiana
dell’Otto-Novecento, Lecce, Milella, 2016, pp. 208.
La forza dell’attesa. Beppe Fenoglio 1963-2013. Atti del Convegno di Studi.
Fondazione Ferrero, Alba, 15-16 novembre 2013, a cura di Valter Boggione
e Edoardo Borra, Alba, Fondazione Ferrero/ Savigliano (Cn),
L’Artistica, 2016, pp. 220.
La poesia dialettale di Nicola G. De Donno. Atti della Giornata di Studi,
Maglie, Lecce, 18 aprile 2015, a cura di Antonio Lucio Giannone, Lecce,
Milella, 2016, pp. 226.
Minervini Francesco Saverio, Le nozze d’Antilesina. Comedia nova e
piacevole del Pastor Monopolitano, Ariccia (Rm), Aracne, 2015, pp. 186.
Pace Filippo, Il romanzo esistenzialista del Secondo Novecento Italiano, Bedonia
(Pr), Rupe Mutevole, 2016, pp. 510.
Reina Luigi, Tra Tevere e Senna. Per arte con amore (romanzo), Roma,
Aracne, 2017, pp. 206.
Temi e voci della poesia del Novecento. Atti del Convegno di studi ”Temi
e voci della poesia del Novecento”, Napoli 30-31 maggio 2016, a cura di
Raffaele Giglio, Napoli, Paolo Loffredo, 2017, pp. 294.
Tommaseo Niccolò, Poesie, a cura di Simone Magherini, Firenze, Società
Editrice Fiorentina, 2016, pp. 542+LXX.